AMALFI, Tommaso Aniello d', detto Masaniello
Nacque il 20 giugno 1620 a Napoli, contrariamente alla tenace tradizione che lo vuole nativo di Amalfi, da Francesco, detto Cicco, e da Antonia Gargano. Visse nel popolarissimo quartiere Mercato, facendo il garzone di pescivendolo, ma dedicandosi anche al contrabbando. Prima degli eventi che gli dettero una improvvisa notorietà, l'A. non si distingueva dai coetanei del suo ceto per essere particolarmente dissoluto, o rissoso, o violento, come vogliono storici e cronisti maldisposti; ma nemmeno la sua vivacità e l'inventiva, caratteristica della plebe napoletana avvezza ai fantasiosi espedienti, lasciavano presagire le qualità singolari che lo portarono a capeggiare il maggior tumulto popolare del dominio spagnolo in Napoli. Per la sua attività di contrabbandiere conobbe ripetutamente le carceri dell' "arrendamento", ma questo era fatto troppo usuale per chi doveva strappare il pane quotidiano ai gabellieri, perché gliene venisse verso i nobili e gli Spagnoli una ostilità più forte di quella generica e tradizionale della plebe. In carcere l'A. conobbe però un seguace del vecchio agitatore Giulio Genoino, il dottor Marco Vitale, che gli indicò nel "malgoverno" dei nobili, sostenuti dai viceré spagnoli, la causa delle sue disgrazie e di quelle di tutto il popolo napoletano. Ancora più efficace nell'alimentare in Masaniello un sentimento di rivolta fu l'appassionata predicazione dello stesso Genoino, che l'A. conobbe non molto prima dei moti del 1647. Giulio Genoino era stato il protagonista dei tumulti antinobiliari del 1620, favoriti anche dal viceré duca d'Ossuna: le persecuzioni dei nobili e il carcere spagnolo che aveva dovuto sopportare non avevano spento in lui la speranza di vedere attuato il suo utopistico sogno di un pareggiamento dei popolari ai nobili nel governo di Napoli, e si era venuto acquistando, con le sue violente invettive contro la prepotenza dei nobili, numerosi seguaci tra il "popolo civile", piccoli avvocati, mercanti e artigiani insofferenti di essere esclusi dal governo della città. L'A. fu il legame trovato dal Genoino con la plebe cittadina. Si ignorano i particolari dei rapporti tra il vecchio agitatore e l'A. prima dei tumulti, ma durante questi il Genoino fu l'immancabile consigliere del giovane: così si spiega anche il "miracolo" della saggezza e dell'equilibrio dimostrati dall'A. nei provvedimenti presi i primi giorni della rivolta.
Questa scoppiò improvvisa il 7 luglio 1647, ma senza dubbio era stata preparata già da qualche tempo. Un mese prima (6 giugno) era stato bruciato da uno sconosciuto un posto daziario e l'A. se ne vantò poi come di una propria impresa. Non è accettabile senza riserve la dichiarazione dell'A., resa in un momento in cui quel gesto costituiva un merito; certamente però il tumulto era stato predisposto dal Genoino sin dal mese di giugno e l'A. doveva esserne l'iniziatore. La plebe napoletana era esasperata dalla recente gabella imposta dal viceré sulla frutta, che costituiva il principale alimento popolare: fu deciso di sfruttare il malcontento organizzando una grossa dimostrazione contro i nobili e gli speculatori che per l'ennesima volta avevano indotto il governo spagnolo a far gravare esclusivamente sul popolo le sue necessità finanziarie. L'occasione doveva essere offerta dalla tradizionale giostra degli "Alarbi", finta battaglia tra schiere di ragazzi armati di canne, in onore della Madonna del Carmine, la cui festa ricorreva il 16 luglio. L'A., che come istruttore si era messo a capo della ragazzaglia dei quartieri Mercato, Lavinaro, San Giovanni a Mare e Conceria, doveva, dopo la festa, condurre la folla al Palazzo reale per richiedere al viceré duca d'Arcos l'abolizione della gabella. Ma le cose andarono diversamente, per lo scontro improvvisamente sorto al Mercato la mattina del 7 luglio tra gli sbirri e alcuni contadini di Pozzuoli venuti a Napoli a vendere la frutta. L'A. fu pronto a sfruttare l'occasione conducendo i tumultuanti, che andavano aumentando lungo la via, dapprima a distruggere gli uffici daziari, quindi al Palazzo reale dove entrò mettendo in fuga il viceré e le sue guardie. Durante la giornata la rivolta assunse proporziqni eccezionali: si armarono tutti i quartieri popolari e il "popolo civile" si affiancò decisamente ai rivoltosi. Il viceré, impotente a frenare la rivolta per l'insufficiente guarnigione, si piegò subito ad abolire le gabelle, misura, questa, che non valse a porre fine ai tumulti. Sconfitte a Pietrabianca le milizie spagnole che dai dintorni si affrettavano verso Napoli, l'A. passò alla repressione dei nobili, dei promotori delle gabelle, degli speculatori; decine di case furono incendiate, mentre sommari giudizi popolari, presieduti dallo stesso A., mandavano a morte i nemici della plebe. Né gli Spagnoli, ridotti nei castelli, né la nobiltà terrorizzata, riuscirono a impedire che l'A., seguito entusiasticamente dalla moltitudine e accortamente consigliato da Giulio Genoino, fosse per per alcuni giorni il padrone assoluto di Napoli, a un tempo capo militare, giudice supremo, amministratore, legislatore: "è Re in questa città, ed il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo" scriveva il cardinale Filomarino a Innocenzo X.
Tra i primi provvedimenti presi dall'A. i più importanti furono una riforma amministrativa-militare, che, dividendo in compagnie e squadre i popolani e mettendoli al comando dei capitani d'ottina, forniva all'insurrezione una forza organizzata di circa centoventimila uomini; l'abolizione di tutte le gabelle e l'elaborazione di nuove tabelle con le quali vemvano fissati i nuovi prezzi dei commestibili; la destituzione del massimo magistrato popolare, l'eletto del popolo Andrea Naclerio, accusato di intrigare con i nobili, al posto del quale l'A. elesse un nipote del Genoino, Francesco Antonio Arpaia. Invano il viceré tentò di corrompere l'A., offrendogli un vitalizio di 200 scudi mensili, perché si prestasse a porre fine alla rivolta: egli respinse decisamente ogni proposta del genere. Non fu invece sordo all'intervento del cardinale arcivescovo Ascanio Filomarino, per la mediazione del quale furono iniziate trattative di pace col viceré.
L'accordo era reso possibile da una parte dalla risoluzione dell'Arcos a riacquistare il controllo della città a costo di qualunque concessione; da parte dell'A., come del resto del Genoino, dell'Arpaia e degli altri capi popolari del momento, un accordo col governo, in cui fossero sancite le conquiste della rivolta, era il fine ultimo della rivolta stessa, giacché in nessun modo veniva messo in discussione il dominio spagnolo su Napoli. Vero è che non mancarono da parte di estremisti o addirittura di emissari dei Francesi pressioni sull'A, perché desse un più deciso carattere antispagnolo all'insurrezione; ma egli, costantemente sotto l'influenza del Genoino, che non prevedeva nel suo programma uno sviluppo così radicale, respinse queste sollecitazioni, rifiutandosi persino di occupare i fortini, come atto lesivo della autorità del re, verso il quale professò sempre ossequio e quasi religiosa devozione: questo atteggiamento corrispondeva perfettamente alle esigenze del "popolo civile", sicuro di poter ottenere soddisfazione dal governo attraverso le trattative e timoroso di compromettere ogni cosa se si fosse venuti ad una irreparabile rottura con gli Spagnoli.
Il 10 luglio, mentre duravano le trattative col viceré e si discutevano pubblicamente nella chiesa del Carmine le richieste da sottoporgli, alcuni sicari del duca di Maddaloni spararono contro l'A. cinque archibugiate. Uscito illeso e per nulla intimorito dall'attentato, con la nuova fama di miracolato che subito si formò tra la fantasiosa plebe napoletana, l'A. vide ancora accresciuta la propria autorità. Il giorno dopo entrava da trionfatore in Palazzo reale, accolto molto lusinghieramente dall'Arcos, al quale presentò i capitoli elaborati dal Genoino, contenenti le principali richieste popolari e soprattutto l'abolizione delle gabelle e la parità di voti tra la "Piazza" del popolo e le "Piazze" dei nobili nella amministrazione di Napoli. Il viceré si piegò ad ogni pretesa popolare e con una solenne e fastosa cerimonia i capitoli furono giurati in duomo il 13 luglio.
Questa cerimonia, che costituì il culmine della straordinaria potenza raggiunta dall'A., segnò per lui anche l'inizio della catastrofe. L'impegno preso con il Genoino e con il cardinale arcivescovo di ristabilire la pace e di deporre il comando non venne rispettato dall'A.; forse egli si preoccupò di mantenere in armi il popolo napoletano fino a che non fosse giunta da Madrid l'approvazione dei capitoli giurati; ma soprattutto l'autorità raggiunta, le adulazioni cui veniva fatto oggetto dai principali personaggi del Regno, a cominciare dal viceré che lo aveva creato "capitano generale del fedelissimo popolo napoletano", gli dettero l'illusione di poter continuare nell'opera di difesa della plebe sino allora condotta. Non un programma politico lo animava, ma piuttosto una esaltata frenesia di punire i torti, di eliminare gli abusi, di proteggere i deboli con le sue decisioni sino lì onnipotenti, frenesia che confinava con la demenza, e in demenza finì quando si vide abbandonato dai suoi sostenitori e cominciò a temere di essere assassinato: ormai le gesta dell'A. appartengono "alla psichiatria più che alla storia" (Schipa).
Dopo il giuramento dei capitoli da parte del viceré, il Genoino, l'Arpaia e i vari esponenti del "popolo civile" ritennero che la rivolta plebea avesse assolto il suo compito. Si preoccuparono di guadagnare la fiducia dell'Arcos, ponendo fine alle violenze e restituendo al governo tutta la sua autorità, perché il viceré potesse sollecitare da Madrid l'approvazione degli accordi: per questo programma però l'ostacolo più grande era costituito dall'A., che continuava a tenere viva l'agitazione. E d'altra parte il ritorno alla vita normale era una necessità per i mercanti e gli artigiani, che volevano riprendere i consueti negozi interrotti da una settimana: venne così a mancare all'A., che prolungava nella sua esaltazione una situazione anarchica, l'appoggio delle forze che lo avevano sin lì sostenuto. È indubbio che il capopopolo godeva ancora il favore di molti, specialmente tra gli strati più bassi del popolo, i più timorosi che una volta deposte le armi gli Spagnoli venissero meno agli impegni presi e le gabelle fossero ristabilite. Ma l'A. finì per perdere ogni residua simpatia a causa delle sue stravaganze e dei suoi eccessi: né la roba, né la vita erano più sicure in Napoli, con Masaniello che "faceva totalmente cose da pazzo", dice il Donzelli, cronista di parte popolare. Invano il Genoino tentò di moderare l'A., la cui potenza egli per primo aveva creato: fu respinto, minacciato, percosso. I capi popolari decisero allora di disfarsi dell'A.: riunitisi in assemblea nel convento di S. Agostino il 15 luglio, concordemente decisero di togliere il comando all'A. e di consegnarlo al viceré in cambio dell'impegno di osservare fedelmente i capitoli giurati. L'assemblea però, preoccupata di eventuali reazioni della plebe, raccomandò vivamente al viceré di far grazia della vita all'A., provvedendo a farlo rinchiudere in qualche castello. L'Arcos decise diversamente e assoldò alcuni sicari, capeggiati da Michelangelo Ardizzone, conservatore dei grani e capitano dell'ottina dello Spirito Santo, perché uccidessero Masaniello. Questi fu sorpreso nel sonno la mattina del 16 luglio nella cella del monastero del Carmine, dove era ospitato, e fu finito a colpi di archibugio. La sua testa fu staccata dal tronco e portata trionfalmente per le vie della città. Mancò qualsiasi reazione da parte dei suoi fanatici partigiani, anche perché la stanchezza era ormai generale e il ritorno del potere in mano agli Spagnoli era considerato dalla plebe un fatto compiuto.
Ma la poco accorta misura con cui il viceré, deciso a sfruttare la sua restaurata autorità, appena il giorno dopo ristabiliva il prezzo del pane, già diminuito dall'A., fece divampare nuovamente l'ira popolare. Le membra dell'A. furono recuperate e rivestite dell'uniforme di "capitano generale"; i solenni funerali furono il primo atto della rivolta che in nome di lui prese a divampare con rinnovata violenza.
La straordinaria vicenda dell'A. divenne leggenda sin dal giorno dei suoi funerali, quando i mendicanti di Napoli cominciarono a cantare le glorie del "beato" Masaniello; rimase poi sempre a simbolo della violenza compressa della plebe napoletana, tra la quale il ricordo del giovane pescivendolo fattosi vendicatore delle sofferenze del popolo non si spense mai, sebbene gli Spagnoli avessero persino proibito ai parroci di battezzare col suo nome, che invece entrò nel minaccioso detto popolare secondo cui "i Masanielli non sono tutti morti". Più in generale nell'Europa del sec. XVII e dei successivi la figura dell'A. divenne simbolo di libertà, di riscatto popolare dai tiranni: dalle medaglie coniate in Olanda con le effigi di Masaniello e del Cromwell, a Benedetto Spinoza che disegnò sé stesso nei panni del pescivendolo napoletano, sino all'Alfieri (Filippo), al melodramma di Weber, allo storico tedesco A. Glaser, che fa della rivolta di Masaniello un episodio della lotta della ragione contro il principio di autorità, la tradizione attribuì al pescivendolo napoletano una consapevolezza politica e una modernità, che non hanno alcun rapporto con la realtà storica: l'A., analfabeta, incapace di elaborare un programma politico, fu soltanto uno strumento nelle mani di Giulio Genoino che seppe entusiasmarlo al mito di un antico tempo felice (che egli per vari curiosi errori filologici collocava all'epoca di Carlo V, in cui il popolo non sarebbe stato angustiato dalle gabelle né dal prepotere della nobiltà), cui occorreva ritornare. Non era quel programma che un episodio della tradizionale contesa tra i nobili napoletani e il medio ceto cittadino dei mercanti e degli artigiani: l'inasprimento delle condizioni di vita della plebe napoletana, causato dall'aggravamento irragionevole della pressione fiscale, diede a quella contesa proporzioni eccezionali, ma con l'A., che seppe con il suo entusiasmo, il suo coraggio e l'immediatezza della sua popolaresca eloquenza emergere dalla folla anonima dei diseredati e diventarne il capo e il simbolo, la rivolta rimase limitata alla città e non ebbe altro obiettivo che quello moderatissimo di un accordo con le autorità spagnole per l'attenuazione della fiscalità e per la riforma amministrativa. Solo dopo la morte di Masaniello l'insurrezione popolare assunse toni più radicali, mentre il "popolo civile" ne perdeva il controllo e sorgevano dalla plebe nuovi capi, come l'Annese, che chiamando alla lotta le popolazioni delle province diedero a essa un più largo respiro e un più preciso carattere antifeudale e antispagnolo, sino a proclamare la decadenza del dominio di Spagna e la costituzione della effimera Repubblica di Napoli.
Iconografia: ritratti di Micco Spadaro, Napoli, Museo Nazionale; Michelangelo Cerquozzi, Roma, Galleria Spada; G. B. Bianco, Ritratto in cera, Napoli, Museo del Duca di Martina.
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