BOLOGNESI, Ambrogio
Nacque a Palermo nel 1507 da un Giovanni muratore, originario della regione di San Marino, e da una Caterina, di cui ignoriamo il casato. Nel 1525, quando lasciò la Sicilia per andare a studiare a Roma, il B. era già entrato nell'Ordine degli eremitani di S. Agostino. Nel 1527 il sacco di Roma lo indusse a trasferirsi a Rimini, dove restò un anno; nel 1529, dopo una sosta di un mese a Siena, tornò a Roma, dove rimase tre o quattro anni. Fu anche a Firenze, ma non sappiamo quando. Terminata la preparazione generale, iniziò i corsi di teologia, acquistando una cultura abbastanza solida in materia. Lo studio della teologia fu accompagnato dall'insegnamento nelle scuole inferiori dell'Ordine. Nel 1540 lo troviamo maestro degli studenti nello Studio generalizio agostiniano di Palermo; nel 1542 nello Studio di Perugia, prima come cursor, poi come lettore. Nel 1543 fu trasferito al convento di Napoli come lettore in terzo luogo, nel 1544 diventò lettore in primo luogo. Il 7 maggio 1545 il B. conseguì il titolo di baccelliere e nel maggio 1547 partecipò al capitolo di Recanati, dove conseguì il titolo di maestro in teologia e fu designato priore del convento di Palermo.
Il priorato del B. non fu di lunga durata, né esente da mende. Il 20 nov. 1548 egli ne fu dispensato, per ragioni che ignoriamo, e fu invitato a lasciare Palermo nello spazio di otto giorni, per andare a prestare servizio altrove, secondo le disposizioni del provinciale; nel 1549 fu accusato dal suo successore Vincenzo da Firenze di aver lasciato la contabilità del convento in disordine e fu invitato dal Seripando a rientrare a Palermo da Roma, dove il B. in quel momento si trovava, per riordinarla. In questa occasione si manifestò il suo carattere orgoglioso e impulsivo; e la sua scarsa disposizione all'umiltà e all'obbedienza gli valse dure parole da parte del Seripando. Tuttavia nel maggio 1551 il capitolo generale di Bologna lo elesse provinciale di Sicilia. Anche nell'esercizio di questa carica il B. fu richiamato dal successore del Seripando, Cristoforo da Padova, per abuso di autorità nei riguardi del convento palermitano, che dipendeva direttamente dal generale.
Gli itinerari di studio del B., in particolare il soggiorno nella Napoli del Valdés, e il fatto stesso di militare in un Ordine che anche in Sicilia aveva visto molti dei suoi membri comparire negli atti di fede (particolarmente clamoroso il caso del Tripedi, insegnante nello stesso convento del quale il B. divenne priore, condannato nel 1546 ad essere murato vivo quale luterano ostinato) valgono forse a spiegare la particolare sensibilità dell'agostiniano per la questione del rapporto tra volontà e grazia. Buon predicatore, nel 1551 il B. aveva predicato la quaresima nelle chiese di S. Nicola della Galizia e S. Agnese. Anche nell'inverno 1552 egli predicò la quaresima a Palermo. Il 20 gennaio la sua concezione della grazia emerse in una predica che egli tenne nella chiesa della Nunziata e che persuase alcuni dei suoi ascoltatori, specialmente i maestri di teologia del collegio palermitano dei gesuiti di recente istituzione, che egli fosse inquinato da opinioni luterane.
La prima parte della predica era dedicata all'incarnazione di Cristo; la seconda trattava del rapporto tra grazia e libero arbitrio. Dopo aver protestato in termini generali la sua sottomissione alla Chiesa, il B. esaminò la dottrina che riconosce la necessità dello stimolo della grazia determinante perché l'uomo possa fare il bene, ma che lascia al libero arbitrio la facoltà di consentire o dissentire da tale stimolo. Tale dottrina, corrispondente a quella che il concilio di Trento aveva pochi anni prima stabilito come ortodossa, il B. chiamò semipelagiana e dichiarò eretica, fondandosi su di un passo di s. Giovanni (XV, 5), sul canone VII del concilio di Oranges del 529 e soprattutto sull'autorità di S. Agostino. La dimostrazione fu illustrata da una serie di esempi. Sviluppando una immagine di David (salmo XLIV, 2) e una di Isaia (X, 15) ripresa da S. Ambrogio, il B. paragonò il rapporto che intercorre fra il libero arbitrio e il bene a quello che intercorre fra la serra e il serrare, la sega e il segare, fra il bastone e la mano che lo sorregge; riprendendo un esempio di Alfonso di Castro, affermò che il libero arbitrio è come il bambino che non sa scrivere e la grazia è come il maestro che guida la mano del bambino e gli insegna a fare i tratti. La predica che, contrariamente alla consuetudine, non era stata preceduta dall'Ave Maria, si concluse con un'invettiva contro coloro che credono di potersi conquistare la gloria del cielo con le opere e i "patrenostri male ditti".
Il giorno dopo, 21 gennaio, il dottore in teologia Giovanni Bologna, arcidiacono della chiesa maggiore di Palermo e priore della congregazione di S. Trinità Delia, denunciava il B. davanti al pretore Giovanni Valdaura come infetto di opinioni luterane. Alla sua denuncia si aggiunse ben presto quella di tre gesuiti del collegio palermitano, Paolo d'Achille, Pietro de la Riva de Neyda e Giovanni Roger. Gli esempi addotti dall'agostiniano divennero armi di notevole gravità in mano ai gesuiti, i quali lo accusavano di aver presentato la volontà umana come uno strumento inanimato e del tutto passivo nei confronti della grazia.
In realtà, non sembra che la tesi del B. fosse così rigida - la maggior parte degli ascoltatori, più tardi chiamati a deporre, ritennero come più adeguata a esemplificarne la teoria l'immagine del bambino, che sembra accennare non tanto a una costituzionale impotenza dell'uomo al bene, quanto a uno stato di debolezza, nel quale l'intervento della grazia acquista una funzione decisiva, ma non esclusiva, e che è stata avvicinata alla dottrina della doppia giustificazione sostenuta dal Seripando in sede di concilio.
Il 5 febbraio il B., avvertito del fermento suscitato e delle denunce, tenne davanti al pretore e ai suoi giurati una predica sulla intercessione dei santi, nel corso della quale giustificò l'omissione dell'Ave Maria nella predica precedente e cercò di attenuare le sue affermazioni riguardo al libero arbitrio con una serie di sottili distinzioni fra il libero arbitrio considerato in sé e il libero arbitrio considerato in rapporto a Dio, fra il consentire formalmente e il consentire materialmente alla sollecitazione della grazia: distinzioni che non persuasero i suoi ascoltatori.
Il 10 giugno infatti i consultori Salvatore Magnavacca e Ludovico Tesauro dichiararono contraria al canone del concilio e contraria alla S. Scrittura una proposizione della predica del 20 gennaio riferita concordemente dai testimoni, e i giuristi Pietro Saladino e Pietro Agliata si pronunciarono per l'arresto e l'imprigionamento del Bolognesi. L'inquisitore Bartolomeo Sebastian si decise invece per la convocazione e l'interrogatorio dell'agostiniano, che avvenne il 14 giugno. Il 17 questi presentò una confessione che, pur ribadendo la sottomissione incondizionata all'autorità della Chiesa e del concilio, è soprattutto una rassegna delle "auctoritates" cui egli si era appoggiato nel corso della predica, con particolare riguardo per S. Agostino. L'azione giudiziaria sembrò arenarsi a questo punto, tanto che il 17 novem. 1552 il B. ottenne il permesso di uscire dal territorio della città di Palermo. Un anno dopo però, il 10 giugno 1553, il procuratore Gerardo Percolla presentò contro di lui un'incriminazione per luteranesimo e chiese la degradazione, la confisca dei beni e il deferimento del B. al braccio secolare. Il B. rinunciò a ogni apologia. Si autoaccusò di non aver ben compreso S. Agostino, di non aver avuto conoscenza delle decisioni del concilio, attenendosi come linea di difesa alla tesi di aver mancato per ignoranza, non per malizia. Poiché l'inquisitore non poté addurre nessun fatto per dimostrare che gli errori provenivano dalla conoscenza di testi luterani, l'accusa si ridusse a quella di erronea lettura e deformazione di testi agostiniani. Il B. fu tuttavia dichiarato "grave et veliementer suspecto in la fide" e si sottrasse all'accusa di eresia, come fu detto dall'inquisitore, solo grazie alla sua ignoranza delle sacre lettere, Fece atto di sottomissione senza riserve e il 18 giugno comparve nell'atto di fede che si tenne in piazza della Loggia, insieme con cinque altri maestri di teologia, un maestro di scuola e un nobile. Fu condannato a scontare un anno di carcere o più nel suo convento, ad arbitrio dell'inquisitore, privato dell'ufficio sacerdotale e del diritto di voto, obbligato a stare all'ultimo posto in refettorio e nelle processioni, sospeso per due anni dalla predicazione e dall'insegnamento, però "absque nota infamiae". Il carcere e la sospensione del diritto di voto durarono solo un anno, ma le altre sanzioni durarono due anni. Il B. fu definitivamente allontanato da Palermo e relegato in provincia, nel convento della Consolazione. Un atto dell'agosto 1554 gli consentiva di restare stabilmente in questo convento; un altro del dicembre gli concedeva di godere delle prestazioni di un servitore e della compagnia dei fratelli. Nel convento della Consolazione il B. morì in data compresa fra il 22 febbr. e il 29 ag. 1555.
Bibl.: S. Caponetto, Dell'agostiniano A. B. e di un suo processodi eresia a Palermo,1552-53 (con il testo ined. del processo), in Bibl. d'Humanisme et Renaissance, XX (1958), pp. 310-343.