ASPERTINI, Amico
Figlio del pittore Giovanni Antonio e fratello di Guido, nacque a Bologna tra il 1474 e il 1475.
Nulla si sa di preciso sulla sua attività giovanile, se non che fu educato dal padre e passò poi alla bottega del Francia e, forse, a quella del Costa; comunque, fin dagli inizi e sempre, nelle grandi pale come negli affreschi, nei piccoli dipinti come nei disegni, nelle miniature e nelle sculture, egli rivela una originalità precoce e persistente.
Tale originalità ha causato, nonostante le calzanti osservazioni del seicentesco Malvasia, che lo dice "grande e terribile sì nei contorni che nel colorito", le aspre critiche degli studiosi di "eredità classicistica" (Arcangeli), troppo ligi a canoni fissi di bellezza esteriore, di proporzioni e di equilibrio compositivo, per apprezzare questo spirito bizzarro, ansioso e polemico, manierista ante litteram, che sostituisce ai canoni puristi dei conterraneo Francia una intima e penetrante ispirazione, ora ricca di umbratile poesia, ora carica di tragico grottesco.
La sua originalità del resto dovette ben presto condurlo a guardare altri artisti più a lui congeniali; forse sui venti anni, come pensa il Longhi, fu a Firenze e vide Filippino Lippi, chiaramente riflesso nelle due estrose tavolette già nella collezione Goldmann a Monaco col Presepio e la Fuga in Egitto,i n cui, con l'architettura ferrarese, si nota nelle "fronde a ventaglio spruzzate di luce" e nelle figure il "nuovo spiritello supergrottesco dell'Aspertini " (Longhi [1934] 1956).
Tra il 1500 ed il 1503 egli fu a Roma ove guardò particolarmente il Pinturicchio e studiò, come dice l'Achillini, le "romane grotte": "Amico suo fratel, con tratti e botte, / Tutto 'l campo empie con le sue anticaglie / Retratte dentro alle romane grotte. / Bizar più che reverso di medaglie / E ben che gioven sia, fa cose dotte / Che con gli antiqui alcun vuol che se uguaglie / Un'altra laude sua non preterisco / De la prestezza del pennel stupisco".
Tale "precocissima intelligenza archeologica e romantica" (Volpe) è provata dal Codice Wolfegg e da uno dei Taccuini dell'A. nel British Museum (cfr. Bober), in , cui rivela in rapidi schizzi la sua ammirazione e la commossa partecipazione per l'antichità. In questo periodo lavorò, secando il Ricci, nella fortezza di Civita Castellana ove, nelle volte del grande cortile, rimane un ciclo di decorazioni a grottesche, mentre sono perdute le due ante di organo col Martirio degli apostoli Pietro e Paolo e la Storia di Simon Mago dipinte per i Borgia in S. Pietro a Roma; per tali opere resta però un disegno con Pietro che rinnega Cristo all'Accademia di Venezia.
A Roma deve aver avuto rapporti con un altro bolognese, Iacopo Ripanda, anch'egli innamorato delle anticaglie, e forse collaborò agli affreschi di S. Onofrio, per cui esiste al British Museum di Londra un disegno per le Sibille certamente suo e migliore dell'affresco eseguito da un artista meno dotato. Forse di questo tempo è l'Adorazione dei pastori del Museo di Berlino ove, con Filippino, si sente anche il Pinturicchio che egli vide appunto a Roma e dal quale prese, quasi senza varianti, la figurazione fatta dal pittore in Santa Maria del Popolo; anccra al Pinturicchio, ma con una diversissima personalità, si rifà negli affreschi monocromi nella terza cappella di S. Maria del Popolo a Roma col Martirio di s. Caterina, di s. Paolo e di s. Pietro ove si sente anche una chiara affinità con le opere giovanili di Raffaello e del Perugino.
Il ritorno a Bologna nel 1504 del pittore, la cui stramba fantasia, se non il livello artistico, è celebrato da tutti i contemporanei, è confermato da un sanguinoso episodio: il ferimento di tale Maffeo da Milano barbiere, col quale aveva avuto una discussione, nel dicembre di quell'anno. Subito dopo il suo ritorno alla città natale dovette dipingere la pala con Madonna e santi per Giovanni Sforza signore di Pesaro (ora nella Pinacoteca di Bologna).
La pala è firmata "Amici pictoris bononiensis tirocinium", per cui il Ricci ha pensato che fosse un'opera della prima giovinezza, mentre essa rivela già' con i riferimenti acquisiti durante la permanenza romana, elementi che si riscontrano soprattutto negli affreschi di S. Cecilia, eseguiti nel 1506. La composizione a cerchio, con le figure variamente atteggiate nei gesti e nelle ispressioni intorno al Bambino, si ripete nei rilievi dell'abside sul fondo campestre ove in lontananza si affollano personaggi, che vengono rappresentati con mimiche esasperate in una campagna timidamente priinaverile, come accennano le lievi fronde degli alberi contro il cielo.A questo tempo appartiene anche il S. Sebastiano in collezione privata a Milano, già ascritto al Perugino, ma restituito a lui dal Longhi ([1934] 1956) per "un pathos tanto più subiettivo e momentaneo inasprito dal fondo di celo nottumo, su cui brilla l'antico bassorilievo candido ad ombre di viola", ed anche l'Adorazione dei Magi della Pinacoteca di Bologna, già ascritta al fratello Guido, ma che è di lui caratteristica e riflette, oltre il Pinturicchio, Raffaello, il Costa ed il Perugino. L'opera però più importante, dopo il suo ritorno a Bologna, è la collaborazione al ciclo di affreschi dell'oratorio di S. Cecilia presso S. Giacomo (1506-08 circa) ove il Longhi ha riconosciuto la sua mano, oltre che negli episodi già comunemente ascrittigli: la Decollazione di Valeriano e Il seppellimento, anche nei Due santi incoronati dall'Angelo, nei quali come sempre egli unisce ad una insistita, quasi crudele ricerca di prosastica realtà di stampo nordico anzi fiammingo, alla Brueghel, una tenerezza di toni, una sua immediatezza nel paesaggio, che ricorda i secondi piani degli affreschi di Lucca. Alcune parti più deboli nell'ultimo episodio denunciano probabilmente l'inizio di un altro pittore, meno dotato questo, soppiantato poi dall'A. cui sicuramente appartiene il bel disegno agli Uffizi, tanto più vibrante e nuovo, anche nella tecnica a segni incrociati, dell'affresco stesso. In altri due riquadri poi bisogna riconoscere, vicino all'opera più debole di un artista minore, l'impostazione originale dell'A., e cioè nel Battesimo di Valeriano, specie nel fondo di paese, e nel Martirio di s. Cecilia ove è sua, col paesaggio, almeno parte dell'esecuzione del lato sinistro.
La sua opera si distingue qui, oltre che da quella dell'anonimo aiutante, dal fare dei Costa e del Francia che lavorarono a gara con lui in altri episodi: nello schema compositivo, sempre vario e reso con moto ondoso e imprevedibile, nel paesaggio con alberi e rocce spesso suggeriti ed abbozzati più che rappresentati e con figurine colte in un gesto ed in un atteggiamento inunediato, quasi come in una istantanea scattata senza preavviso, come nei protagonisti, nei quali quel che conta non è la bellezza dei volti o la perfezione delle membra sempre trascurata, anzi volutamente alterata, ma quel senso di malinconia che aleggia sui visi e si riflette negli alberi nudi e scheletrici sul cielo chiaro, o si accentua di pathos nel paesaggio collinoso e roccioso, su cui si sta agitando una folla pervasa magari dal demone della danza come in un nordico sabba.
A un tempo immediatamente successivo, cioè probabilmente tra il 1507 e il 1509, appartengono gli affreschi di S. Frediano a Lucca nella cappella di S. Agostino costruita nel 1506 da Pasquino Cenami, priore della chiesa, con Storie di s. Frediano, di Gesù e del Beato Giovanni, con Profeti e Sibille nella volta ed il Giudizio Universale nella lunetta. Questi affreschi, già notati dal Vasari come "cosa degna di lode", sono considerati tra le sue opere più importanti; anche qui torna il motivo di monocromati simulanti bassorilievi antichi resi con spregiudicata vivacità; in S. Frediano dipinse ancora l'affresco nella facciata interna della chiesa con la Madonna col Bambino ed i ss. Margherita, Agata, Sebastiano e Giovanni Battista e per la chiesa di S. Cristoforo la bella pala con la Madonna col Bambino ed i ss. Sebastiano, Giuseppe, Giovanni e Giorgio, ora nella pinacoteca di Lucca.
Tornato a Bologna dipinse, come ricorda anche il Vasari, molte facciate di case a monocromato ora perdute; a questo tempo appartiene certamente una serie di pale di modeste dimensioni, tutte databili tra il 1505 e il '10, tra le quali una frammentaria e ricostruita dallo Zeri con la Madonna, il Bambino e s. Giuseppe (la Madonna e il Bambino sono di proprietà Foresti a Carpi e il s. Giuseppe è a palazzo Venezia a Roma), una paletta trovata nel Ricovero di Mendicità di Bologna ed un'altra, anch'essa frammentaria, nella Galleria Estense di Modena, che rivelano come in fondo non solo fabbricerie e confraternite, ma anche i borghesi del tempo apprezzassero, per i loro capoletti o per gli altari domestici, vicino alle auliche raffinatezze delle opere del Francia, le doti più complesse e difficili, ma più profonde e pungenti dell'Aspertini.
Sempre al primo decennio del Cinquecento, anzi al tempo del suo ritorno a Bologna, appartengono alcuni bellissimi ritratti virili, quello ad esempio dell'Istituto Städel a Francoforte, o l'altro nel Museo Davia Bargellini a Bologna di dúreriana forza, mentre forse di due anni posteriore è il Ritratto femminile della collezione Walters a Baltimora, dal volto personalissimo e suggestivo nella sua astratta fissità degna dell'altro bellissimo ritratto di Giovane al Gabinetto Disegni degli Uffizi, da datarsi verso il 1510. Molti altri ritratti sono a lui ascritti, ma non per tutti è sicura l'attribuzione né la data di esecuzione: tra essi un ritratto di Donna ed uno di Uomo alla Galleria Nazionale di Londra e una Dama in profilo nella Galleria di Vienna.
Non molto lontana nel tempo la pala di S. Martino a Bologna che il Malvasia definisce con tanto penetrante acume: "nelle quali tutte figure ha dato in un grande e terribile sì nei contorni che nel colorito, in una facilità e risoluzione che, se a parte a parte si separassero col taglio le cose che per entro vi sono, passeriano per di Giorgione, perché la fastosità delle carni, la sincerità dei vestiti, la facilità delle posature sono affatto le medesime", e che sarà esemplare per un gruppo di artisti veneti, dal Romanino a Pellegrino da S. Daniele, a Domenico Campagnola, al Pordenone, nel secondo decennio dei Cinquecento. Di questo stesso tempo, tra il primo ed il secondo decennio, sono due frammenti di affresco nella Galleria Nazionale di Bologna con una Madonna col Bambino, una Sacra famiglia ed una serie di disegni, alcuni dei quali trasposti in incisioni, nonché miniature e sculture, ecc., tutte opere nelle quali si riflette il suo umore inquieto, estroso, fantasioso e insieme romantico, di un romanticismo profondo e introverso che preferisce il ghigno e il grottesco al sorriso dolciastro; bastano a comprovarlo tre frammenti di cassone in collezione privata pubblicati dal Longhi ([1940] 1956, p. 149, ill. 441-443) con storie di caccia e cavalleresche ambientate in profondi paesaggi, i cui protagonisti allungati come trampolieri hanno pose ed espressioni stranissime.
Del 1519 è in S. Petronio una Pietà,e, forse vicina a questa, l'Adorazione del Bambino della Galleria degli Uffizi ove si ripete, nell'agitato comporsi a cerchio degli adoranti intorno al Bambino, nei rilievi di contro all'abside che qui si approfondisce in un gotico interno di tempio, nel paesaggio lontano, il modulo della pala del "tirocinio", ma con figure appesantite e panneggi contorti e barocchi. Altre interessanti opere, in cui sempre più si afferma questa sua maniera più appesantita e involuta, vanno ricordate; tra esse un monocromato già nella coll. Robinson a Londra. Nel Museo di Hannover è una Disputa di s. Agostino del 1523.
In questo periodo, grosso modo per circa un quindicennio, l'artista è soprattutto impegnato a lavorare per la fabbrica,di S. Petronio; nel 1514 dette disegni per le figure di S. Petronio e di S. Ambrogio per due finestre e scolpì i rilievi per le porte minori col Seppellimento della moglie di Giacobbe e Giuseppe calato dai fratelli nella cisterna, nei quali è evidente, coi suo fare, l'ammirazione per l'arte di Iacopo della Quercia che, come è noto, aveva scolpito lì accanto i rilievi del portale maggiore. Certo egli fece qui anche altre sculture e continuò a lavorare quasi ininterrottamente per i fabbricieri dipingendo, nel 1519, la ricordata Pietà, mentre nel 1524 dava il disegno per un orologio, nel 1525 ricevette arnesi e denari per opere di scultura, nel 1526 si impegnò a scolpire per la lunetta destra il gruppo del Cristo morto con Nicodemo, che gli fu pagato nel 1530, e nel '31 dipinse "lo adornamento dell'organo, zoè... le teste de li lati". Nel 1529 fece con Alfonso Lombardi, come ricorda anche il Vasari, l'arco di trionfo nella piazza maggiore, presso l'ingresso del Palazzo pubblico per l'incontro di Clemente VII e Carlo V. Dopo queste opere più nulla risulta che facesse in campo artistico, anche se non mancarono negli ultimi anni della vita le cariche pubbliche ad esso connesse: nel 1529 massaro delle Arti, rientrò nel 1535 nel Consiglio della Compagnia dei pittori e nel 1546 fu di nuovo massaro delle Arti.
Ma che cosa può aver distolto questo pittore, fanatico del suo lavoro, che "come persona astratta ch'egli era e fuor di squadra dall'altre, andò per tutta Italia disegnando e ritraendo ogni cosa di pittura e di rilievo, e così le buone come le cattive" (Vasari)? Secondo gli storiografi il matrimonio con Smeralda degli Abati. Dopo tale evento sembra che le sue stranezze si siano accentuate. Nel 1550 Leandro Alberti scrive di lui: "Vive Amico degli Aspertini non meno degno scultore che dipintore", ma il 3 nov. 1552 l'A. fa, ormai prossimo a morte, testamento in cui nomina eredi la moglie Smeralda, la figlia Laura e tre figli maschi: Marco Antonio, Giovanni Antonio e Carlo. Morto entro lo stesso 1552, fu sepolto nella chiesa dei carmelitani di S. Martino Maggiore.
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