Amintore Fanfani
Espressione tra le più autentiche e ricche della tradizione popolare e democristiana, Amintore Fanfani è stato certamente uno dei più autorevoli interpreti del primo cinquantennio di vita repubblicana del Paese. Una carriera costellata di trionfi, brusche cadute, inaspettate ricomparse; la vicenda di un uomo sicuro di sé e autoritario, impulsivo e amante della sfida, aperto al compromesso, mai alla resa: questa, in estrema sintesi, la biografia politica di un uomo che, tuttavia, con la passione per la cosa pubblica ha sempre saputo coniugare quella per gli studi storico-economici. Coltivati sin dalla gioventù, essi hanno contribuito in maniera decisiva a forgiare quella sensibilità cristiano-solidarista che, fin dalla Costituente, avrebbe rappresentato l’anima più profonda del suo riformismo sociale.
Amintore Fanfani nacque a Pieve S. Stefano (in provincia di Arezzo) il 6 febbraio 1908. Figlio dell’avvocato Giuseppe e di Anita Leo, si distinse fin da giovane tra le file dell’associazionismo cattolico locale. Terminato il liceo scientifico, giunse nel 1926 a Milano, dove si iscrisse al corso di laurea in scienze economiche e sociali dell’Università Cattolica. Ottenuta con lode la laurea (1930), per Fanfani si aprì quella che si sarebbe rivelata una rapida e brillante carriera accademica nel campo degli studi storici ed economici: libero docente dal 1932 e direttore della «Rivista internazionale di scienze sociali» dal 1933, divenne ordinario nel 1939, intervallando corsi di storia economica a corsi di storia delle dottrine economiche. Anche nella maturità, malgrado l’impegno politico, avrebbe conservato la propria cattedra (spostata a Roma nel 1955) fino al pensionamento.
A interrompere l’insegnamento giunse l’armistizio del 1943: Fanfani, richiamato alle armi, scelse l’esilio in Svizzera. Rientrato in Italia nel 1945, fu chiamato a Roma dall’amico Giuseppe Dossetti, che lo coinvolse nella struttura organizzativa della Democrazia cristiana (DC): ad attendere quel giovane ‘professorino’, alloggiato in via della Chiesa Nuova assieme ai compagni della corrente dossettiana di «Cronache sociali» (Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati, Achille Ardigò e lo stesso Dossetti), c’era mezzo secolo di vita politica alla guida delle principali istituzioni del Paese.
Tra i protagonisti dell’Assemblea costituente, Fanfani, nel 1947, ottenne il primo incarico governativo al Ministero del Lavoro e Previdenza sociale. Ministro dell’Agricoltura nel 1951, guidò poi gli Interni (1953) e, nel 1954, formò il suo primo governo, che però non ottenne la fiducia. Nel 1955 divenne segretario della DC, ricevendo la grave eredità di Alcide De Gasperi e, nel quinquennio successivo, s’impegnò a fondo per la modernizzazione del partito. Dopo il trionfo elettorale del 1958, Fanfani fu il naturale designato alla guida di un governo che tuttavia durò meno di un anno: conservando l’interim agli Esteri e la segreteria DC, il primo ministro finì vittima della contestazione di alcuni settori del partito, spaventati anche dall’apertura a sinistra più volte ventilata; nel gennaio 1959, con una clamorosa decisione, Fanfani rinunciò a ogni incarico.
Nel luglio del 1960 tornò a guidare un governo ma, dopo la débâcle della DC alle elezioni del 1963, la sua linea governativa, aperta al Partito socialista italiano (PSI), finì ancora sotto scacco: Fanfani uscì nuovamente di scena, salvo tornare ministro degli Esteri nel secondo governo Moro, nel 1965, quando fu persino proclamato presidente della XX Assemblea generale dell’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite).
Entrato al Senato nel 1968, fu eletto presidente dell’assemblea e nel 1971, quando si concluse il mandato di Giuseppe Saragat, la DC lo candidò alla presidenza della Repubblica; alla fine fu eletto Giovanni Leone e, poco dopo, il nuovo capo dello Stato onorò lo sconfitto nominandolo senatore a vita. Presidente del Senato anche nel Parlamento uscito dalle elezioni del 1972, Fanfani fu ancora segretario DC nel 1973, mentre il partito s’interrogava sull’ipotesi del compromesso storico (strategia che Fanfani, sempre più schierato su posizioni anticomuniste, si sforzò di ostacolare). La sconfitta al referendum sul divorzio (1974) e quella alle successive amministrative del 1975 costrinsero Fanfani all’ennesima uscita di scena.
Nel 1976 Fanfani tornò presidente del Senato e, sfumata, con l’elezione di Sandro Pertini (1978), l’ultima opportunità di salire al Quirinale, guidò tra il 1982 e il 1983 un nuovo governo. Ancora presidente del Senato nel 1985, nel 1987 tornò a dimettersi per assumere la responsabilità di un governo, il suo sesto e ultimo. Gli ultimi due incarichi furono agli Interni (1987-88) e al Bilancio e Programmazione economica (1988-89).
Uscito indenne dal terremoto giudiziario che sancì la fine della prima repubblica, Fanfani, ormai malato, appoggiò la nascita del Partito popolare italiano di Mino Martinazzoli. Morì a Roma il 20 novembre del 1999.
Come i precedenti cenni biografici hanno permesso di ricordare, quando, nell’immediato dopoguerra, Fanfani si gettò nella mischia politica, egli aveva già alle spalle una rapida e brillante carriera accademica, nel corso della quale aveva acquisito una consapevolezza teorica che si sarebbe poi rivelata decisiva nel segnare la traiettoria delle sue scelte politiche.
Per altro, se è vero che l’impegno pubblico, da allora, lo avrebbe spesso (ma non sempre) distratto dai suoi studi, bisogna ammettere che, negli anni milanesi (e nel biennio svizzero), Fanfani, quale accorto studioso di storia ed economia, aveva percorso numerose direzioni di ricerca, né è particolarmente semplice fare ordine sulla vastissima saggistica di cui lo stesso fu autore.
Si possono tuttavia individuare alcuni indirizzi di ricerca specifici, a partire da quello che ebbe per oggetto alcuni lavori storico-statistico-demografici, condotti sotto la guida di Marcello Boldrini. Si trattò di una linea che avrebbe progressivamente avvicinato Fanfani allo studio della storia economica tout court, cui avrebbe dedicato numerosi articoli (molti raccolti in Saggi di storia economica italiana, 1936) e non poche monografie (su tutte Un mercante del Trecento, 1935; Indagini sulla ‘Rivoluzione dei prezzi’, 1940; Storia economica. Dalla crisi dell’impero romano al principio del secolo XVIII, 1940; Storia del lavoro in Italia dalla fine del secolo XV agli inizi del XVIII, 1943). Se la storia dei fatti economici fu forse l’ambito disciplinare prediletto da Fanfani, soprattutto negli studi della maturità (nel 1954 avrebbe fondato la rivista «Economia e storia», diretta fino al 1970), sono tuttavia due più specifiche e contermini direzioni di ricerca – la storia delle origini del capitalismo e quella delle dottrine economiche – che contribuirono in modo determinante allo sviluppo della coscienza critica del futuro uomo di governo. Ripercorriamole.
Le ricerche sulle origini del capitalismo furono sviluppate da Fanfani sin dalla tesi di laurea, ove approfondì lo studio degli effetti economici della riforma protestante. Proprio la tesi gli fornì il materiale per la sua prima pubblicazione (Scisma e spirito capitalistico in Inghilterra, 1932), premessa di due più mature e fortunate monografie: Le origini dello spirito capitalistico in Italia (1933) e Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo (1934), un volume, quest’ultimo, che ha conosciuto numerose traduzioni e una recente riedizione (2005).
Con queste opere il venticinquenne Fanfani si inserì nel vasto dibattito che, fin dai lavori di Werner Sombart e Max Weber, aveva spinto molti contemporanei a interrogarsi circa le responsabilità della fede religiosa nella genesi di quello ‘spirito capitalistico’ che aveva profondamente segnato la storia dell’Europa cristiana. La tesi fanfaniana è diretta proprio a smentire le conclusioni di Weber, secondo il quale la dottrina della predestinazione (introdotta dalla Riforma e incentrata sul convincimento che la salvezza individuale non sarebbe dipesa dalla condotta, ma dal preesistente disegno divino) avrebbe sollecitato negli uomini l’amore per il successo negli affari: i fedeli lo avrebbero infatti interpretato come una rassicurante prova della propria elezione. Per questa via, dunque, il protestantesimo avrebbe sollecitato la massima industriosità e, incoraggiando l’accumulazione del risparmio, avrebbe permesso al capitalismo di avviare la sua rapida diffusione.
Fanfani, al contrario, riconduceva il successo del capitalismo proprio alla disgregazione dei valori tradizionalmente difesi dalla cristianità. Tale decadimento si sarebbe avviato sin dal Trecento, quando i primi mercanti – gli italiani su tutti – avevano cominciato a subire il fascino delle ricchezze e ad allontanarsi dai precetti della morale cristiana. Il capitalismo, nei secoli a venire, avrebbe continuato la sua ascesa nonostante la ferma e costante opposizione della Chiesa; lo scisma avrebbe dunque solo velocizzato la diffusione di un processo già avviato da secoli, ma non per le ragioni suggerite da Weber, ma per una diversa e duplice causa: da un lato fu lo spirito capitalistico (appunto già vivo e in espansione) a indirizzare la Riforma verso un’etica a esso più favorevole; dall’altro la Riforma, svincolando la salvezza dell’uomo dal suo comportamento sulla terra, fece venire definitivamente meno gli ostacoli etico-morali che fino allora avevano trattenuto il libero agire dell’individuo.
Senza scendere ulteriormente nei dettagli delle tesi fanfaniane, quello che il giovane studioso tradiva fin da queste prime ricerche era un atteggiamento di percepibile sfiducia nei confronti del capitalismo e di quelle dottrine liberali – allevate proprio nel seno dell’eresia protestante – che, giustificandolo, lo avevano condotto al trionfo. Questa sfiducia, alimentata per altro dal sospetto anticapitalista diffusosi dopo la crisi 1929, sarebbe stata chiaramente espressa nel corso degli anni Trenta, durante i quali Fanfani non avrebbe mancato di indicare nel corporativismo fascista quell’attesa e benefica terza via fra il modello socialista sovietico e quello del capitalismo edonista (cfr. Il significato del corporativismo, 1937).
Quanto alla ricostruzione della storia delle dottrine economiche, Fanfani vi si dedicò dalla metà degli anni Trenta. Alla base della sua interpretazione giace l’idea che ogni dottrina sia distinguibile dalle altre per la configurazione che assumono in essa tre distinti elementi caratterizzanti: presupposti, osservazioni e norme. I primi consisterebbero nelle «idee filosofiche proprie dell’autore della dottrina» (A. Fanfani, Economia, 19532, p. 25); le seconde sono invece quelle «nozioni che l’autore ha acquisito con le sue indagini sullo svolgimento della vita economica effettuale» (p. 27) e che, nell’interpretazione del «problema economico» proposta da Fanfani, hanno generalmente a che fare con le cosiddette resistenze (ovvero tutti quei fenomeni naturali e istituzionali che costituiscono limiti oggettivi alle pretese volontaristiche degli individui); le norme, infine, sono «le regole o prescrizioni che l’autore della dottrina suggerisce, allo scopo di razionalizzare il mondo economico osservato, secondo quelli che egli stima essere i fini lecitamente perseguibili» (p. 25).
È proprio sulla base dei presupposti tipici dei loro autori che le diverse dottrine, nell’esauriente sistematizzazione fanfaniana, possono essere aggregate entro tre macrocategorie storiografiche: dottrine volontaristiche (le più antiche), naturalistiche (le successive) e neovolontaristiche (le più recenti). Le prime sono quelle dottrine che presuppongono l’inesistenza di un ordine naturale nella sfera economica e propongono un ordine economico riflesso, dedotto da vari e mutevoli principi etico-morali; sarebbero tali le dottrine economiche greche, romane, degli scolastici e dei mercantilisti, tutte accomunate dalla scarsa capacità di riconoscere l’azione delle resistenze (ovvero accumunate dal modesto apporto in termini di osservazioni) e connotate da un forte normativismo.
Al contrario, sono naturalistiche tutte quelle dottrine che presuppongono l’esistenza, anche in economia, di leggi necessarie contro le quali è reputato vano ogni sforzo della volontà. Sono naturalistiche le dottrine fisiocratiche, quelle di Adam Smith e dei suoi seguaci, quelle di François-Marie-Charles Fourier, Pierre-Joseph Proudhon e Karl Marx e quelle, recentissime, delle correnti marginaliste. Si tratta di dottrine, stavolta, accomunate dalla capacità di produrre una rilevante mole di osservazioni riguardanti la dinamica dell’attività economica (e di tracciare così un quadro articolato delle resistenze che si frappongono fra l’individuo e i suoi obiettivi economici) e, al contempo, dal tendenziale rifiuto di ogni proposito normativo, abbandonato in nome del decantato laissez-faire.
Sono infine neovolontaristiche quelle dottrine che fanno sintesi delle precedenti, ovvero recuperano i presupposti propri della tradizione volontaristica, ma ne rendono realistiche le ambizioni valorizzando il patrimonio di osservazioni e di leggi svelate dal naturalismo.
Si tratta di un terzo momento che Fanfani descrive con la passione dell’apostolo: dapprima lo equivoca con il corporativismo, poi, progressivamente, giunge alla sua formulazione più compiuta, riconoscendo come neovolontaristiche le dottrine dei neoprotezionisti (Friedrich List), degli economisti-storici, dei socialisti di Stato, di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi e dei critici dei classici, dei cristiano-sociali e degli istituzionalisti allievi di Thorstein Veblen.
La storia delle dottrine economiche ‘secondo Fanfani’ sarebbe risultata una storia incompiuta. Se infatti le dottrine inquadrate entro i primi due grandi momenti vennero integralmente trattate in altrettante monografie (Storia delle dottrine economiche: il volontarismo, 1938, e Storia delle dottrine economiche: il naturalismo, 1946), il terzo volume, sul neovolontarismo, sebbene sempre promesso, non vide mai la luce. Nel 1946 Fanfani ne pubblicò quello che in origine avrebbe dovuto costituirne un capitolo: si tratta del libello su Il neovolontarismo economico statunitense, ovvero quell’istituzionalismo che Fanfani aveva scoperto e abbracciato durante l’esilio in Svizzera e che, in estrema sintesi, egli considerava la più moderna e convincente proposta teorico-economica. Ne condivideva, soprattutto, la fede in un sistema economico variamente regolato da vincoli istituzionali:
chi scrive – ammetteva a proposito della scuola – è convinto che essa diventerà ancora più grande, non appena gli economisti non vedranno [nei suoi autori] solo dei critici dei classici, ma degli uomini che cercano la sintesi tra i presupposti del volontarismo e le osservazioni del naturalismo, per arrivare a una appropriata teoria del controllo sociale sulla vita economica […]. Quando cominceranno le avanguardie della teoria, della politica, e della pratica ad intendere che la strada nuova è quella del controllo sociale dell’economia, garantito e limitato dalla libertà politica, allora saranno disposti a considerare i neovolontaristi americani come dei pionieri (pp. 69-70).
«Controllo sociale», temperato dalla garanzia delle libertà politiche: ecco la prassi di governo dell’economia che, pur nella genericità dell’espressione, Fanfani si ritrovava a indicare per superare le angustie entro cui era rimasto soffocato il corporativismo e, al contempo (e soprattutto), per impedire la degenerazione del sistema capitalistico; esso non aveva alternative praticabili ma, se lasciato a sé stesso – è questa un’opinione ricorrente nella produzione fanfaniana –, era in grado di produrre insopportabili ingiustizie distributive e crisi ricorrenti.
A mostrare quanto determinante sia stato lo studio dell’istituzionalismo americano, valga solo ricordare che quel termine – controllo – sarebbe finito, proprio attraverso la mano di Fanfani, nella Costituzione della novella Repubblica italiana.
Se gli studi storico-economici fornirono a Fanfani un rilevante bagaglio teorico, fu in lavori come Le tre città. Postille a San Luca (1946), volume uscito poco dopo altre due opere di analogo tenore (Colloqui sui poveri, 1941, e Persona, beni, società in una rinnovata civiltà cristiana, 1945), che lo studioso d’economia lasciò spazio all’osservatore della realtà e, più ancora, all’uomo di fede. Si tratta di opere ove teologia, sociologia, economia e scienza politica si mescolano fino a far emergere quel solidarismo che avrebbe costituito l’altro supporto – accanto a quello più squisitamente teorico – del successivo riformismo fanfaniano. Insomma: se è vero che l’impegno politico, come Fanfani avrebbe poi raccontato, giunse assolutamente inatteso e imprevisto, è altresì vero che Fanfani, alla metà degli anni Quaranta, aveva ormai tutte le carte in regola (leggasi consapevolezza teorica e passione politica) per inserirsi nella vita pubblica.
L’impegno alla Costituente rappresenta l’emblematico momento di passaggio del testimone dal Fanfani ‘professore’ a quello ‘politico’. E non solo per intuibili ragioni cronologiche, ma proprio perché fu in quella sede che Fanfani, presentandosi a colleghi e opinione pubblica, tradusse in indicazioni programmatiche ciò che fino allora aveva patrocinato sul piano teorico. Fanfani, del resto, non fu solo l’estensore della fortunata espressione dell’art. 1, ma fu anche, e soprattutto, uno dei protagonisti della terza sottocommissione, deputata a trattare le questioni economiche e sociali.
Egli non mancò di inserirsi in quasi tutti i dibattiti, anche se il punto forte delle sue tesi fu proprio quello del controllo dell’economia. Il territorio dell’economia «controllata», nella riflessione di Fanfani, si estendeva fra due distinti crinali: il primo, quello dell’economia «individualistico-liberale», che andava assolutamente scavalcato, per assicurare quella giustizia distributiva che il capitalismo non sapeva assicurare; il secondo, quello dell’economia socialista, che non poteva essere oltrepassato, pena soffocare i diritti fondamentali della persona, quali, per es., quello alla libera iniziativa individuale. Appostarsi, insomma, in un’area intermedia, dove beneficiare dei vantaggi delle regioni adiacenti, senza però cadere nelle loro reciproche insufficienze: fu questo, nella sostanza, il cuore della proposta di Fanfani, poi variamente disseminata nella lettera, tutta fanfaniana, di alcuni articoli della cosiddetta «costituzione economica» (titolo III).
La prospettiva dell’economia ‘controllata’ incontrò un certo favore anche da parte delle sinistre, né fu quello il solo tema a proposito del quale Fanfani rappresentò il punto d’incontro fra gli schieramenti maggioritari (quello democristiano e quello socialcomunista): ciò accadde anche durante i dibattiti su assicurazioni sociali, diritto al lavoro, riforma agraria e partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili d’impresa. L’inconciliabilità fra la visione classista delle sinistre e quella dei centristi, tuttavia, emerse in occasione del dibattito sul diritto di sciopero. Se le prime erano disposte a mobilitare il Paese pur di leggerlo nella Costituzione, Fanfani – poi uscito sconfitto – era di ben altro avviso; in fondo, la Costituzione avrebbe previsto proprio il controllo sociale e la partecipazione, istituzioni già deputate ad assicurare la giusta tutela ai lavoratori: la garanzia dello sciopero sarebbe stata un’esplicita ammissione d’impotenza da parte dello Stato. Non è dunque un caso se la contemporanea garanzia di due istituti in qualche modo contradditori – diritto di sciopero (art. 40) e partecipazione (art. 46) – si sia tradotta nella sola affermazione del primo, né è un caso se, a distanza di trent’anni, Fanfani avrebbe dedicato una monografia a rivendicare l’urgenza di quella riforma partecipazionistica che costituiva l’irremovibile corollario personalista e interclassista delle sue formulazioni sul controllo sociale (cfr. Capitalismo, socialità, partecipazione, 1976).
Alle dichiarazioni d’intenti della Costituente seguirono ben presto le scelte di governo. Fanfani, prima come ministro del Lavoro, poi come ministro dell’Agricoltura, fu certamente tra i protagonisti di quello slancio interventista che permise al Paese di uscire dalle macerie della Seconda guerra mondiale e di correre rapidamente verso quel ‘miracolo economico’ realizzatosi proprio dagli anni del suo secondo governo (1958-59). Si deve a lui il piano di edilizia pubblica INA-casa che, lanciato nel 1948, avrebbe assicurato, nel giro di pochi lustri, l’impiego di centinaia di migliaia di operai e l’edificazione di circa 350.000 alloggi destinati alle classi popolari, così come si devono a lui la battaglia per il riconoscimento giuridico degli istituti di patronato e di assistenza sociale, la realizzazione della riforma agraria immaginata da Antonio Segni e tutta quella vasta serie d’interventi (noti come Legge per la montagna) che, dal 1952, attraverso un massiccio intervento pubblico, avrebbero permesso di rilanciare le aree agricole e montane, colpite da un grave spopolamento.
Probabilmente, negli anni della maturità politica di Fanfani, quella sua passione riformatrice si sarebbe in qualche modo raffreddata, complici le nuove e ben diverse congiunture, così come il progressivo avanzare delle logiche partitocratiche. Non è per altro facile racchiudere in un giudizio sintetico il riformismo fanfaniano del vorticoso e irripetibile quindicennio postbellico, una stagione di riforme che sfuggono certamente all’etichetta di keynesiane, troppo spesso e troppo frettolosamente scomodata (non vi è molto, se non nulla, di keynesiano, per es., nel suo ‘piano case’, realizzato attraverso la compartecipazione alla spesa di operai e datori di lavoro, piuttosto che agendo sulla leva del deficit spending); esse, forse, non furono altro che le scelte di un cattolico e di un economista sempre pronto a volgersi alla storia per correggere le deformazioni della società del suo tempo, di uno studioso appassionato che preferì sempre il caos dell’agone politico al carcere silenzioso di una turris eburnea.
Scisma e spirito capitalistico in Inghilterra, Milano 1932.
Le origini dello spirito capitalistico in Italia, Milano 1933.
Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, Milano 1934.
Un mercante del Trecento, Milano 1935.
Saggi di storia economica italiana, Milano 1936.
Il significato del corporativismo, Como 1937.
Storia delle dottrine economiche: il volontarismo, Como 1938.
Introduzione allo studio della storia economica, Milano 1939.
Indagini sulla ‘Rivoluzione dei prezzi’, Milano 1940.
Storia economica. Dalla crisi dell’impero romano al principio del secolo XVIII, Milano 1940.
Colloqui sui poveri, Milano 1941.
Storia del lavoro in Italia dalla fine del secolo XV agli inizi del XVIII, Milano 1943.
Persona, beni, società in una rinnovata civiltà cristiana, Milano 1945.
Economia orientata, Roma 1946.
Storia delle dottrine economiche: il naturalismo, Milano-Messina 1946.
Il neovolontarismo economico statunitense, Milano-Messina 1946.
Le tre città. Postille a San Luca, Firenze 1946.
Economia, Brescia 1948.
Una pieve in Italia, Milano 1964.
Storia economica, 2. Età contemporanea, Torino 1970.
Capitalismo, socialità, partecipazione, Milano 1976.
Storia delle dottrine economiche. Un’antologia, a cura di O. Ottonelli, Firenze 2011.
Fanfani e la casa. Gli anni Cinquanta e il modello italiano di welfare state, il piano INA-Casa, Soveria Mannelli 2002.
V. La Russa, Amintore Fanfani, Soveria Mannelli 2006.
S. La Francesca, La linea riformista. La testimonianza dei diari di Amintore Fanfani, 1943-1959, Firenze 2007.
E. Martelli, L’altro atlantismo. Fanfani e la politica estera italiana, 1958-1963, Milano 2008.
P.E. Acri, S. Martino, A. Tusa Di Gregorio, Amintore Fanfani. L’uomo, lo statista e le sue radici, Paludi 2009.
Amintore Fanfani e la crisi del comunismo, a cura di B. Bagnato, Firenze 2009.
Amintore Fanfani e la politica estera italiana, Atti del Convegno di studi, Roma (3-4 febbraio 2009), a cura di A. Giovagnoli, L. Tosi, Venezia 2010.
P. Roggi, Amintore Fanfani, imprenditore della politica, Firenze 2011.