MASNOVO, Amato
– Nacque il 2 nov. 1880 a Fontanellato, presso Parma, da Giuseppe, artigiano e agricoltore, e Fernanda Cappella; dai genitori il M. e il fratello Omero ricevettero una seria educazione religiosa e furono incoraggiati allo studio. Il M. entrò in seminario, a Parma, nel 1891; nel 1898 i superiori lo inviarono a Roma, dove conseguì, nel 1902, il dottorato in teologia all’Università Gregoriana, dopo aver completato, nel 1901, gli studi di filosofia presso l’Accademia romana di S. Tommaso.
Alla Gregoriana il M. entrò in contatto con la tradizione tomista di impronta gesuitica, remotamente legata al magistero di F. Suárez, ed ebbe tra i suoi maestri V. Remer, M. De Maria, P. De Mandato, L. Billot e G. Mattiussi (degli ultimi due il M. ereditò l’impegno antimodernista).
Ritornato a Parma, insegnò filosofia e religione presso il liceo del seminario. Dopo l’ordinazione sacerdotale (3 giugno 1903) fu incaricato dal vescovo di tenere un corso sul pensiero di Tommaso d’Aquino per gli studenti di teologia del seminario dove fu in seguito anche docente di dogmatica (ruolo che mantenne fino alla morte), rettore (1913-17) e prefetto degli studi.
Nel 1906 iniziò a pubblicare sulla Revue néoscolastique de philosophie, fondata a Lovanio da D. Mercier; tale collaborazione cessò tuttavia con la fondazione, nel 1909, della milanese Rivista di filosofia neoscolastica, in cui il M. scrisse fin dal primo numero. Il gruppo che la animava, guidato da A. Gemelli, era lo stesso che nel 1921 dette vita, sempre a Milano, all’Università cattolica del S. Cuore: impresa alla quale il M. fu chiamato a partecipare fin dal principio, con un incarico di storia ed esposizione sistematica della scolastica. Nel 1924 conseguì la libera docenza (la commissione era presieduta da G. Gentile) e proseguì nel medesimo insegnamento (da allora denominato storia della filosofia scolastica). Sempre nel 1924 fu accolto fra i «membres d’honneur» della Société thomiste, fondata da M.D. Chenu, mentre dal 1927 fece parte della Accademia di S. Tommaso. In quegli anni fu vicerettore della Cattolica e partecipò alla costituzione, a Castelnuovo Fogliani, di una sua succursale.
Nello stesso periodo presiedette la sezione milanese della Società filosofica italiana e diresse la collana medievistica «Orbis Romanus» della casa editrice Vita e pensiero. Fu nominato vicepresidente dell’Unione cattolica per le scienze sociali, organizzatrice delle Settimane sociali, all’interno delle quali, nel 1928-29, tenne le conferenze teologiche. Nel 1929 divenne prelato domestico di Sua Santità; nel 1931, nella diocesi di Parma, fu nominato vicario capitolare e, l’anno successivo, vicario generale.
Nel 1930, superato il concorso a cattedra (nonostante l’opposizione di P. Carabellese), fu nominato professore straordinario di filosofia scolastica alla Cattolica. Nel 1934 diventò ordinario di storia della filosofia medievale e mantenne tale insegnamento anche quando ebbe la cattedra di filosofia teoretica.
Gemelli voleva che i docenti della sua giovane università sfruttassero ogni occasione di confronto, e il M. partecipò attivamente a numerosi congressi di filosofia, fra cui si ricordano, in particolare, quelli nazionali di Firenze (1923) e di Genova (1936); quello internazionale di Napoli (1924); quello tomistico internazionale di Roma (1925); quello commemorativo di s. Alberto Magno (Friburgo, 1932); nonché la Deuxième Journée d’études de la Société thomiste (Juvisy, 1933).
Dal 1950, raggiunti i limiti di età e lasciato all’allievo G. Bontadini l’insegnamento di teoretica, tenne all’Università cattolica un corso di conferenze sulla filosofia tomistica.
Il M. morì a Parma il 9 ag. 1955.
A livello storiografico sono presenti nell’opera del M. cinque principali centri di interesse. Anzitutto egli si propose di evidenziare il carattere originale del pensiero, gnoseologico e metafisico, di Tommaso d’Aquino (Appunti del corso su «La teoria della conoscenza in s. Tommaso d’Aquino», Milano 1944; Introduzione alla Somma teologica di s. Tommaso, Brescia 1945). Ma fu attento anche alla scolastica che precede Tommaso e, in particolare, ad Alberto Magno (Alberto Magno e la polemica averroistica, in Riv. di filosofia neoscolastica, XXIV [1932]) e ai dibattiti universitari parigini della prima metà del XIII secolo, con particolare riguardo a Guglielmo d’Auvergne (Da Guglielmo d’Auvergne a s. Tommaso d’Aquino, I-III, Milano 1930-45). Altro centro d’interesse è il pensiero di Agostino, del quale il M. intese mostrare la convergenza con Tommaso su tre temi: la presenza di un’impronta divina nella conoscenza umana, originariamente aperta all’universale e al necessario; la valorizzazione, in funzione dell’«ascesa a Dio», dell’insufficienza ontologica della realtà diveniente; l’apertura della filosofia verso la religione rivelata; (S. Agostino, Brescia 1946; S. Agostino e s. Tommaso. Concordanze e sviluppi, Milano, 1950). Studiò inoltre le origini del neotomismo nell’Ottocento, con particolare attenzione a V. Buzzetti – nel quale il M. vide l’iniziatore della rinascita tomistica in Italia e di cui curò l’edizione delle Institutiones philosophicae (I-II, Piacenza 1940-41) –, e a un suo allievo, il gesuita S. Sordi, le cui critiche alla psicologia filosofica di A. Rosmini avrebbero orientato l’atteggiamento, dapprima della Compagnia di Gesù e poi della Cattolica, sulla questione rosminiana (Il neotomismo in Italia [origini e prime vicende], Milano 1923). Il M. si occupò anche della natura della «filosofia scolastica», da lui descritta come una sintesi vitale tra «elementi cristiani» (riguadagnati speculativamente) ed «elementi platonico-aristotelici». Nell’ambito poi della querelle apertasi negli anni Trenta sul concetto di «filosofia cristiana», il M. sostenne, in polemica con É. Gilson, che la filosofia (anche quando stimolata dalla rivelazione e animata dalla fede) debba fondarsi sull’argomentazione razionale, anche nell’evidenziare la propria insufficienza a risolvere integralmente il problema della vita e la propria conseguente apertura ad altri atteggiamenti epistemici.
Per il M. la logica e la metafisica generale (o ontologia) si trovano ad avere lo stesso «oggetto formale»: l’ente. Ma lo considerano secondo un differente «soggetto formale»: la logica si occupa della evidenza, cioè della autenticità del darsi dell’ente; l’ontologia della sua struttura. Fondamentale struttura dell’ente è la non-contraddizione: dunque, il principio di non contraddizione è elemento iniziale del contenuto sia della ontologia sia della logica. La capacità di cogliere l’evidenza non può essere dimostrata genericamente, ma deve piuttosto essere attestata caso per caso: quanto ai singoli «atti conoscitivi», e non quanto alle «facoltà», pena la circolarità viziosa (Problemi di metafisica e di criteriologia, Milano 1930, p. 46). Tra tali atti, primitivo è quello della semplice apprensione astraente, che nel singolare coglie l’essenza come un che di universalizzabile, e non si limita – come l’empirismo vorrebbe – a una generalizzazione del singolare stesso. La nozione di «ente» è primordiale e implicita in ogni altra. Essa diviene esplicita in due momenti: nella sua astrazione dal reale (Appunti del corso su «la teoria della conoscenza in s. Tommaso d’Aquino», p. 35); e nella sua contrapposizione al negativo. Il M. pensa a una apprensione astraente che non tralasci alcunché di ciò da cui prescinde, cioè che non faccia dell’essere un genere, sia pure supremo. L’unica precisazione che il M. riserva a tale nozione è, dunque, quella che le viene dalla sua opposizione al nulla (di esistenza e di essenza), cioè all’autocontraddittorio (La filosofia verso la religione [1936], Milano 1977, p. 31): il campo dell’essere è allora quello del non-contraddittorio. È anzitutto nella semantizzazione dell’ente che si attua quello che il M. chiama «subordinatismo realista», per cui – contro l’inversa subordinazione proposta da Mercier (cfr. Problemi di metafisica e di criteriologia, p. 47) – la validità dei principî deve fondarsi su concetti che abbiano a contenuto la realtà attuale: «prima si ha la nozione di ente; solo dopo viene il giudizio sull’ente e il non ente», cioè l’istituzione del principio di non contraddizione (Brevi appunti di metodo sul problema della conoscenza. Atti del V Congresso tomistico, Roma 1925, p. 248). Il principio di non contraddizione è una dimensione della ratio entis; il M. lo formula, infatti, in chiave direttamente ontologica: «l’ente non è non ente», «l’ente è incontraddittorio». Per il M. l’analisi non è solo «distinguente», ma anche «comparativa». Infatti, il nesso analitico riguarda anche «supposti» e «corollari» (elementi dell’analisi, rispettivamente, regressiva e progressiva) di un significato: tali che il non porli introduca contraddizione. Il principio di non contraddizione nella sua accezione integrale è «principio di ragion sufficiente», per cui l’ente è incontraddittorio in senso non solo assoluto ma anche relativo, cioè: esclude gli elementi («costitutivi, supposti, corollari») che ne implicherebbero contraddittorietà; implica quelli senza cui sarebbe contraddittorio. Di conseguenza, il positivo, complessivamente considerato, è incontraddittorio; né può avere fuori di sé il fondamento di tale incontraddittorietà: dunque, è ab-solutum («assoluto» in senso aggettivale). L’«Assoluto» (in senso sostantivale) è invece una realtà «sufficiente», cioè tale da non implicare contraddizione se considerata di per sé. Sappiamo «che» l’Assoluto c’è, stante la complessiva incontraddittorietà del positivo; il problema metafisico è stabilire «chi» sia (cfr. La filosofia verso la religione, cit., pp. 46-50).
Con il M. assistiamo a un superamento dell’uso del latino (sulla scia di scolastici come Bálmes e Mercier), ma anche della forma della quaestio disputata, nell’insegnamento e nella scrittura. Ma soprattutto, assistiamo al superamento della trattatistica scolastica moderna. Partendo da ciò che è primo per noi, e non per sé, il M. supera la rigida scansione in trattati: il «De Deo» diviene il logico sviluppo del «De ente in communi». Non solo, ma introduce la questione di Dio come chiave risolutiva del problema della vita umana, che consiste nel confronto tra il «fine ultimo di fatto», che ogni uomo inevitabilmente implica nel proprio agire, con il «fine ultimo di diritto», che non può consistere se non in una relazione adeguata con la realtà assoluta (cfr. La filosofia verso la religione, cit., pp. 23-25). Per le ragioni indicate, Dio in filosofia si incontra prima come predicato che come soggetto, cioè «compare […] mentre essa si occupa […] dell’ente» (cfr. L’ascesa a Dio, Milano 1935, pp. 22 s.); e, più in particolare, della impossibilità di identificare l’Assoluto con la realtà diveniente di cui abbiamo esperienza.
Tale impossibilità è introdotta da una fenomenologia del divenire. In proposito, il M. decosmologizza lo scolastico «moto», omologandolo, anche linguisticamente, all’idealistico «divenire» (a sua volta deteologizzato). Il divenire è una «mutazione su di un sostrato permanente»; non dunque un cominciare e un finire assoluti (che implicherebbero un non-essere assoluto): infatti, nel divenire «il prima e il poi sono tali che il prima è sempre un poi, e il poi è sempre un prima». Il M. identifica il sostrato con «l’esperienza», ovvero con «il mio hic et nunc diveniente atto di pensiero» (La filosofia verso la religione, p. 52). Ciò era conforme al progetto culturale della Cattolica di Gemelli, che intendeva ricomprendere nell’alveo della scolastica le istanze della modernità, culminate nell’attualismo. E intendeva, con ciò, togliere spazio alle rivendicazioni del modernismo. Se E. Buonaiuti dichiarava che «la filosofia è sempre in potenza una religione dell’io; [mentre] la religione è sempre in potenza una filosofia del non-io», il M. mostrava, al contrario, che di un io «insufficiente» non si può fare alcuna religione; e che anzi, a partire dall’io, si può costruire una filosofia orientata verso la religione. Per il M. il diveniente è «insufficiente», perché la ragion sufficiente del «poi» non può risiedere nel suo «prima» (che non può essere ragione sufficiente di sé e insieme dell’altro da sé). In quanto insufficiente, la realtà diveniente ha fuori di sé la propria condizione di incontraddittorietà. Il M. chiama «principio di causalità» il principio di ragione sufficiente in quanto si applica al diveniente e ci porta al di là di questo: del resto, «rifiutare l’attributo perché ci porta fuori dell’esperienza è rifiutare il soggetto medesimo. E questo non si può, perché il soggetto è lì davanti agli occhi nella realtà» (S. Agostino e s. Tommaso, cit., pp. 149 ss.). Il principio di casualità è identificato con la formula tommasiana «omne quod movetur ab alio movetur», che il M. traduce così: «tutto ciò che diviene, in quanto diviene, non ha in sé la ragion sufficiente del suo divenire» (cfr. La filosofia verso la religione, cit., pp. 54 s.). Dunque, l’Assoluto non è il diveniente, ma un immutabile che ne è ragion sufficiente. Se l’immutabilità implica la «semplicità ontologica», comporta anche la trascendenza dell’immutabile rispetto al diveniente; di cui è «motore», ma anche «creatore». Per raggiungere quest’ultimo esito, il M. propone, tra gli altri, il seguente argomento: «se [il motore] fosse, non creatore, ma semplice organizzatore di materia […] esistente indipendentemente da Lui», l’Assoluto si configurerebbe in forma bipolare, e risulterebbe coinvolto in un originario «divenire della materia» (ibid., p. 73). Chi è creatore, è libero: infatti, «questo Dio si delinea […] come dotato di intelligenza e di volontà, e per ciò stesso persona […]. Egli infatti esercita la sua efficacia verso l’altro da sé, creando con intelligenza e volontà: ché ogni derivazione da Lui per emanazione o evoluzione, […] implicherebbe il divenire in Lui» (ibid., pp. 76 s.). Libertà del Creatore vuol dire piena contingenza della creatura. Se siamo creature, «per tutto quanto ci solleviamo dal nulla, siamo interamente cosa di Lui» (ibid., pp. 78 s.).
Secondo il M. – qui in polemica con la Critériologie e con l’Ontologie di Mercier – resta valida la tradizionale teoria scolastica sul «fondamento intrinseco del possibile». Possibile è ogni «imitabilità dell’essenza divina»: «fondamento remoto» del possibile è allora l’essenza divina, suo «fondamento prossimo» è l’intelletto divino. Ma come ciò che è possibile può essere riconosciuto per tale dall’intelletto umano? Il M. sostiene che l’incontraddittorietà intrinseca sia condizione necessaria, ma non sufficiente, di possibilità per le strutture complesse: essa infatti non vale per gli elementi semplici di tali strutture; la possibilità di tali elementi non può che essere desunta dalla attualità (cfr. Problemi di metafisica e di criteriologia).
Fonti e Bibl.: I dati biografici e una bibliografia del M. e sul M. sono contenuti in: M. Neva, A. M. (1880-1955). Un percorso filosofico, Milano 2002. Si vedano inoltre: S. Vanni Rovighi, L’opera di A. M., in Riv. di filosofia neoscolastica, XLVIII (1956), pp. 97-109; A. Gnemmi, Metafisica divina o l’ascesa a Dio in A. M., Milano 1972; M. Neva, Contributi gnoseologico-metafisici di A. M. alla fondazione del neotomismo, Roma 1985; P. Pagani, Sentieri riaperti. Riprendendo il cammino della neoscolastica milanese, Milano 1990, ad ind.; S. Pietroforte, La scuola di Milano. Le origini della neoscolastica italiana (1909-1923), Napoli-Bologna 2005, pp. 93-165.