Termine con cui, in diritto romano, si alludeva a due diversi istituti. In una prima accezione, accolta dalla legge delle Dodici Tavole, l’a. indicava il circuito di terra intorno alle case, utilizzato al fine di garantire congrue distanze di costruzione tra gli edifici e per scopi di stillicidio esterno. La norma cadde poi in desuetudine, quando, a causa dello sviluppo urbano e dell’incremento demografico, sorse la necessità di sfruttare al massimo gli spazi in città. All’epoca di Plauto, in particolare, risalgono le prime testimonianze relative all’edificazione di un paries communis tra gli edifici, che con il passar del tempo dovette certo farsi sempre più frequente (fino a dar luogo al fenomeno delle insulae urbane), così da imporre all’attenzione dei giuristi problemi nuovi di disciplina. Anche il sorgere, già nel corso del 2° sec. a.C., delle servitù urbane incompatibili con l’a., quali erano non soltanto quella di stillicidio, ma anche quelle di appoggio e, per certi versi, di luce, dovette sensibilmente contribuire alla crisi dell’istituto.
In un’altra accezione, l’a. indicava il crimine di illecita propaganda elettorale, diretta all’accaparramento di voti mediante donativi elargiti alle masse popolari. Sanzionato con varie pene fin dal 2° sec. a.C., venne sistematicamente perseguito mediante l’istituzione, in età sillana, di una corte permanente (quaestio perpetua), che giudicò dell’a. anche in attuazione dell’abbondante legislazione successiva, resasi necessaria per ovviare a quel fenomeno, sempre più diffuso negli ultimi decenni della Repubblica. Durante l’Impero le assemblee popolari persero la propria competenza elettorale, e dunque della disciplina dell’a. non si fece più applicazione, se non fuori Roma o, nel tardoantico, al diverso scopo di impedire che qualcuno, offrendo denaro, divenisse o continuasse a essere un pubblico funzionario nonostante il divieto di un precetto di legge.