AMOS (ebr. ‛Āmōs)
Profeta ebreo, il terzo nell'ordine dei Profeti minori, che fiorì verso il 750 a. C.
Nella Volgata latina e nelle versioni italiane della Bibbia s'incontrano due altri uomini dello stesso nome: il padre del grande profeta Isaia (Isaia. I, 1), e uno dei progenitori di Cristo nella genealogia di Luca, III, 25. Ma la scrittura ebraica, come già notava S. Girolamo (Comm. in Isaia al principio), distingue subito il nostro profeta dal padre di Isaia, avendo differenti la prima e l'ultima consonante: ‛ain e samec nel primo, alef e Sade nel secondo. Questi due furono contemporanei: il progenitore di Cristo visse più tardi, e non conosciamo l'esatta forma semitica del nome. Né è certa l'etimologia del nome del profeta, se ebraica, come in Amasia "Jahvè ha portato" (II Cronache, XVII, 16), ovvero egiziana (cfr. Amōsis, a‛ḥ-mose).
L'uomo. - Sulla persona e sulla vita di A. abbiamo nel suo libro notizie in copia affatto insolita per i profeti minori. Secondo esse, A. nacque, di condizione assai modesta, in Tecoa, villaggio ora distrutto, 16 km. a S. di Gerusalemme, confinante col deserto di Giuda. Cresciuto in quella natura selvatica, A. traeva il suo sostentamento dalla pastura del gregge e dalla coltivazione dei sicomori, de' cui frutti dolciastri si nutriva la povera gente. Così viveva quando i lunghi e prosperi regni di Ozia in Giuda (circa 790-739 a. C.) e di Geroboamo II in Israele (c. 783-743 a. C.) davano ai due stati ebrei uno splendore da gran tempo non più visto, ma che doveva presto crollare all'urto dei potenti imperi del vicino Oriente, Assiria e Babilonia. La potenza politica e l'attività commerciale avevano apportato ricchezza e benessere materiale. Anche la religione avita ne aveva profittato per l'abbondanza delle vittime immolate sull'altare e la pompa dei riti. Ma la morale e la sincera pietà lasciavano assai a desiderare, i costumi peggioravano, e gl'Israeliti, abbagliati dallussoesterno, andavano allegri e incoscienti verso l'abisso. A questo punto l'umile pastore di Tecoa si sente chiamato a predicare agli sconsigliati il ravvedimento, a denunziare ai colpevoli gl'imminenti castighi. La sua vocazione è per più rispetti notevole. La sua attitudine al ministero profetico non era effetto di preparazione e di studio: "Io non sono profeta né figlio di profeta (dice egli arditamente in faccia ai potenti avversarî: VII, 14 segg.) anzi mandriano e coltivatore di sicomori. Ma Dio mi tolse dall'andar dietro i greggi e mi disse: Va, profetizza al mio popolo, ad Israele". In secondo luogo è notevole che A., nato nel regno di Giuda, si porta nell'altro regno settentrionale e là principalmente, benché non esclusivamente, rivolge i suoi pensieri e la sua parola alle dieci tribù a lui estranee. Infine A. è anche il primo, il più antico dei profeti, che ci abbiano lasciati scritti i loro vaticinî; e questa circostanza accresce valore al suo libro per l'altezza della dottrina che contiene, e per quanto ci lascia scorgere delle idee religiose di quei tempi.
Cominciò A. il suo ministero "due anni prima del terremoto" dice il testo (I, 1) con una precisione, che a noi, ignorando il tempo del memorabile terremoto (ricordato anche in Zaccaria, XIV, 5), poco giova: e lo continuò a lungo, poiché quel medesimo terremoto è poi menzionato da lui (IV, 11) come da tempo trascorso. L'aveva preceduto la peste (IV, 10) che possiamo identificare con una o ambedue le epidemie, registrate dal canone degli Eponimi (assiro) agli anni 765 e 759 a. C. Il modesto profeta sapeva dagli avvenimenti della storia e dai fenomeni della natura da lui osservati trarre grandi ammaestramenti per il popolo. E la sua predicazione, priva di quell'artificioso colorito estatico, proprio di certi contemporanei profeti di mestiere, ma piena di sentimento profondo, non mancava d'effetto e di successo. I ricchi potenti, che se ne sentivano inquietati nel godimento delle loro egoistiche mollezze, ne furono irritati, e per mezzo del sacerdote Amasia vollero chiudergli la bocca e farlo cacciare ruori del regno. Non si sa con qual esito: ma una leggenda, raccolta dalle solite Vite dei profeti (v. abacuc), racconta che, colpito dal figlio di Amasia con una mazza alla tempia, fu portato boccheggiante alla sua patria, Tecoa, dove giunto poco dopo spirò, e ivi fu sepolto accanto ai padri suoi. Con queste medesime parole il martirologio romano ne onora la memoria il 31 marzo e il suo presunto sepolcro si mostrava a Tecoa ai pellegrini sino al sec. XII.
Il libro. - Il libro di A., di più che mediocre lunghezza fra i profeti minori (nove capitoli), si distingue fra tutti per ordine di materie, chiarezza di esposizione e bontà di testo. Si divide in tre parti, ben distinte per argomento e per forma letteraria: capitoli I-II, III-VI e VII-IX. La prima (I, II) a brevi strofe cadenzate e simmetriche annunzia i mali che stanno per piombare sui popoli, in pena specialmente delle loro crudeltà disumane; Damasco, Gaza, Tiro, Idumei, Ammoniti, Moabiti, Giudei, Israeliti ne saranno a lor volta colpiti.
Solenne e conveniente, sia all'argomento sia all'origine agreste del profeta, è il preludio, che apre e prepara l'infausto vaticinio:
Jahvè rugge da Sionne
e da Gerusalemme dà il suo grido:
ne son desolati i pascoli dei pastori,
e ne dissecca la vetta del Carmelo.
Poi, con una formula tutta ebraica, ad ognuno dei detti popoli rimprovera il suo delitto e minaccia il suo castigo. Ecco per esempio quello contro Gaza (I, 6-8):
Così parla Jahvè:
Per tre delitti di Gaza,
anzi per quattro, non la rivocherò (la sentenza),
perché ha tratto schiave intere popolazioni
per darle in mano agli Idumei.
Gitterò il fuoco nelle mura di Gaza
e divorerà i palazzi di lei.
A notare come il pauroso turbine cominci dai vicini popoli pagani per scaricarsi poi anche sugl'Israeliti, cui nulla giova a salvarneli la speciale loro appartenenza a Jahvè, non avendo osservata la legge dell'umanità e della giustizia (II, 6):
Per tre delitti d'Israele,
anzi per quattro, non la rivocherò,
perché hanno venduto per danaro il giusto
e il povero per un paio di sandali.
La seconda parte (III-VI) si rivolge tutta in particolare agli Israeliti, e in tre discorsi prima rimprovera i loro vizî: durezza di cuore, lusso, vana fiducia in una religione tutta esteriore; e poi denunzia i proporzionati castighi. Anche qui non manca la simmetria col ritorno di formule simili. Ogni discorso comincia con un "Udite questo, che Dio sentenzia ecc.", e si conchiude con un: "Perciò vi accadrà tal e tal sinistro". Tre "guai" ripetuti verso la fine (V, 18; VI, 1, 8) rendono più impressionante l'ammonimento.
La terza parte (VII-IX) infine in cinque visioni simboliche dipinge la prossima distruzione del regno d'Israele. Vi si intercala, dopo la terza visione, l'episodio storico più sopra narrato (VII, 9-17); e un epilogo (IX, 11-15) promette la ristorazione.
Autenticità e integrità. - L'autenticità del libro di A., così spontaneo e caratteristico, in generale non fu mai messa in dubbio. L'abbia scritto egli stesso, o l'abbia raccolto dalle sue labbra alcuno de' suoi uditori; ci riporti per intero il tenore stesso del suo dire, com'è più probabile almeno per la prima e la terza parte, ovvero ce lo riferisca in compendio, il certo è che in esso abbiamo la genuina sostanza della predicazione dello zelante pastore di Tecoa. Sono lezioni, sono carmi ch'egli in più luoghi, percorrendo città e borgate, doveva sovente ripetere e inculcare ai medesimi uditori, perché più facessero breccia e s'imprimessero nelle menti. La forma, alquanto compassata e talora monotona, che già abbiamo osservata, sembra appunto un mezzo pedagogico per aiutare la memoria.
Non altrettanto ne fu indiscussa l'integrità; alcune parti, tutte brevi (al più, di pochi versetti) furono, quale da uno quale da altro critico, rigettate come interpolazioni d'altra mano; tali, p. es., I, 9-12 e II, 4 seg. (vaticinî contro Tiro, Edom, Giuda); IV, 13; V, 8; IX, 5, 6, e in particolare l'epilogo, IX, 11-15. Bisogna riconoscere nei vv. IV. 13; V, 8; IX,5 segg. dei frammenti di un antico inno al Creatore, che rompono il contesto segnatamente nel capo IX, e di cui altra strofetta s'incontra in Geremia XXXI, 35. L'inno poté essere più antico di A., e da lui utilizzato; e con ciò molto, se non tutto, è spiegato. Per le altre parti controverse non furono addotti efficaci argomenti contro la loro autenticità. In particolare l'epilogo, IX, 11-15, va mantenuto ad A., come una gemma della sua corona, come un prezioso documento del più antico messianismo dei profeti ebrei. Contro di esso altra ragione non si porta, se non che A. non ha mai prima parlato di lieto avvenire, mai lasciato trapelare, tra lo scuro nembo di rovine e disastri che annunzia, un rivolgimento in meglio. Questa ragione è una petizione di principio. Ma di più, già tre volte almeno A. (III, 12; V, 3, 15) ha fatto intendere che un piccol resto della nazione sarà salvo. Perciò in questi ultimi tempi, critici di alta fama (Gressmann, Stärk, Sellin, per non dire del König e dell'Orelli) tomarono ad ammetterne l'autenticità. L'ordine delle varie parti può non essere primitivo nel libro attuale, e ciò basta a spiegare qualche anomalia.
Stile e dottrina. - S. Girolamo nel suo commentario chiama A. imperitus sermone, sed non scientia; gli dà il vanto della dottrina, non quello del bel parlare. I moderni non convengono con lui nella parte negativa del suo giudizio, aprioristica deduzione (sembra) dall'umile origine e professione del profeta. È vero ciò che osserva il medesimo S. Girolamo un po' più sotto, che A. toglie le sue immagini per lo più dalla vita campestre, dalla natura selvaggia; ma ciò, mentre dà al suo dire vita e colore, non gli toglie eleganza e robustezza. Se talora è un po' secco, non gli manca altrove copia e bella varietà. Le idee si succedono con ordine e l'espressione è d'ordinario limpida e scorrevole, il ritmo poetico ben osservato. Se per altezza di pensieri A. non tocca il sublime, per efficacia e vigore di affetto, per nobile semplicità di stile, per purezza e proprietà di lingua merita di essere collocato fra i migliori scrittori della classica letteratura ebraica. Non a torto S. Agostino, buon giudice, a mostrare che anche nella Bibbia si trova l'eloquenza e la bellezza letteraria, trasse gli esempî dal libro del pastore di Tecoa (De doctr. christ., IV, 15).
Più del pregio artistico però è notevole in A. il contenuto ideale, il valore etico e religioso. Come primo scritto profetico, è inapprezzabile la luce, che getta sulle credenze e sui costumi di allora, e di là si riflette sui secoli precedenti sino alle prime origini del popolo d'Israele e al Pentateuco che ne è il codice. Il monoteismo iahvistico, A. non ha bisogno di provarlo: egli lo trova già stabilito, lo presuppone. Ma con energia proclama, che Jahvè, il Dio d'Israele, unico e vero, non soltanto è Creatore e reggitore di tutta la natura, ma altresì supremo sovrano di tutti i popoli, decide i loro destini, esige da tutti l'osservanza di una legge morale. Il primato del popolo israelitico, effetto d'una libera benevolenza di Jahvè, non è incondizionato e assoluto, importa speciali doveri, non dà diritto a esenzioni (III, 2; IX, 7-10). Il culto che piace a Dio è anzitutto la bontà e l'onestà della vita, la giustizia e l'umanità verso il prossimo (V, 21-24); gli sono male accetti gli onori a lui resi con la spogliazione del povero (II, 6-8). Tra gli attributi divini nessuno è dal profeta sì altamente e sì spesso proclamato come la giustizia, che punisce il delitto, e la santità che odia il vizio sotto tutte le forme.
Ne segue l'inseparabile connessione della morale con la religione sincera. Dovere dell'uomo è "cercar Dio" (V, 4), conoscerne i voleri, e dipendere da lui con docile sommissione (III, 1-8). Le pompe del culto, la molteplicità dei sacrifizî, delle cerimonie, delle feste ecc., da sole non hanno valore, né sono accette (V, 21-27). Nella vita domestica il lusso, la mollezza, l'ozio, la gozzoviglia, la raffinata ricerca del piacere eccitano lo sdegno dell'austero profeta (IV, 1-7). Ma gli strappano i più commossi e più frequenti accenti soprattutto le infrazioni ai doveri sociali di giustizia e di umanità (I, 3-15; II, 6-8; IV, 1-5; V, 10-14). I poveri, i deboli, gli oppressi hanno sempre nell'umile pastore di Tecoa un instancabile e intrepido avvocato; le violenze, le frodi nel commercio, le ingorde speculazioni, hanno in lui un terribile accusatore (VIII, 4-8). I tremendi "guai" che gli escon di bocca non sono sfogo di malumore o di astio, sono accenti di sincero zelo per l'onor di Dio e per il bene della povera umanità.
Così A. ci dà in piccolo un compiuto ritratto del profeta ebreo; sia per la sostanza, sia per la forma letteraria vediamo già in lui, il più antico dei profeti scrittori, tutte quelle caratteristiche fattezze, che più svolte e perfezionate si ammirano nei più grandi profeti dell'età classica, Isaia, Geremia, Ezechiele. Il modesto pastore giudeo apre degnamente la serie dei profeti ebrei.
Bibl.: Gli articoli di lessici biblici e i commentarî ai Profeti minori, già citati alla voce abacuc. Inoltre J. Touzard, Le livre d'Amos, Parigi 1909; E. Lockert, Le prophète Amos, Cahors 1909; W. R. Harper, A critical a. exegetical commentary on Amos a. Hosea (fa parte dell'International Critical Commt.), Edimburgo 1910; S. R. Driver, The book of Joel a. Amos (Cambridge Bible); K. Hartung, Der Prophet Amos nach dem Grundtext erklärt (Biblische Studien, III, 4), Friburgo in B. 1898; H. Schmidt, Der Prophet Amos, Tubinga 1917; W. Michalaski, Amos, introd., nuova trad., commento, Leopoli 1922 (in polacco); E. Tobac, Les prophètes d'Israel, I, pp. 152-194; L. Desnoyers, Le prophète Amos, in Revue Biblique, 1917, pp. 218-246; J. E. Mac Fayden, A cry for justice. A study in Amos, Edimburgo 1912: P. Humbert, Un héraut de la justice, Amos, Losanna 1917; S. Oettli, Amos u. Hosea, zwei Zeugen gegen die Anwendung der Evolutionstheorie auf die Religion Israels, Gütersloh 1901; P. Vetter, Die Zeugnisse der vorexilischen Propheten über den Pentateuch, I, Amos (in Theol. Quartalschrift, 1899, pp. 512-552); L. O. Lunemberger, Amos the Preacher of the Gospel of Law, in Bibliotheca sacra, 1927, pp. 402-410; J. Kelso, Amos. A critical Study, ibid., 1928, pp. 53-63.