CORSINI, Amerigo
Figlio di Filippo di Tommaso e della sua prima moglie Lisa, della famiglia magnatizia dei Rossi, nacque a Firenze verso il 1370.
Mercanti e banchieri saliti in posizione preminente alla fine del Duecento, nel secolo successivo i Corsini avevano accresciuto il prestigio del loro nome come uomini di affari e di governo, e come ecclesiastici di grande fama. Il padre del C., dottore in legge e professore nello Studio fiorentino, fu uno dei maggiori protagonisti nella vita politica cittadina ed ebbe una posizione di primissimo piano, grazie anche alla parentela con la potente famiglia degli Albizzi, cui apparteneva sua madre. Era suo fratello il celebre cardinale Pietro, partigiano dell'antipapa Clemente VII e personaggio assai influente alla Curia di Avignone, dove' morì nel 1405. Questi precedenti familiari ebbero un peso notevole sul C. e sulla sua carriera.
Avviato per tempo alla vita ecclesiastica, ottenne giovanissimo la prepositura di Poggibonsi; divenne poi - non sappiamo esattamente quando - arcidiacono di Bayeux in Normandia e titolare di un canonicato a Guéron. Come testimoniano questa carica e questo beneficio il C., in una Firenze che si mantenne ufficialmente fedele ai papi di Roma per tutto il periodo del grande scisma, dovette invece dare la sua adesione - e per parecchi anni - alla obbedienza avignonese. Dopo l'ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII, che da cardinale aveva avuto rapporti strettissimi con la nobiltà fiorentina, il 16 luglio 1411, probabilmente dopo una elezione pro forma compiuta dal capitolo della cattedrale, il C. fu creato vescovo di Firenze, succedendo al grande canonista Francesco Zabarella. A monte di questa elezione vi dovettero essere forti pressioni politiche, perché il nuovo presule venne prescelto, su proposta della Signoria, nonostante esistesse una legge del 7 luglio 1375 che vietava ai cittadini fiorentini di accettare l'episcopato della propria città.
Nel 1419 la Signoria chiese ed ottenne dal pontefice Martino V la concessione della dignità e della giurisdizione metropolitica per la Chiesa di Firenze e nel concistoro del 10 maggio di quell'anno (e non del 2 maggio 1420, come invece afferma l'Ughelli e come ripetono altri autori più recenti, fra i quali anche l'Eubel) il C. venne creato arcivescovo. Sembra che nel 1422 le autorità comunali lo abbiano proposto, ma senza successo, alla dignità cardinalizia.
Gli avvenimenti eccezionali, che travagliarono la Chiesa e l'Italia nella prima metà del sec. XV, non mancarono di avere le loro ripercussioni anche nella vita interna della diocesi toscana, specialmente nei periodi in cui soggiornarono a Firenze Giovanni XXIII (giugno-settembre 1413), Martino V (24 febbr. 1419-9 sett. 1420), ed Eugenio IV (dal 23 giugno 1434). La presenza, entro le mura cittadine, dei pontefici romani e della loro corte dovette certamente creare non pochi problemi al C.; ma pare che la sua condotta non desse luogo a contrasti di qualche importanza. La Chiesa di Firenze, d'altra parte, attraversava allora momenti difficili perché le vicende del grande scisma e gli sviluppi della politica italiana avevano influenzato pesantemente le condizioni morali, disciplinari ed economiche del clero diocesano. Sull'ambiente che circondava il C. ci reca una serie di interessanti testimonianze il registro della visita pastorale che egli fece nel 1422 e nella quale prese diretto contatto con una realtà turbata da frequenti discordie, atti di indisciplina e irregolarità amministrative. Preoccupanti dovevano essere in particolare i problemi finanziari e patrimoniali, almeno a giudicare dal carattere delle osservazioni fatte allora con insistenza dal presule ai responsabili delle diverse Chiese.
Non conosciamo molto bene l'attività pastorale svolta dal C.: i documenti a noi noti, specialmente quelli scoperti di recente dal Molho nel fondo Notarile antecosimiano dell'Archivio di Stato di Firenze, ci consentono tuttavia di intravvedere aspetti non secondari della sua azione di governo. Alcuni antichi autori parlano dei suoi amichevoli e stretti rapporti con il dotto benedettino dom Gomezio da Lisbona (Gomez Ferreira da Silva), che in quegli anni fu impegnato nella riforma di alcuni monasteri della diocesi di Firenze. Non sembra tuttavia che il C. si sia ispirato all'azione del Gomezio e abbia cercato di restaurare la disciplina tra i sacerdoti secolari della sua diocesi: e, d'altra parte, non doveva essere agevole portare avanti una simile azione di riforma nelle circostanze in cui si trovava a dover operare. Non pochi ostacoli, infatti, limitavano la sua autorità. Sappiamo che fu spesso, soprattutto per motivi economici, in contrasto col suo clero, nei riguardi del quale dovette mantenere in più occasioni un atteggiamento fermo e intransigente, che forse può spiegare il duro giudizio di "cattivo pastore" espresso su di lui dal Cavalcanti (p. 308). Con spirito tutt'altro che incline all'obbedienza, da parte sua il "clerus Florentinus", che si era riunito in sinodo - a quanto pare - di propria iniziativa, senza alcun intervento del C., aveva elaborato intorno al 1416 alcune costituzioni (pubblicate dal Trexler, Synodal Law ..., pp. 347-371), con le quali aveva definito in modo preciso la struttura della sua organizzazione, modellandola su quella municipale. Il sinodo - era stata fra l'altro istituita una cassa comune del clero - si doveva essere prefisso lo scopo di predisporre, contro la Curia romana, le autorità della Repubblica, e contro lo stesso vescovo di Firenze adeguati sistemi per la difesa degli interessi degli ecclesiastici della diocesi, visti come parte di un organismo corporativo. Tutto questo fa pensare ad una condizione di relativo isolamento del Corsini.
La pressione fiscale esercitata sul clero fiorentino dalla Curia romana e dallo stesso Comune di Firenze con le sue ripetute imposizioni straordinarie - ricordiamo la tassa di 80.000 fiorini addossata agli ecclesiastici verso il 1416 - acuì la tensione esistente fra il presule ed i suoi sacerdoti. Pressato dall'urgenza di far fronte alla imposta accollatagli, alle spese per il mantenimento della sua corte e, forse, anche ad impegni finanziari assunti dalla sua famiglia, sin dal 1418-19 il C. si vide costretto a contrarre con la Cassa dei clero una serie di prestiti ad elevati tassi d'interesse. La Cassa stessa si trovò a sua volta indebitata per mutui contratti con il banchiere fiorentino Niccolò Barbadori; e le difficoltà aumentarono nel 1424-25, quando il Barbadori insisté minacciosamente per riavere il suo denaro e il clero dovette sollecitare tutti i pagamenti arretrati. Fra i debitori morosi era il C., che vide aggravarsi ulteriormente i suoi oneri a seguito di una nuova imposta comunale di 25.000 fiorini accollata al clero nel 1426.
Le polemiche fra il C. e la Cassa del clero si fecero allora così aspre ed i rapporti, all'interno della Chiesa fiorentina, così incandescenti, che il pontefice si vide costretto ad intervenire, inviando nella città toscana, come suo commissario col compito di dirimere la questione, il protonotaro Giovanni Vitelleschi. Riconosciutolo debitore di oltre 5.900 fiorini, il Vitelleschi intimò allo arcivescovo di pagare (20 sett. 1427). Ritenendo la valutazione eccessiva, il C. si rifiutò di sborsare la cospicua somma e si appellò al papa. Una successiva missione pontificia, condotta da Niccolò da Mercatello, non riuscì ad ammorbidire lo intransigente atteggiamento dell'arcivescovo, e il pontefice si decise ad un nuovo intervento affidando la questione ad un comitato di quattro cardinali, i quali lentamente riuscirono a portare le due parti ad una soluzione di compromesso. Il C. convocò un sinodo diocesano, nel quale cercò una conciliazione col suo clero, esortò tutti alla concordia e si disse disposto a restituire le somme che realmente doveva. Non è chiaro il resto della vicenda. Forse il C. saldò effettivamente i suoi debiti nel corso del 1428 o ai primi del 1429; forse furono esercitate, da Roma o da parte di altre autorità, pressioni che resero meno rigido l'atteggiamento del clero fiorentino. Certo è che, dopo due brevi del papa in cui le parti venivano invitate a trovare un accordo (20 marzo), un sinodo diocesano rilasciò al C. un documento liberatorio che dichiarava estinto ogni suo debito e metteva fine alla lunga controversia (14 apr. 1429).
Non sembra che il C., così impegnato in quegli anni nella sua diocesi, abbia preso parte attiva alle polemiche suscitate dal movimento conciliare, che pure egli dovette conoscere bene grazie alla consuetudine con giuristi di fama come suo padre e suo zio, il cardinale Pietro Corsini. Non intervenne, infatti, al concilio di Roma (1412-13) e a quello di Costanza (1414-18), nel quale il Comune di Firenze fu rappresentato dal domenicano Leonardo Biliotti; non fu presente neanche alle sessioni del 1431 e del 1432 del concilio di Basilea. Partecipò, invece, al concilio di Siena del 1423-24, nel corso del quale si schierò, almeno in una occasione, dalla parte dei fautori del papa. Si ha la impressione che abbia compiuto la sua missione pastorale senza seguire troppo da vicino i grandi temi di carattere generale che, come quello del conciliarismo, erano allora oggetto di polemica all'interno della Chiesa. Questo suo atteggiamento rifletteva forse gli interessi propri dell'ambiente fiorentino, dove simili polemiche avevano perduto il fascino dell'attualità dopo la fine del grande scisma.
Scarse e contraddittorie le notizie relative agli ultimi anni del C. che sono giunte sino a noi. Pare che, a differenza di suo fratello Gherardo, membro di una Balia antimedicea nel 1433, si sia sempre mantenuto estraneo alle vicende che portarono dapprima all'esilio di Cosimo il Vecchio, e poi, nel 1434, al definitivo consolidamento del suo potere sulla città.
Il C. morì a Firenze il 18 marzo del 1435
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