Abstract
Questa voce, muovendo dalla nozione di “amministrazione pubblica” nella Costituzione, tratta della funzione amministrativa in rapporto all’indirizzo degli organi di governo e delle forme organizzative pubblicistiche e privatistiche per il suo esercizio nell’ordinamento italiano.
Nel nostro ordinamento non esiste una definizione legislativa di “amministrazione pubblica” benché non manchi certo l’uso di quelle parole nella legislazione (a cominciare dalla l. 7.8.2015, n. 124, Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, dall’art. 7, co. 1, d.lgs. 2.7.2010, n. 104, Codice del processo amministrativo e dall’art. 1, co. 1-bis, 1-ter, l. 7.8.1990, n. 241, Legge sul procedimento amministrativo). Invero, come avviene per altre discipline di cui pure è oggetto, l'espressione sembra talvolta avere significati diversi anche in relazione a diversi campi del diritto. Tuttavia, data la sua rilevanza nell’ambito del diritto amministrativo di cui è oggetto specifico, è necessario individuarne (almeno con riferimento all’ordinamento nazionale del quale soltanto qui ci si occupa) un significato giuridico di fondo che possa considerarsi anche presupposto e punto di riferimento di discipline particolari che ne prendano in considerazione alcuni piuttosto che altri aspetti a fini diversi.
Si può pertanto preliminarmente osservare che nel nostro linguaggio giuridico il termine “amministrazione” è utilizzato in uno dei significati del linguaggio comune, la cui origine etimologica è reperibile in una delle accezioni del latino minister. In questo senso, amministrare significa curare degli interessi. Ciascuno cura i propri interessi, ma quando questi interessi sono vari o complessi, o comunque un individuo non riesce ad occuparsene in tutto o in parte, la loro cura sarà affidata a qualcun altro, la cui attività consisterà dunque nel curare interessi di terzi. Nel significato giuridico generale più ricorrente “amministrazione” è proprio la cura di interessi di terzi: si pensi, nei rapporti fra privati, agli amministratori di sostegno o a quelli di condominî, di associazioni o di società.
L’aggettivo “pubblico”, a sua volta, nel linguaggio comune, definisce e qualifica la terzietà degli interessi ai quali ci si intende riferire, che non sono gli interessi di uno o più singoli individui né di uno o più gruppi o categorie ma piuttosto, tendenzialmente, della generalità, di tutti, e quindi in questo senso interessi comunemente definiti “pubblici”. “Amministrazione pubblica” significa, dunque, nell'accezione comune, cura degli interessi pubblici, considerati coincidenti con gli interessi generali, a loro volta intesi come gli interessi di tutti. Adoperarsi per il bene pubblico, curare, sotto tutti i profili, gli interessi della generalità, è infatti l’attività che asserisce di svolgere ogni pubblico potere (anche quando si tratti di un sovrano assoluto) ed è in definitiva ciò che sostanzialmente lo legittimerebbe.
L’espressione ha però ormai un significato più limitato e specifico (v. infra § 3.2) in un sistema istituzionale quale il nostro che la Costituzione caratterizza con i principi che stiamo per vedere.
L’unità indistinta del potere pubblico è stata, da tempo, messa in crisi dall’affermazione del principio della divisione delle funzioni e dei poteri.
Secondo la nota dottrina dell’illuminismo, nell’organizzazione dello Stato la funzione legislativa, la funzione giurisdizionale e la funzione esecutiva dovevano essere suddivise fra apparati diversi, nel presupposto che la generica unica e totalitaria funzione di cura del bene pubblico debba considerarsi in realtà il risultato dell’esercizio delle tre sopra indicate, ben distinguibili, funzioni.
La teoria della tripartizione dei poteri risulta però ormai obsoleta. Per quanto qui interessa, si deve tener presente non solo che la funzione legislativa è oggi articolata, con il ruolo preminente che vi gioca la Costituzione, ma anche che, mentre le differenze tra legislazione e giurisdizione erano abbastanza chiare, non altrettanto può dirsi per la funzione esecutiva. Questa non può essere raffigurata semplicemente in negativo (ciò che residua dell’antica unica e totalitaria funzione pubblica della cura del bene pubblico, una volta scorporatene le modalità di esercizio configurabili come funzioni legislativa e giurisdizionale) ma deve invece, come vedremo più avanti (infra§ 3.4), essere definita in positivo osservando che, se pure in un ambito unitario ove coesistono senza soluzione di continuità, debbono distinguersi una funzione di governo e, appunto, una di amministrazione.
Il principio della divisione dei poteri deve comunque essere riformulato non solo per andare oltre la tripartizione ma anche per tener conto, innanzitutto, di un altro principio affermatosi da tempo, quello dello Stato di diritto, che pone la legislazione in posizione preminente nei confronti delle altre funzioni pubbliche. Questo principio (rule of law, nei testi in inglese dei trattati europei) è espressamente richiamato dal Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e dall’art. 2 del Trattato dell’Unione europea (che lo definisce un «valore»), mentre non avviene altrettanto nella nostra Costituzione, ove però appare essere il presupposto di alcune sue norme, da quelle che prescrivono riserve di legge numerose e di ampia portata (in particolare v. artt. 13 ss., 23, 41 ss. Cost.) a quelle che assicurano ai cittadini la garanzia giurisdizionale del rispetto della legge anche da parte dell’amministrazione pubblica (artt. 24, co. 1, e art. 113 Cost.). Quest’ultima, dunque, è sempre soggetta in vari modi alla legislazione, e in primo luogo al diritto dell’UE (quando questo rileva) e alla Costituzione, nonché, conseguentemente, alla giurisdizione, cui spetta garantire il rispetto della legge nel significato che essa stessa le attribuisce.
A questi più risalenti principi si deve aggiungere il principio democratico. Anche di questo vi è un’espressa proclamazione nel Preambolo CDFUE e nell'art. 2, TUE, che lo comprende tra i “valori” (ma v. anche gli artt. 9 ss.). Nella nostra Costituzione, un posto preminente è assegnato ai diritti inviolabili dell’uomo e quindi alle libertà dei cittadini (intesi nel senso più ampio) (v. artt. 2 e 13 ss., Cost.) e, in parallelo, è proclamato titolare della «sovranità» l'insieme di questi ultimi, cioè il «popolo». Su di esso si fonda la legittimazione del complesso organizzativo pubblico in cui consiste la «Repubblica», che deve essere «democratica» (art. 1 Cost.) ed è costituita (v. art. 114 Cost.) dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province, dalle Città metropolitane e dai Comuni, cioè da quelle entità che sono usualmente chiamate in vari modi: enti territoriali, enti politici, pubblici poteri (su cui si v. Enti locali. Comune; Enti locali. Provincia e Città metropolitana; Organizzazione amministrativa 3. Regioni ed enti locali).
Agli apparati legislativi la legittimazione democratica deriva, secondo il metodo della “democrazia rappresentativa”, dall’elezione diretta dei loro componenti (v.: artt. 14, co. 3, TUE e 39 TFUE; artt. 56 e 58 Cost.; art. 122 Cost. e Statuti regionali). Anche gli organi di governo di Stato e Regioni hanno una legittimazione democratica, sebbene solo indiretta (v.: art. 17, co. 7, TUE; artt. 94, 122, Cost. e Stat. reg.).
Stante poi il riconoscimento costituzionale delle «autonomie locali» (art. 5 Cost.), è prevista l’elezione diretta anche per il Sindaco e per i membri degli organi assembleari dei Comuni, benché privi di potestà legislativa (v. art. 117, co. 2, lett. p, Cost.; art. 3 Carta europea delle autonomie locali, ratificata con l. 30.12.1989, n. 439; art. 71 ss., d.lgs. 18.8.2000, n. 267), mentre, per gli organi delle Province e delle Città metropolitane, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’elettività possa essere solo indiretta (v. l. 7.4.2014, n. 56 e C. cost., 24.3.2015, n. 50).
È innanzitutto con riferimento a queste coordinate costituzionali che si definisce la pubblica amministrazione.
Ma oltre ai caratteri costituzionali generali sopra visti, che caratterizzano l’ordinamento in modo rilevante per quanto qui interessa, dalla Costituzione emerge anche la distinzione fra governo e amministrazione, se pure con qualche problema terminologico data la non univoca accezione in cui sono usati certi termini.
Infatti, nel titolo III della parte II, Cost., rubricato «il Governo» (ma in un’accezione che evoca appunto quella antica di “potere esecutivo”), sono presi in considerazione, in una sezione, l’insieme di organi e funzioni che costituiscono il Governo (sez. I, benché con una rubrica che menziona solo «il Consiglio dei ministri») mentre si tratta in un’altra sezione (la II) della «pubblica amministrazione» (la III sezione concerne poi «gli organi ausiliari»).
Una distinzione analoga si rinviene nell’ordinamento regionale, sulla base degli Statuti e delle leggi regionali, anche se la Costituzione (art. 121) definisce la Giunta «l’organo esecutivo delle Regioni».
La distinzione si ha anche negli enti locali (v. artt. 36 ss. e 80 ss., d.lgs. n. 267/2000 e Statuti), anche se spesso ci si riferisce globalmente ad essi con la locuzione “amministrazione locale” (mentre, più appropriatamente, altre volte se ne parla come del “governo locale”).
Dalla Costituzione si desume anche in cosa consista la funzione di governo. L’art. 95, co. 1, menziona la «politica generale» del Governo ed altresì l’«indirizzo politico e amministrativo». In estrema sintesi, cioè, governare, da un lato, consiste nell’esercitare una funzione di indirizzo politico in senso molto ampio e, d’altro lato, più specificamente e per la gran parte, nell’indirizzare l’amministrazione, cioè nell’assegnare all’amministrazione finalità e obbiettivi da raggiungere, ovverosia indicarle quali interessi debba curare.
Gli atti di esercizio della funzione di indirizzo politico dell’amministrazione sono di vario tipo ed hanno diversa efficacia giuridica. Un atto legislativo d’inizio secolo (d.lgs. 30.3.2001, n. 165, art. 4, co. 1) li individua in piani e programmi, direttive, atti di definizione di obbiettivi e priorità o di criteri per determinate attività, nonché in «atti normativi» (per i regolamenti statali v. in particolare art. 17, lett. a e b, l. 23.8.1988, n. 400). Agli organi di indirizzo politico spetta anche di verificare «la rispondenza delle risultanze dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti», oltre al potere di annullamento degli atti illegittimi (sulla cui pertinenza con la funzione di governo si potrebbe, invero, nutrire qualche dubbio) ed altri poteri diretti a porre rimedio all’inerzia nell’adozione di atti e provvedimenti o alla grave inosservanza delle direttive (art. 14, co. 3).
Peraltro, il principio di legalità vige anche per gli atti di indirizzo dell’amministrazione , così che la specificazione degli interessi da curare e delle relative modalità deve operarsi nell’ambito delle leggi e, in primo luogo, della Costituzione e del diritto dell’UE.
È in questo articolato significato che deve intendersi la (semplificante, ma icastica) statuizione secondo cui «[l]’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge», che apre la l. n. 241/1990, che codifica un tradizionale insegnamento della dottrina.
Ai fini così individuati, risultato dell’attività di un complesso sistema istituzionale costituito da una rete di apparati con poteri legislativi e di altri con poteri di indirizzo politico-amministrativo, corrispondono degli interessi che l’amministrazione deve curare e che sono quelli cui spetta la qualifica giuridica di “interessi pubblici”. Quella di “interesse pubblico” è dunque una nozione formale il cui valore giuridico non dipende dalla sua coincidenza con quello che possa essere ritenuto l’interesse generale in senso sostanziale .
Gli strumenti di indirizzo degli apparati di governo comprendono anche incisivi poteri organizzativi. La Costituzione stabilisce che l’organizzazione dei «pubblici uffici» (v. Organizzazione amministrativa 1. Profili generali), espressione che può considerarsi equivalente a quella di apparati amministrativi (anche se vi sono altre letture), deve essere fatta «secondo disposizioni di legge» (art. 97, co. 2, Cost.). Mediante questa riserva di legge vengono garantiti al legislatore, dato il suo ruolo preminente nell’individuazione degli interessi pubblici della cui cura dovranno essere strumenti gli apparati amministrativi, anche poteri tali da incidere sulla idoneità di questi ultimi a dare effettività alle sue decisioni. La riserva è, però, relativa, così che residui uno spazio anche per poteri organizzativi degli apparati di indirizzo politico sui quali ricade il compito e la responsabilità di un indirizzo più immediato dell’attività amministrativa (v. la potestà regolamentare del governo su «l’organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche») (art. 17, co. 1, lett. d, l. n. 400/1988). Comunque, la riserva di legge non riguarda la micro-organizzazione (cioè le «determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro» con le amministrazioni pubbliche: v. Pubblico impiego) che, stanti le esigenze di efficienza anch’esse costituzionalmente tutelate (v. il principio di “buon andamento”: art. 97, co. 2, Cost.), è riservata alla competenza degli «organi preposti alla gestione», cioè ai «dirigenti» ( artt. 6, 16 e 17, d.lgs. n. 165/2001: v. Dirigenza pubblica). Peraltro, nello Stato, spetta al Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente, attribuire gli incarichi, temporanei, ma rinnovabili e revocabili (anche se solo per certi motivi e seguendo un particolare procedimento), ai «dirigenti generali», i quali a loro volta attribuiscono gli incarichi, con analoghe caratteristiche agli altri dirigenti (art. 17, co. 1-ter, 2, 3, 4, 5, d.lgs. n. 165/2001). Spetta ai ministri anche assegnare ai dirigenti le risorse per lo svolgimento delle attività dirette agli obbiettivi indicati (art. 4, co. 1, lett. c e art. 14, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 165/2001). Per le Regioni e gli enti locali la ripartizione dei poteri organizzativi segue uno schema analogo. Peraltro una nuova disciplina in materia di dirigenza pubblica dovrà essere dettata entro il 28 agosto 2016 nell’esercizio della delega legislativa di cui all’art. 3, l. 13.8.2015, n. 124.
Tenendo conto di quanto fin qui detto, il significato giuridico della funzione di “amministrazione pubblica” può essere ora meglio precisato.
Non solo non possono considerarsi esercizio di tale funzione le modalità di cura degli interessi pubblici che costituiscono esercizio delle funzioni legislativa e giurisdizionale, ma anche la funzione di governo è distinta da quella di amministrazione pubblica, che è l’attività svolta dagli apparati amministrativi per la cura degli interessi individuati come “pubblici” dal diritto dell’UE, dalla Costituzione, dalle leggi, dagli atti di indirizzo politico-amministrativo (e non autonomamente dagli stessi apparati amministrativi).
I modi di svolgimento della funzione di amministrazione pubblica sono i più diversi. Infatti essa consiste nel prendere decisioni dirette alla produzione di atti giuridici di diverso tipo (dai provvedimenti unilaterali individuali o generali, eventualmente imperativi, con effetti vantaggiosi o svantaggiosi per i destinatari o per terzi, a quelli relativi a rapporti consensuali, ad iniziare da quelli necessari per acquisire o alienare beni o per realizzare opere o prestare servizi, ed ai diversi tipi di atti necessari per pervenire alle decisioni) ma soprattutto nelle attività tecniche e burocratiche dirette a preparare e realizzare decisioni e progetti e in tutte le altre attività materiali necessarie.
Gli atti di amministrazione si distinguono dagli atti legislativi e da quelli giurisdizionali in quanto ad essi si applica un regime diverso, costituito, a seconda dei casi, dal diritto privato (v. art. 1, co. 1-bis, l. n. 241/1990) oppure dal diritto amministrativo, nel rispetto però, in ambedue le ipotesi, dei principi di “imparzialità” e “buon andamento” (v. infra, § 4.3) oltre che, per quanto di ulteriore ne possa derivare, di principi del diritto dell’UE (quale, per esempio, il «diritto a una buona amministrazione») in quanto applicabili anche all’amministrazione degli SSMM.
Tuttavia, quanto al regime, gli atti di indirizzo degli organi di governo (salvo alcuni, considerati “atti politici”), non vengono considerati diversi dagli atti di amministrazione soggetti al diritto amministrativo (anche se spesso nella variante degli “atti di alta amministrazione”) e ciò può essere fonte di confusione.
La distinzione fra funzione di governo e di amministrazione emerge anche sotto un altro profilo.
Ai poteri degli organi di governo si ricollega la cd. “responsabilità ministeriale” (v. Ministri [dir. cost.]). Secondo un principio di cui è espressione l’art. 95, co. 2, Cost., che vuole «[i] ministri … responsabili … degli atti dei loro dicasteri», sugli organi di governo in generale ricade la responsabilità politica dell’attività degli apparati amministrativi ad essi pertinenti. L'istituto, che può considerarsi collegato al principio democratico (vista la legittimazione democratica degli organi di governo: v. supra § 2.3), parrebbe ridurre significativamente l’ambito di responsabilità autonoma degli apparati dell’amministrazione. Tuttavia, secondo l’interpretazione prevalsa, di ogni atto deve rispondere l’organo che lo decide e quindi la “responsabilità ministeriale” non si riferisce ai singoli atti delle amministrazioni ma piuttosto agli atti mediante i quali gli organi di governo fanno uso dei propri poteri di indirizzo (v. supra §§ 3.2, 3.3).
Si afferma talvolta che la responsabilità ministeriale ha la funzione di assicurare, anche se indirettamente, la legittimazione democratica che sarebbe necessaria pure per l’amministrazione. Ma per l’attività amministrativa, dati i vincoli che le derivano dalle leggi, anche con riguardo alle forme ed ai procedimenti, nonché dall’esercizio dei poteri degli apparati di governo, le scelte politiche sono, o dovrebbero essere, se non assenti, ridotte al minimo, così che per l’amministrazione (in senso stretto e non quindi nell’accezione generica che, per esempio, ha il termine in una espressione quale “amministrazione locale”) la legittimazione necessaria è quella professionale, non quella democratica. Infatti, all’amministrazione si richiede «il buon andamento [interpretabile come efficacia, efficienza ed economicità] e l’imparzialità» (art. 97, co. 2, Cost.). Conseguentemente, per divenire impiegati nelle pubbliche amministrazioni – ponendosi così «al servizio esclusivo della Nazione» (art. 98, co. 1, Cost.) – è prescritto il concorso, cioè un procedimento meritocratico e non democratico.
A tale procedimento si può fare eccezione solo in casi stabiliti dalla legge (co. 4). L’eccezione è prevista, per esempio, solo per una piccola percentuale dei dirigenti (v. supra § 3.3). Peraltro, la legislazione sulla “trasparenza” rende conoscibile da tutti l’identità dei dirigenti amministrativi, le loro competenze e le valutazioni della loro attività nonché molti dei loro atti (art. 4, co. 5, 13, 23, 26 ss., art. 37 d. lgs. 14.3.2013, n. 33) così che si può dire che è ormai previsto un pubblico rendiconto della loro attività.
Si è già visto che l’art. 97 Cost. parla di «pubblici uffici».
Tali sono gli apparati incorporati nei pubblici poteri, nel senso, da un lato, che con ciascuno di questi ultimi intercorrono i rapporti di lavoro dei loro addetti, che ad essi appartengono a vario titolo i mezzi materiali relativi e che essi provvedono alle risorse necessarie; da un altro lato, nel senso che alcuni di questi apparati svolgono le attività di supporto alle funzioni proprie degli organi politici dei medesimi pubblici poteri (“uffici di diretta collaborazione”) e che gli altri svolgono le attività in relazione alle quali sono precipuamente destinatari degli atti di indirizzo di tali organi politici, assumendo la veste di organi amministrativi dei pubblici poteri. Si tratta degli apparati amministrativi, tanto centrali che periferici, di pertinenza degli organi dello Stato (ivi compresi gli organi costituzionali e gli organi giurisdizionali) oltre a quelli analoghi delle Regioni, dei Comuni e degli altri enti locali.
Tuttavia l’incorporazione non esclude, in misure, con modalità e per aspetti diversi per i diversi “uffici”, un certo grado di autonomia, e ciò anche con riguardo alla incidenza degli indirizzi degli organi di governo. Infatti, in alcuni casi tali indirizzi non possono riguardare il merito delle attività che debbono essere svolte dagli apparati. È il caso, per esempio, di quelli che prestano servizi di natura tecnica con garanzia costituzionale della libertà di svolgimento, come, per esempio, le istituzioni scolastiche (v., per es., artt. 26 - 29, d.lgs. 16.4.1994, n. 297). In questi casi – salvi gli spazi genuinamente normativi lasciati dal legislatore agli organi di governo e l’eventuale potere di dare indicazione di obiettivi molto generali – gli strumenti di governo possono essere solo quelli organizzativi, precipuamente la manovra dei mezzi materiali e delle risorse finanziarie.
Esistono anche apparati preposti alla cura di interessi pubblici di particolare rilievo costituzionale, nei cui confronti gli organi di governo non hanno tendenzialmente poteri di indirizzo neppure di natura organizzativa e che, dunque, in questo senso possono definirsi amministrazioni indipendenti o autorità indipendenti (v. Autorità amministrative indipendenti [dir. amm.]; per esempio, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato –AGCM, istituita dall’art. 10 l. 10.10.1990, n. 287 o l’Autorità nazionale anticorruzione – ANAC, per la quale v. l’art. 13 del d.lgs. 27.10.2009, n. 150 e l’art. 19 del d.l. 24.6.2014, n. 90 conv. in l. 11.8.2014, n. 114).
Pubbliche amministrazioni, nel senso di apparati che svolgono funzioni di amministrazione pubblica, non sono soltanto i “pubblici uffici” di cui sopra. Occorre aggiungervi in primo luogo gli enti pubblici (il cui alto numero si tenta di ridurre periodicamente: v. Organizzazione amministrativa 2. Apparato centrale).
In quanto enti e quindi persone giuridiche, è con essi stessi che intercorrono i rapporti di impiego del personale e quelli relativi ai beni dei loro apparati amministrativi e ad essi si imputa l’attività che viene svolta, con i relativi effetti giuridici. Perché, poi, un ente possa essere qualificato “pubblico”, dovrà svolgere funzioni di amministrazionepubblica (v. supra § 3.4) ed intratterrà , dunque, delle relazioni particolari con un pubblico potere.
Lo svolgimento dell’attività non avviene peraltro per autonoma scelta dell’ente ma per un obbligo imposto direttamente dalla legge o in forza di essa. Infatti (come del resto prevede espressamente lo stesso legislatore: v. art. 4, l.20.3.1975, n.70) è competenza della legge istituire ed estinguere enti pubblici (o autorizzare un pubblico potere a farlo). Istituzione ed estinzione possono anche consistere, rispettivamente, nella trasformazione in pubblico di un ente privato o in privato di un ente pubblico.
Questo potere del legislatore non è però senza limiti. Quando la Costituzione garantisce una libertà ai privati, allora gli organismi mediante i quali quelle attività sono svolte non possono essere trasformati in enti pubblici (v. per es., C. cost., 24.3.1998, n 386, a proposito delle Istituzioni di assistenza e beneficenza) a meno che non sia la Costituzione stessa a consentirlo stabilendone le condizioni (v., per esempio, a proposito delle imprese private l’art. 43 Cost., per la parte in cui è ancora compatibile con il diritto dell’UE).
La situazione organizzativa degli enti pubblici presenta analogie più o meno accentuate con quella degli uffici pubblici, con riguardo, ordinariamente, alla soggezione ai poteri di indirizzo di organi di governo dei pubblici poteri ed alle risorse impiegate per lo svolgimento dell’attività. Tuttavia, in generale, gli enti pubblici dispongono di un’autonomia maggiore rispetto a quella degli uffici, in certi casi particolarmente ampia per ragioni diverse (per esempio, perché enti espressioni di gruppi sociali, come gli ordini professionali o le camere di commercio, o perché ciò è il presupposto dello svolgimento effettivamente libero di certe attività secondo quanto richiesto dalla Costituzione, come, per esempio, è il caso delle università). Hanno personalità giuridica e quindi sono da considerare enti pubblici anche alcune delle amministrazioni (o autorità) indipendenti di cui si è detto più indietro.
Resta normalmente costante l’uso di risorse pubbliche pure da parte degli enti pubblici, anche se in qualche caso la legge prescrive che tali risorse provengano, non dalle casse dei poteri pubblici ma dagli stessi soggetti privati cui si riferisce l’attività dell’ente, come è, per esempio, il caso degli ordini professionali e di alcune amministrazioni indipendenti (v., per es., la Commissione nazionale per la società e la borsa – CONSOB).
Non sempre la legge proclama espressamente la pubblicità di un ente, ma questa può risultare implicitamente da previsioni frammentarie che possono esserne considerati “indici”. Ad ogni modo sulla natura pubblica di un ente possono esserci incertezze, poiché taluni degli indici di cui sopra possono riscontrarsi anche con riferimento ad enti privati (in particolare, il compito di curare un interesse pubblico può essere attribuito ad un ente privato, v. infra, § 4.4). In tali casi, l’interpretazione della legge al fine di ritenere o meno esistenti indici di pubblicità sufficienti non può che essere rimessa a un giudice. D’altro canto, la qualificazione di un ente come pubblico può essere il presupposto per l’attribuzione della giurisdizione nei loro confronti alla giurisdizione amministrativa (T.A.R. e Consiglio di Stato) e non a quella ordinaria, così che l'ultima parola in proposito sarà in molti casi quella del giudice della giurisdizione e dunque delle Sezioni unite della Corte di Cassazione.
Gli enti pubblici possono svolgere un’attività regolatoria con provvedimenti imperativi (enti pubblici amministrativi), ma questa non è una loro caratteristica necessaria. Vi sono enti pubblici (c.d. enti pubblici economici) che svolgono un’attività non diversa da quella di un’impresa privata mediante atti della stessa natura di quelli di quest’ultima.
Esiste una disciplina generale che riguarda l’organizzazione degli enti pubblici (v. la l. n. 70/1975 e il già citato d.lgs. n. 165/2001), ma non in modo esauriente. Ad essa si aggiungono (e talvolta si sostituiscono) norme particolari che riguardano categorie o anche singoli enti. Pertanto, se è sempre necessaria, perché un ente possa essere definito pubblico, una relazione particolare, funzionale e organizzativa, con un pubblico potere, tuttavia questa può avere modalità, intensità e sfumature diverse, come del resto può avvenire anche per apparati privi di personalità giuridica. Conseguentemente gli enti pubblici, e in generale le pubbliche amministrazioni, non sono tutte tali allo stesso modo e dunque non solo ci sono norme che si riferiscono specificamente ad alcune loro categorie ma occorrerà anche verificare se eventuali riferimenti generici non debbano intendersi limitati solo ad alcune categorie.
Tenendo conto di questa avvertenza e ricordando che anche i pubblici poteri hanno natura di enti pubblici e sono particolarmente numerosi (i Comuni sono più di 8.000), per avere un'idea di quali e quanti sono gli enti pubblici italiani, si possono consultare alcuni elenchi come quello allegato alla l. n. 70/1975 o quello, pubblicato annualmente nella Gazzetta Ufficiale, redatto dall’ISTAT con criteri statistico-economici stabiliti con un Regolamento UE (n. 549/2013) per l’inserimento nel conto economico consolidato a fini di un incisivo controllo sulla gestione delle spese (v. art. 1, co. 3, l. 31.12.2009, n. 196 e ss. mm.).
Per lo svolgimento di attività di amministrazione pubblica - in particolare (ma non esclusivamente) quando non si tratta di attività regolatoria - oltre che agli enti pubblici, si fa di frequente ricorso ai modelli organizzativi configurati dal codice civile, in particolare alle società per azioni ed alle fondazioni)
La legge ha previsto talvolta l’uso fin dall’origine di una forma organizzativa del genere (v., per esempio, l’art. 18, co. 9, l. 22.12.1984, n. 887), e, operando quelle che sono state chiamate “privatizzazioni formali”, sono anche state dettate delle disposizioni dirette alla trasformazione di intere categorie di enti pubblici in società per azioni (l. 30.7.1990, n. 218 e d.lgs. 20.11.1990, n. 356, su cui v. Società pubbliche e Impresa pubblica) oppure in fondazioni (v. d.lgs. 29.6.1996, n. 367). Il legislatore ha chiamato «società per azioni con personalità di diritto pubblico» qualcuna di queste società (v. la l. n. 887/1984) e tale denominazione è stata usata anche da qualche pronuncia della Corte costituzionale (v. la sent. 19.12.2003, n. 363).
Ha poi origine nel diritto comunitario la figura dell’«organismo di diritto pubblico» (art. 3, co. 2, d.lgs. 12.4.2006, n. 163) che si attaglia tanto ad enti pubblici che ad enti privati aventi un certo tipo di relazioni organizzative con i pubblici poteri. Più di recente è stata definita dal legislatore una categoria di «enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico» (art.1, co. 2, lett. c, d. lgs. 8.4.2013 n. 39).
In casi del genere, le relazioni organizzative con i poteri pubblici di riferimento, quanto agli indirizzi dell’attività ed alle risorse pubbliche impiegate, hanno sostanziali analogie con quelle che intercorrono con un ente pubblico ma si svolgono di regola secondo le forme e le modalità previste dalla legge per il modello organizzativo privatistico utilizzato, tuttavia è espressamente previsto (v., per esempio, a proposito delle disposizioni per la prevenzione della corruzione l’art. 1, co. 49 e 50 della l. n. 190/2012) o comunque si ritiene che debbano trovare applicazione alcune regole che riguardano gli apparati amministrativi (come quella del reclutamento del personale con la procedura del concorso pubblico: v. C. cost. 1.2.2006, n. 29).
Da queste ipotesi differiscono quelle in cui lo svolgimento di determinate funzioni amministrative è affidato ad organismi che non solo hanno forma organizzativa privatistica ma sono anche in controllo privato, i quali si obbligano ad esercitare l’attività loro affidata secondo gli indirizzi e sotto il controllo diretto o indiretto di un pubblico potere, nelle forme di regola definite consensualmente al momento dell’affidamento (mediante le cd. concessioni-contratto o i contratti di servizio: v., per esempio, art. 115, d.lgs. 22.1.2004, n. 42 a proposito della valorizzazione dei beni culturali).
In queste diverse ipotesi (la cui legittimità è stata riconosciuta, esplicitamente o implicitamente, anche dalla Corte costituzionale in più di una pronuncia: v. ord. 21.5.2001, n. 157, e sentt. 1.7.2010, n. 234 e 22.5.2013, n. 94), all’attività amministrativa svolta si applicano in tutto o in parte regole analoghe a quelle riguardanti le amministrazioni pubbliche (tra l’altro, per esempio, in materia di scelta dei loro contraenti possono doversi applicare particolari procedure e conseguentemente gli atti relativi sono soggetti al diritto di accesso e la tutela giurisdizionale spetta al giudice amministrativo: art. 3, nn. 25 e 26 e art. 32, d.lgs. 12.4.2006, n. 163; artt. 22, co. 1, lett. e, e art. 23 , l. n. 241/1990; art. 133, c. 1, lett. e, n. 1, d.lgs. 2.7.2010, n. 104) e, più in generale, devono comunque essere rispettati (anche se nei modi compatibili con il diritto ordinario dei privati) i principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (v. C. cost. n. 94/2013) nonché i «criteri» e i «principi» indicati o richiamati dalla stessa l. n. 241/1990 (art. 1, co. 1-ter). Del resto, ai fini dell’applicazione del codice del processo amministrativo, quest’ultimo comprende nella nozione di “pubbliche amministrazioni” anche i «soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo» (art. 7, co. 2).
Ma per soddisfare taluni interessi pubblici può anche essere sufficiente l’attività di soggetti privati svolta per loro libera iniziativa (“il mercato”, secondo la terminologia corrente), purché sottoposta ad una regolazione pubblica (v. . È quanto avviene, per esempio, nel settore dei grandi servizi nazionali, quali l’energia elettrica, il gas ed i servizi idrici, ove opera l’autorità indipendente ad essi intitolata (Autorità per l'energia elettrica il gas e il sistema idrico). E vi è un interesse pubblico, quello all’esistenza di mercati concorrenziali, per soddisfare il quale l’intervento pubblico si può limitare a garantire – con l’intervento di un’autorità indipendente (l’AGCM) – che, nello svolgimento dell’iniziativa economica privata, siano rispettate le regole della concorrenza.
In ambedue queste ipotesi, come in generale nelle altre nelle quali l’attività amministrativa consiste nella c.d. regolazione, la soddisfazione degli interessi pubblici è il risultato immediato dell’attività dei privati e non dei poteri pubblici, i quali sono impegnati, attraverso le amministrazioni, soltanto a garantirne il libero svolgimento o al più a indirizzarla e controllarla oppure a impedirla nei casi in cui sia ritenuta dannosa per l’interesse pubblico. Ciò è conforme ai principi dell’ordinamento europeo e della nostra Costituzione riguardo alle attività economiche (art. 101 ss. TFUE, artt. 41 e 43 Cost.).
Più in generale, la Costituzione (art. 118, co. 4) contempla espressamente l’ipotesi che «attività di interesse generale» siano il risultato della «autonoma iniziativa dei cittadini» e impegna i pubblici poteri a “favorire” tali iniziative, richiamando in proposito il «principio di sussidiarietà», cioè l’idea che l’intervento dei pubblici poteri sia giustificato solo in quanto l’autonoma iniziativa privata non sia in grado di soddisfare l’“interesse generale”. In definitiva, quindi, è giuridicamente sostenibile che l’attività amministrativa pubblica dovrebbe avere il suo ambito di svolgimento nei soli casi di insufficienza dell’iniziativa dei privati a soddisfare autonomamente gli interessi generali/pubblici (ovvero, quanto all’attività economica, nei casi in cui vi sia un “fallimento del mercato”).
Vi sono però degli ambiti nei quali la Costituzione indica come in ogni caso necessaria l’attività, almeno indiretta, dell’amministrazione pubblica, o in esclusiva, quando si debbano esercitare poteri imperativi e concretamente far uso della forza (art. 13 ss.), o, ma senza escludere anche l’autonoma iniziativa dei privati, al fine di soddisfare certi diritti sociali (v. artt. 31 ss., Cost.).
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