anadiplosi
. Figura retorica, consistente nel ripetere all'inizio di una frase o di un verso l'ultimo termine della frase o del verso precedente. Priva di denominazione in Quintiliano, che la ritrova più frequente nei poeti che negli oratori, essa è indicata da Marziano Capella (Rhet. lat. min., ed. Halm, XLI) come reduplicatio e appare nell'Ars versificatoria di Matteo di Vendôme (III 7) nell'esempio più classico, quello che introduce la reduplicatio per aggiungere una determinazione a un nome proprio. Questo genere di a. s'incontra raramente in D. nella forma tipica che abbiamo detto: in Pg XXIV 19-20 l'a. distingue due versi (questi... è Bonagiunta, / Bonagiunta da Lucca) e sembra rifarsi a un modulo colloquiale, mentre in Pg XXVII 92 essa cade in mezzo al verso (mi prese il sonno; il sonno che sovente / .., sa le novelle) e nella Monarchia è adoperata in funzione non poetica, ma di chiarificazione concettuale (... adhuc essemus filii irae natura, natura scilicet depravata, II XII 1). Altrove invece, pur mostrando l'esigenza di mettere in forte risalto la ripetizione, D. preferisce evitare lo stretto accostamento dei termini, il primo dei quali è collocato nel suo posto naturale, anche se non alla fine del membro (Già era l'angel dietro a noi rimaso, / l'angel che n'avea vòlti al sesto giro, Pg XXII 1-2; Ma Virgilio n'avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per mia salute die'mi, XXX 49-51; li occhi spietati udendo di Siringa, / li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro, XXXII 65-66). E se in Pd XII 6-7 (e moto a moto e canto a canto colse; / canto che tanto vince nostre muse, dove troviamo in funzione felicemente espressiva una ricerca di ripetizioni e allitterazioni), e in Eg II 51-52 (natis de murmure cannis, / murmure pandenti turpissima tempora regis), l'uso dell'anastrofe evita il susseguirsi delle due parole uguali, in Rime CVI 22-24 il primo termine è artificiosamente anticipato con un forte iperbato (Omo da sé vertù fatto ha lontana; / omo no,mala bestia), in modo che lo schema originario è praticamente irriconoscibile. Si tratta tuttavia, in quest'ultimo caso, di un libero adattamento di quel genere di a. chiamato correctio, e che possiamo vedere altrettanto liberamente ripreso in Pg XXIII 71-72 si rinfresca nostra pena: / io dico pena, e dovria dir sollazzo. Notevole è invece, per l'evidenza dello schema, pur modificato e rinnovato dalla paronomasia, il caso di Pg XXXIII 53-54 (così queste parole segna a' vivi / del viver ch'è un correre a la morte).
A parte questi casi, tutti, come si è visto, lontani dallo schema tradizionale, assai raramente D. fa iniziare un verso ripetendo artificiosamente la parola o il gruppo finale del verso precedente. Rari casi sono appunto quelli di Rime LXVII 28-29 (e partir la convene innamorata. / Innamorata se ne va piangendo), dove il secondo verso inizia la nuova stanza, e di LXXXVII 3-4 (de le bellezze del loco ond'io fui. / I' fui del cielo), dove il secondo verso inizia la prima stanza della ballata dopo il ritornello: si tratta più che altro di una consuetudine metrica. Generalmente D. o evita l'incontro immediato delle parole uguali (" ... od ombra od omo certo! ". / Rispuosemi: " Non omo, omo già fui... ", If I 67; e quivi regge; / quivi è la sua città, I 127), o varia i due termini presentandoli in forme diverse: a miracol mostrare. / Mostrasi (Vn XXVI 5 6-7); nel mondo dura, / e durerà quanto 'l mondo lontana, If II 60-61, che realizza una specie di chiasmo; al vostro guizzo, / guizza dentro a lo specchio vostra image, Pg XXV 26-27; con questi altri beati, / beata sono in la spera più tarda, Pd III 50-51.
Più riconoscibile è lo schema dell'a, quando si considerino alcuni casi in cui la reduplicatio cade all'interno del verso, al confine fra due membri sintattici: se non etterne, e io etterno duro, If III 7; per questo regno, a tutto il regno piace, Pd III 83; ‛ Ave, / Maria ' cantando, e cantando vanio, III 122.
L'a. ricorre spesso nella prosa dantesca, e italiana e latina, ma senza una particolare motivazione artistica, specialmente nel Convivio e nella Monarchia, dove il concatenarsi dei concetti nel discorso logico richiede la ripetizione dei termini. Ma non sono frequenti reduplicationes come quella di Cv I VII 2 (non sarebbe stato obediente. Obediente è quelli), o l'altra di Mn III X 16 (nec ille conferre per modum alienationis poterat. Poterat tamen Imperator). Più frequentemente il secondo membro è introdotto da una congiunzione coordinante o subordinante che collega logicamente il periodo.