An Angel at My Table
(Nuova Zelanda/Australia/GB 1990, Un angelo alla mia tavola, colore, 156m); regia: Jane Campion; produzione: Bridget Ikin per Hibiscus Films; soggetto: basato sulle autobiografie di Janet Frame To the Is-Land, An Angel at My Table, The Envoy from Mirror City; sceneggiatura: Laura Jones; fotografia: Stuart Dryburgh; montaggio: Veronika Haussler; scenografia: Grant Major; costumi: Glenys Jackson; musica: Don McGlashan.
Nuova Zelanda, anni Trenta. Janet Frame cresce con i genitori, le tre sorelle e il fratello epilettico, dimostrando una precoce inclinazione alla scrittura. Le condizioni modeste della famiglia, i traumi infantili e scolastici, l'epidermico legame con la campagna e l'intimità con i fratelli caratterizzano fortemente il passaggio di Janet dall'infanzia all'adolescenza, segnato dalla tragedia dell'annegamento della sorella maggiore Myrtle. Distintasi a scuola, Janet ottiene una borsa di studio e si trasferisce in città dove, accanto alla passione per la poesia e per la letteratura, si cristallizzano in lei un forte senso di inadeguatezza e una timidezza ingombranti. Ormai insegnante, Janet viene colta da una crisi di panico durante un'inattesa ispezione scolastica; la sua delusione sfocia in un'alienazione crescente a cui segue l'internamento in un istituto psichiatrico dove le viene diagnosticata la schizofrenia. Per otto anni la donna è sottoposta a oltre duecento elettroshock e infine salvata in extremis dalla lobotomia grazie all'assegnazione di un premio letterario. Incoraggiata dall'affermato scrittore Frank Sargeson, Janet trascorre alcuni mesi in Europa: a Ibiza vive la sua prima intensa e breve storia d'amore con un giovane americano, Bernard; a Londra scopre di essere incinta, abortisce e, incapace di trovare un lavoro, ricade nelle ansie e nelle paure degli anni passati. A seguito di un ricovero volontario, Janet scopre, grazie a una nuova diagnosi, di non essere mai stata schizofrenica. Con il crescere della sua fama letteraria la donna conquista lentamente un equilibrio interiore.
Trasposizione prima televisiva (di circa cinquanta minuti più lunga), poi cinematografica delle traumatiche vicende della scrittrice e poetessa Janet Frame, oggi icona della letteratura neozelandese, il film, girato in 16 mm e gonfiato in 35 per l'uscita nelle sale, è strutturato in tre capitoli che rimandano ai rispettivi volumi dell'autobiografia To the Is-Land, An Angel at My Table, The Envoy from Mirror City (il titolo del secondo volume, che diventa titolo del film, è a sua volta ispirato da un componimento di Rainer M. Rilke).
La solida sceneggiatura di Laura Jones permette a Jane Campion di misurarsi con il delicato compito di raccontare la (presunta) malattia mentale, e di mettere in scena lo spazio della differenza schivando sapientemente ogni facile concessione estetica o didascalica al binomio arte/pazzia. La regista restituisce l'universo interiore di Janet Frame attraverso uno sguardo intimo e inedito prediligendo un lirismo immediato ma trattenuto, un realismo minimale originale ma sempre lucido e asciutto, affidandosi completamente a una narrazione di tipo fortemente ellittico.
La rappresentazione del progressivo 'smarrimento' della protagonista, raccontato dall'infanzia all'età adulta, passa infatti attraverso una lente che ingrandisce solo pochi, ma significativi dettagli dell'apprensione quotidiana e del senso di inadeguatezza vissute da Janet. Il suo è un impaccio innanzitutto corporeo ("ho cercato di dipingere una massa bianca con i capelli rossi" dirà la Campion): il pudore delle unghie sporche e dei pidocchi rilevati da un'ispezione sanitaria scolastica, la capigliatura ingombrante ed eccentrica, i denti vistosamente cariati, le gambe bianchissime e livide. Alla crudeltà della malattia e al lutto sempre presenti sin dalla tenera età attorno a lei (la perdita simbolica della gemella morta alla nascita, la sosta del treno, carica di premonizioni, davanti al 'manicomio', l'epilessia del fratello Bruddie, l'annegamento di due sorelle) fanno da contrappunto esistenziale l'incanto e la vocazione per la scrittura, la tenerezza delle 'piccole scoperte della vita' e una sottile ma costante ironia.
Abbandonate le stravaganze espressive e marcatamente sperimentali del precedente Sweetie (1989; il film, pur controverso, le aveva valso non pochi accostamenti all'estetica di Lynch e al buñueliano 'cinema della crudeltà'), Jane Campion opta in questo caso per un uso più misurato e controllato della macchina da presa. La regia vanta un taglio compositivo fortemente personale e si addentra nel microcosmo solitario della Frame scandagliandolo da vicino per mezzo di significativi piani brevi (il movimento dei piedi durante l'elettroshock, la 'parata' di scatole di cioccolatini della zia, il topo accanto alla vasca da bagno, le profonde rughe della madre), alternando sapientemente punti di vista 'oggettivi' e 'soggettivi' e facendo spesso ricorso all'uso del montaggio simmetrico che contraddistinguerà le opere successive della regista. La particolare cura della Campion per l'aspetto visivo (dichiarata più volte la sua formazione in ambito figurativo e pittorico nonché una predilezione per la fotografia di Cindy Sherman e Diane Arbus) emerge con eloquenza in An Angel at My Table: Stuart Dryburgh firma una fotografia estremamente suggestiva in cui il rosso dei capelli di Janet e il verde della Nuova Zelanda rurale restituiscono al meglio il colore della Is-Land, misteriosa e lontana 'terra dell'Essere'. Gran Premio Speciale della Giuria di Venezia nel 1990.
Interpreti e personaggi: Kerry Fox (Janet Frame), Karen Fergusson (Janet adolescente), Alexia Keogh (Janet da piccola), Melinda Bernecker (Myrtle Frame), Glynis Angell (Isabel Frame), Samantha Townsley (Isabel adolescente), Katherine Murray-Cowper (Isabel da piccola), Sarah Smuts-Kennedy (June Frame), Susan McGregor (June adolescente), Sarah Llewellyn (June da piccola), Andrew Binns (Bruddie Frame), Christopher Lawrence (Bruddie adolescente), Mark Morrison (Bruddie da piccolo), Iris Churn (la madre), K.J. Wilson (il padre), Colin McColl (John Forrest), Martyn Sanderson (Frank Sargeson), William Brandt (Bernard), Jessica Wilcox (Kay Stead), Mark Clare (Karl Stead), Michael Harry (Colin).
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