Sen, Amartya Kumar
Filosofo ed economista indiano (n. Santiniketan, Bengala, 1933). Ha insegnato nelle univv. di Calcutta, Delhi, Oxford, Londra, alla Harvard University e a Cambridge (dove ha diretto il Trinity College); nel 1998 gli è stato conferito il premio Nobel per l’economia. A partire dagli anni Sessanta, S. ha sviluppato la teoria della scelta sociale (proposta da Kenneth Arrow nel 1951): essa ha a fondamento le preferenze individuali, le quali poi si aggregano variamente in scelte collettive, come, per es., nel caso del voto. Contrariamente però agli economisti classici, S. ridimensiona il valore dell’interesse egoistico (legato a beni soprattutto materiali) come movente dell’azione. Essenziale in tutto il suo pensiero è l’accento posto sull’individuo; ogni aggregazione sociale è per S. aggregazione di individui, che mantengono i propri diritti e la propria composita singolarità. La teoria della scelta sociale si traduce così per S. nella valutazione economica di variabili culturali. Un governo democratico, spiega S., non è solo l’opzione eticamente da preferire, ma anche quella che ha più speranze di successo a livello economico, poiché deve rispondere direttamente ai cittadini. Studiando i casi di carestia, S. nota infatti che non necessariamente le riserve di cibo sono assenti, ma che il loro prezzo è talmente aumentato da renderle inaccessibili ai singoli (Poverty and famines, 1981). Tale situazione di monopolio delle riserve è però pensabile in regimi dittatoriali, non invece sotto governi effettivamente controllati dal voto dei cittadini. Dunque, al fine di incentivare una crescita economica, riforme nel regime politico – e quindi nel sistema educativo – sono più urgenti di ogni riforma economica. L’innalzamento del livello culturale di una nazione ha cioè un riscontro economico diretto. Più in dettaglio, durante una carestia un individuo ha sì la libertà negativa di comprare generi di prima necessità (nel senso che niente glielo impedisce), ma gli manca la libertà positiva di farlo (poiché non ha i mezzi materiali); S. discute perciò il concetto di «capacità» (capability) come radice di quello di uguaglianza. La semplice libertà negativa non basta, sostiene S., per es., per poter dire che esiste diritto di voto universale, occorre si diano anche le condizioni per esercitarlo (dall’istruzione al trasporto ai seggi di chi non sia in grado di muoversi). Tali riflessioni hanno portato S. a collaborare con Martha Nussbaum, fra l’altro, a proposito della sua analisi della condizione della donna. Come Nussbaum, S. ha preso una netta posizione sul tema del rapporto fra identificazione (religiosa, razziale, nazionale, ecc.) e violenza (Identity and violence, 2006; trad. it. Identità e violenza). A causare quest’ultima non è l’appartenenza a una determinata religione, la provenienza da una certa regione geografica o altro, bensì l’identificazione esclusiva con tale identità. Poiché ogni uomo è costituito dall’intrecciarsi di identità necessariamente plurali, è una forzatura imporre a sé stesso o, peggio, ad altri, una sola di queste identità a scapito delle altre. Con questa tesi S. si oppone esplicitamente all’idea di integrare comunità e non singoli individui, per es., con l’istituzione di scuole religiose o etniche. I diritti individuali sono invece inalienabili e gli individui non debbono essere appiattiti sulla comunità di origine, cui possono scegliere o meno di appartenere. S. si è dedicato anche alla rivalutazione del patrimonio filosofico non religioso dell’India classica (The argumentative Indian, 2005; trad. it. L’altra India). A questo proposito si è contrapposto alla concezione secondo cui la cultura indiana sarebbe tutta permeata da afflati religiosi e, in alternativa ad approcci quali quello di Samuel Huntington, che identifica l’India con una ‘civiltà indù’, o quello del movimento politico del Hindutva, ha preso in attenta considerazione le tradizioni scettiche e materialistiche (➔ Cārvāka) e la tradizione dei dibattiti che considera forza propulsiva nello sviluppo della filosofia indiana.