MOCENIGO, Alvise
– Nacque a Venezia il 10 apr. 1760 da Alvise (V) Sebastiano (1726-95) di Alvise (IV) e da Chiara di Alessandro Zen. La famiglia apparteneva al ramo di S. Samuele, detto Canal Grande o Casa nuova, tra i più influenti e ricchi tra i casati veneziani di fine Settecento.
Da questo e dagli altri rami (S. Eustachio o S. Stae, «in Dogado» Angelo Raffaele) erano usciti nei secoli ben sette dogi e le più alte cariche dello Stato marciano. Il padre, dopo un’ampia carriera come rettore e ambasciatore, aveva invano tentato l’ascesa al trono dogale (1789); era titolare di un grande patrimonio che accrebbe durante la sua vita, tanto che le 27 case nella sola Venezia da lui dichiarate nel 1764, nel 1795 erano diventate 91: insieme con gli affitti di botteghe e magazzini e le rendite delle proprietà diffuse in ogni parte della Serenissima, costituivano un'entrata annua superiore ai 50.000 ducati.
Forse anche per tenerlo lontano dalle polemiche in cui era implicato il padre, il M. fu inviato a studiare a Roma, al collegio pontificio del Clementino, tra i più rinomati perché in grado di fornire una preparazione ampia e appropriata in campo umanistico e di aprire agli allievi migliori le porte dell’Arcadia. Una frequentazione, questa, che sarebbe diventata stabile nella vita del M., il quale nel 1783 entrò a far parte dell’Accademia dei Nobili di Ca’ Giustinian, dal 1810 nella Società d’incoraggiamento delle scienze e delle arti di Milano; nel 1812 fu tra i soci fondatori dell’Ateneo veneto di scienze, lettere e arti.
Rientrato da Roma nel 1779, in quello stesso anno il M. sposò la cugina del padre, Pisana figlia di Alvise (II) e Caterina Loredan. Voluto con l’idea di riunificare i due rami di S. Samuele (Casa vecchia e Casa nuova), il matrimonio finì pochi mesi dopo (1780), perché, si disse, il M. non ne volle più sapere: nonostante infatti Pisana «fosse buona e benissimo educata, era gobba, né ci fu verso che lo sposo diciannovenne potesse vincere la ripugnanza di quella deformità» (Litta). In realtà una lettera di Pisana al M. (Archivio di Stato di Venezia, Archivio Mocenigo, b. 124) chiarisce che fu la donna a fuggire poche ore dopo il matrimonio, mai consumato e poi annullato: Pisana infatti l’anno dopo sposò Almorò (III) Pisani. Il M. visse la vicenda come un’umiliazione pubblica e fuggì da Venezia, rifugiandosi dapprima nei latifondi di famiglia, quindi viaggiando fino al 1783 in Italia (Genova, Livorno, Firenze, Bologna ) e Francia (Marsiglia e Tolone), dimentico persino del primo incarico istituzionale, la nomina a capitano di Vicenza: nel 1780 il M. era entrato in Maggior Consiglio e si era dunque posto al servizio della Serenissima. Per questa renitenza, al rientro in patria fu arrestato e portato nella fortezza di Palma, da dove fu liberato per diretto intervento del doge P. Renier. Iniziò così il suo cursus honorum come savio agli Ordini (1783), divenendo quindi savio alle Acque (1786), savio di Terraferma (1793), rettore di Verona (1794) e, a Udine, luogotenente della patria del Friuli.
Nel frattempo, nel 1787, aveva sposato Lucia Memmo (1770-1854), di Andrea ed Elisabetta Piovene, che si rivelò fondamentale per la sua strategia di conquista di una posizione politica che rafforzasse lo status sociale del casato. La Memmo, persa la madre ancora bambina, aveva seguito il padre nei diversi reggimenti e nelle molte ambascerie, da Costantinopoli a Roma. Bella, spiritosa, mecenate influente attraverso il suo celebre salotto, fu sempre devota al padre di cui, oltre a completare la pubblicazione degli Elementi dell’architettura lodoliana (Zara 1833-34, dopo il primo volume edito a Roma nel 1786), trasportò le ceneri dalla demolita chiesa dei Servi a S. Marcuola (Ss. Ermagora e Fortunato). Frequentò, nel corso di lunghi soggiorni all’estero, la corte viennese e quelle napoleoniche, a Milano e Parigi, divenendo dama della Croce stellata (1805) e dama di Palazzo (1807).
Pur sensibile alle novità che venivano dalla Francia, l’azione di governo del M. si collocò nel solco delle leggi e della tradizione veneziane. I suoi interessi culturali si erano sviluppati in senso illuminista e nella sua biblioteca, accanto all’Enciclopédie, figuravano alcuni classici del tempo, come le opere di F. Algarotti a G. Filangieri; su di lui aveva poi influito la frequentazione del suocero, una delle menti più vive della Venezia di allora, che gli aveva fatto apprezzare quello spirito riformatore che pure nella Serenissima non ebbe mai grande diffusione. Fu durante la permanenza nella carica di savio di Terraferma, nel 1793, e in quella di capitano e vicepodestà di Verona (1794), che il M. ebbe modo di manifestare il suo senso e la sua idea dello Stato.
Dai dispacci inviati al Senato traspaiono la conoscenza delle idee riformatrici e la necessità del cambiamento anche all’interno della Repubblica Marciana, in relazione al rapporto con le classi subalterne di cui era evidente il continuo stato di insoddisfazione. La simpatia per i Francesi, scriveva il M. agli inquisitori di Stato, sempre attenti a filtrare lo spirito pubblico, era in realtà «effetto di ignoranza e dell’asprezza, alterigia e qualche volta violenza con cui essi vengono trattati da questa nobiltà» (Berengo, p. 271), ma poteva tradursi in rivolta, con i rurali pronti ad assalire i nobili, «cacciarli via a campane a martello e promuovere una sollevazione popolare come i francesi» (ibid., p. 325). Fu probabilmente durante il suo soggiorno a Verona che iniziò a diffondersi l’idea che fosse un «cervello leggero» perché «partigiano degli enciclopedisti» (Litta), nonostante, sempre in quei mesi, avesse ospitato il conte di Lille (poi Luigi XVIII), cosa che, pur attuata con basso profilo e senza pompa, gli aveva invece scatenato contro le ire dei repubblicani francesi.
Rientrato a Venezia, nelle riunioni del Senato il M. confermò la propria attenzione verso idee e vicende rivoluzionarie. Da buon moderato, evitò la partecipazione ai club giacobini, limitandosi, dopo l’arrivo in Veneto delle truppe dell’armata d’Italia (1796), a intrattenere rapporti amichevoli con alcuni ufficiali francesi. Anche in questo caso la posizione del M. fu netta quanto minoritaria: affermò la neutralità armata, a controllo delle forze belligeranti e a maggior difesa dello Stato veneto, posizione sostenuta, l’11 giugno 1796, insieme con T. Mocenigo Soranzo, che chiese di armare la Terraferma, «eleggendo cariche estraordinarie e fortificare le piazze e segnatamente Legnago» (Calbo, pp. 229 s.). Passò invece la linea della neutralità disarmata, che fu tra le cause della rovina definitiva della Serenissima. Intanto il M., rettore a Udine, intervenne contro gli Austriaci, che avevano requisito la fortezza di Palma (3 marzo 1796) innalzandovi il vessillo imperiale: la sua protesta ripristinò l’ordine e l’autorità veneziana. Per questa e altre reazioni ad analoghi episodi francesi in sprezzo alla neutralità di Venezia, Bonaparte lo definì un ottimo governatore. Le sue doti di mediatore emersero quando, tra aprile e maggio 1797, fu nominato «deputato al Bonaparte» insieme con Francesco Donà e Leonardo Giustinian, dapprima in Friuli, a Palma e a Udine, quindi a Milano, per tentare di convincere il generale in capo a lasciare in vita la Repubblica, sia pure con un territorio ridotto. In realtà le sorti di Venezia erano già state decise nei preliminari di Leoben (aprile 1797) e inutili furono le continue mediazioni del M. sino all’indomani dell’abdicazione del Maggior Consiglio (12 maggio), di cui venne informato solo due giorni dopo.
Inserito, prima ancora del rientro, nella Municipalità democratica, «coll’empia idea di coprir sotto il manto dell’onorato mio nome e di quello di pochi altri, l’infernal lista de monstri a quali si voleva abbandonar il resto della distruzione della mia Patria» (Archivio Mocenigo, b. 119), partecipò alle sessioni del governo provvisorio occupandosi di finanze e, più sporadicamente, di arsenale e marina. La sua moderazione e il fatto di essere ben accetto ai Francesi ne fecero il candidato naturale per le delegazioni diplomatiche, davanti a militari come L. Baraguay d’Hilliers o plenipotenziari come J.-B. Lallement. Sospettato di tradimento nell’inconsistente congiura di P. Cercato (12 ott. 1797), fu preso in ostaggio insieme con una cinquantina di concittadini dal generale A. Balland per garantire la liberazione della città e fu recluso nell’isola di S. Giorgio per tre giorni. All’indomani si difese pubblicamente e fu ampiamente assolto. Cinque giorni più tardi (il 17 ottobre) fu pubblicato il trattato di Campoformido (Campoformio), rendendo inutile la prosecuzione dell’esperienza municipalista: il 9 novembre il governo democratico cedette gran parte dei suoi poteri alla «Deputazione dei Cinque con aggiunta», formata da moderati (T. Gallino, G. Bujovich, A. Spada) ed ex patrizi veneti, come il M. e L. Giustinian, che operarono la transizione sino all’arrivo degli Austriaci, il 18 genn. 1798.
Dopo un’iniziale partecipazione alle nuove istituzioni asburgiche, membro della Deputazione al Banco Giro, il M. decise di ritirarsi nelle sue terre, vicino a Portogruaro, dando vita al progetto della città di Alvisopoli. All’origine della decisione vi furono da un lato l’invito dello stesso governatore straordinario, il gen. O. Wallis, a lasciare la scena politica per dar tempo all’opinione pubblica di dimenticare i trascorsi municipalisti e la collaborazione con i Francesi, dall’altro la profonda avversione per il probabile prossimo governatore, F. Pesaro, che arrivò effettivamente nel gennaio 1799. Antagonismo politico e rivalità personali tra i due datavano dal 1797, quando, designato con il M. deputato a Napoleone Bonaparte, Pesaro, visto l’evolversi degli eventi, il 1° maggio 1797 aveva preferito fuggire in Istria e di lì a Vienna a preparare il suo rientro. Per le persecuzioni che Pesaro operò nei confronti degli ex municipalisti, l’intuizione del M. fu oculata: ma anche l’idea che il ritiro temporaneo preparasse il successivo ritorno sulla scena politica, è avvalorata dagli atti seguenti, come il viaggio e il trasferimento nei domini asburgici, tra Vienna e la nuova tenuta di Margarethen am Moos.
Nel M. l’interesse per la gestione del patrimonio di famiglia datava sin dal 1790, quando in incognito aveva affittato dal padre, attraverso un intermediario, i beni friulani e quelli di Este, nella bassa Padovana. Nel 1795 stipulò un contratto di gestione che gli permise di diventare l’amministratore unico del patrimonio: al genitore, fortemente indebitato, il M. garantì una rendita annua di 9000 ducati e la copertura entro cinque anni del debito complessivo di 74.000 ducati. L’operazione non proseguì per la morte del padre, ma è certo che già allora il M. avesse ben chiaro l’obiettivo di ampliare e rafforzare le rendite derivanti dalle estese proprietà agrarie, «attraverso una migliore organizzazione, o meglio una pianificazione dell’organizzazione finanziaria» (Bellicini, p. 14). Fu in particolare in quella zona tra Fossalta e Fratta (dove I. Nievo ambientò le Confessioni di un italiano), attorno a Portogruaro, che nel 1800 il M. decise di edificare Alvisopoli. La città doveva essere all’interno di un vasto latifondo (il «Molinato») che la famiglia possedeva già da metà Seicento, dal tempo della guerra di Candia, e che nel corso del XVIII secolo era stato oggetto di una progressiva bonifica. Sul modello urbanistico e sociale costituito dalla tradizione greco-romana si volle creare un esempio di città agricolo-industriale ma anche intellettuale, così come, pochi anni prima, nei pressi di Caserta, era stata edificata la comunità di San Leucio, ispirata alle idee di Filangieri che il M. aveva potuto conoscere attraverso le opere presenti nella sua biblioteca (ibid., pp. 41-44), anticipando gli ideali comunitari di R. Owen e Ch. Fourier. Per questo, a fianco delle risaie, delle campagne e dei pascoli, trovarono posto due scuole, dove vennero incentivati gli studi agrari, e altri edifici di pubblica utilità, tra cui la celebre stamperia, affidata dapprima a N. Bettoni (1810) e poi a B. Gamba, che la trasferì a Venezia nel 1814, quando divenne «la più intelligente e importante casa editrice della Restaurazione nel Veneto» (Vianello, pp. 6 s.). Nella chiesa di S. Alvise (S. Luigi Gonzaga) il M. previde, sin dal 1804, di collocare una grande statua in marmo, scolpita da A. Canova: per il disegno della chiesa, lo scultore gli consigliò il nome dell’architetto e incisore G. Balestra, che portò a termine il progetto, mentre la statua, che nel frattempo (1805) era stata dedicata a «una Maddalena penitente grande al vero in ginocchioni» non venne mai realizzata (Lettere di Alvise e Lucia Mocenigo allo scultore A. Canova, pp. 9-12). Il M. diede all’azienda un’organizzazione gerarchica, con a capo un agente generale che rispondeva direttamente a Venezia: la conduzione prevedeva affitto misto, coloni ed economia diretta. Utopia urbana e impresa furono celebrate da V. Monti in un poemetto (Le api panacridi in Alvisopoli), scritto nel 1811 su commissione del M., per festeggiare la nascita del re di Roma, in cui Monti immagina che «l’aprica Alvisopoli» riceva le api (che Napoleone aveva adottato come simbolo dell’operosità e che il M. aveva impiantato in trecento arnie) dal monte Panacra in Creta e che queste depongano il miele che già aveva nutrito Giove sulle labbra del re di Roma, in segno di fertilità.
Per due anni, tra il 1799 e il 1801, il M. alternò la cura delle terre a lunghi viaggi, da Dresda a Berlino, da Amburgo a Stoccolma, Praga e, infine, Vienna. L’itinerario costituì una marcia di avvicinamento verso la capitale dell’Impero e i suoi ambienti politici, per arrivarvi preparato e con adeguati contatti. La sua adesione all’Austria, dettata senza dubbio da motivi di opportunità, fu condivisa anche dalla moglie Lucia, con cui si trasferì a Vienna nel 1801. Sino al 1805 il M. alternò i soggiorni nella capitale austriaca con frequenti viaggi ad Alvisopoli e nelle altre proprietà italiane; a tenere i contatti con la corte fu deputata la moglie, che ottenne così il titolo di dama della Croce stellata (1805) e la gestione della nuova proprietà di Margarethen am Moos.
La tenuta si estendeva in un’ampia piana, a sud-est di Vienna, al confine con l’Ungheria: il M. la acquistò per dare ulteriore prova di fedeltà agli Asburgo e ricavarne l’indigenato e il titolo di magnate d’Ungheria. Un tempo fortino di frontiera, la proprietà era in stato di abbandono, troppo acquitrinosa per poter sperimentare, come sperava lo stesso M., fertilizzanti e tecniche di coltura rivelatisi utili ad Alvisopoli. E tuttavia i Mocenigo riuscirono a rilanciarla parzialmente, anche grazie all’apporto di personale fatto giungere appositamente dal Friuli e dal Veneto.
Il ritorno dei Francesi nel Veneto, dopo Austerlitz e il trattato di Presburgo (26 dic. 1805), non colse impreparato il M., che mise subito a frutto i suoi antichi e positivi rapporti con Napoleone, sulla base di una rinnovata, entusiastica dedizione, che nel novembre 1806 gli fruttò, su proposta del viceré Eugène de Beauharnais, la nomina a prefetto dell’Agogna, il dipartimento di Novara. Pur essendo una prefettura di seconda fascia, la designazione fu un risultato rilevante, alla luce dell’esiguo numero di patrizi veneziani posti a capo di un dipartimento (oltre al M., solo A. Querini Stampalia).
La sua azione di governo fu un misto, come sempre, di slancio riformistico e di grandeur personale. Pur non conoscendo metodi e pratiche dell’amministrazione napoleonica, ma «sostenuto da un gran desiderio di strafare e di mettersi in luce, il M. non si fece comunque condizionare dalla propria inesperienza, anzi diede il via al mandato amministrativo con inconsueta foga» (Antonielli, p. 312), prolungando l’orario degli impiegati e chiedendo loro intensi ritmi di lavoro. Cercò di riorganizzare gli uffici, sulla base dei dettami ministeriali, ma non sempre vi riuscì, anche a causa di un’esperienza di governo formatasi nelle ben diverse magistrature veneziane e delle difficoltà economiche che non perse occasione di denunciare, anche quando ricevette, tra i pochissimi, una dotazione straordinaria di 5000 lire. A riprova di questa confusione tra il ruolo istituzionale di un alto funzionario statale, proprio del sistema napoleonico, e l’autonoma discrezionalità del governatore veneziano, sta la richiesta di attingere al proprio patrimonio per far fronte alle esigenze del dipartimento, istanza rigettata con sconcerto dal ministero degli Interni. Dopo un anno di intensa applicazione, in cui la sua giornata lavorativa in ufficio raggiungeva anche le dieci ore, il M. iniziò a rallentare il ritmo, riprendendo a curarsi dei propri affari, ad Alvisopoli come in Austria, e nonostante la ripresa della guerra, al punto che al rientro da Vienna, nel 1809, finì prigioniero per qualche giorno delle bande di A. Hofer, in Tirolo.
Ottenuto il titolo di dama di Palazzo (1807) per la moglie, quello di conte dell’Impero e senatore del Regno per sé, ribadito comunque il suo ruolo, il M. al termine del mandato nel 1809 non fu destinato altrove, ma restò in Senato, continuando a tessere le lodi di Napoleone, che volle raffigurare in una grande statua commissionata allo scultore A. Pizzi, che doveva esser collocata nel giardino della villa di Alvisopoli, ma che finì invece in quello di palazzo Mocenigo a Venezia, nel cui androne è ancor oggi. Dopo altri soggiorni a Parigi, suoi (per le nozze tra l’imperatore e Maria Luisa d’Austria, 1810) e della moglie (che restò nella capitale francese dal 1813 al 1814 per svolgere i suoi incarichi di dama di compagnia della principessa Augusta Beauharnais), la famiglia rientrò definitivamente a Venezia, mentre con la sconfitta di Napoleone tramontava anche il sogno del M. di essere elevato a duca di Alvisopoli.
Ammalatosi alla fine di agosto, il M. morì a Venezia il 24 dic. 1815 e fu sepolto ad Alvisopoli.
Il M. ebbe due figli: Alvise (I, 1793-96), che morì di polmonite a Verona, e Alvise (II) Francesco (1799-1884). In realtà il secondo era figlio di Lucia e di un colonnello asburgico, l'austriaco M. Plunkett, giunto a Venezia nel 1798 al seguito del generale Wallis e conosciuto dalla Memmo durante una delle frequenti assenze del marito. Plunkett morì il 25 sett. 1799 nella battaglia di Schannis, a sud di Zurigo, combattendo contro le truppe del generale A. Massena; quello che inizialmente venne battezzato come Massimiliano Cesare Francesco nacque il 9 settembre. Quando, nel 1803, il M. venne a sapere dell’esistenza del bambino, affidato a una governante, lo volle riconoscere come suo, anteponendovi il nome tipico della casata. Nonostante lo scandalo e l’opposizione della Chiesa veneziana, che iniziò un lungo processo contro questa decisione, ratificata definitivamente solo dal patriarca S. Bonsignore nel 1812, Alvise Francesco divenne l’unico erede del M., che ebbe anche un’altra figlia, Luigia, da Carolina, moglie di P. Faldi. Conte dell’Impero (1819), ufficiale di cavalleria, diplomatico asburgico, incaricato d’affari in Assia-Kassel, Alvise Francesco rilanciò le tenute del padre, in particolare Alvisopoli, dove incentivò la coltura del riso, e le Valli Mocenighe presso Este, restaurando i palazzi di S. Samuele. Si rese interpete di progetti anche più arditi di quelli paterni, dal sostegno alla ferrovia Ferdinandea Venezia-Milano, al consorzio per i canali navigabili, dall’introduzione dei rimorchiatori a vapore nel porto di Malamocco alla diffusione dell’illuminazione a gas. Liberale moderato nella migliore tradizione paterna, partecipò alle sedute dell’Ateneo veneto, di cui era socio, che prepararono nel 1847 il moto di D. Manin e N. Tommaseo, e nel marzo 1848 divenne colonnello di una legione della guardia civica, nonostante avesse sposato (1840) Clementina, figlia del governatore austriaco J.-B. di Spaur. Schieratosi a favore della fusione con il Regno di Sardegna, lasciò Venezia quando il progetto fallì, trasferendosi a Firenze. Deputato nella Congregazione provinciale e centrale negli anni Cinquanta, dopo l’Unità fu più volte consigliere provinciale e comunale.
Opere: Pel giorno onomastico e natalizio di S. M., Urbino. Napoleone il grande, sempre augusto imperatore de' Francesi, re d'Italia e protettore della Confederazione renana. Cantico fatto eseguire il giorno 15 agosto 1808 nel teatro di Novara dal signor Alvise Mocenigo ..., Novara 1808; Lettere di Alvise e Lucia Mocenigo allo scultore Antonio Canova (1804-1821), per le nobilissime nozze Cais Di Pierlas-Mocenigo, Vicenza 1884; Primo dispaccio del luogotenente di Udine Alvise I Mocenigo, per le nozze Franco-Bianchini, Venezia 1912.
Fonti e Bibl.: Sull’attività di governo del M. nella Serenissima si vedano i dispacci da Verona e Udine, in Archivio di Stato di Venezia, Senato, Terra, ad datam; per gli incontri con Napoleone Bonaparte, ibid., Carte militari, 23; Inquisitori di Stato, bb. 556, 1245; Archivio Mocenigo, bb. 49 (contratto matrimoniale con Lucia Memmo), 105 (carte di Alvisopoli e contratto ad A. Canova), 119, 122-124, 145-146; Giudici di Petizion, b. 490 (inventario dei beni del padre Alvise [V]); Bergamo, Biblioteca A. Mai, Arch. Memmo (lettere di Lucia Memmo); Venezia, Arch. patriarcale, Registro battesimale (la causa di riconoscimento della paternità di Alvise Francesco); sulle vicende della moglie e della famiglia cfr. A. di Robilant, Lucia nel tempo di Napoleone. Ritratto di una grande veneziana, Milano 2008.
Componimenti raccolti e dedicati a sua eccellenza n.h. ser A. M.I dal Collegio de' causidici di Verona deponendo la doppia reggenza di capitano e vicepodestà gloriosamente sostenuta in questa provincia, Verona 1795; V. Monti, Le Api panacridi in Alvisopoli. Prosopopea del cavaliere V. Monti, Alvisopoli 1811; F. Nani Mocenigo, Del dominio napoleonico a Venezia, 1806-1814, note e appunti, Venezia, 1896, pp. 18-20; R. Bratti, La fine della Serenissima, Milano 1917, pp. 1-2; Verbali delle sedute della Municipalità provvisoria di Venezia 1797, a cura di A. Alberti - R. Cessi, Bologna 1928-1940, ad vocem; Le «annotazioni» di F. Calbo alle sedute dei consigli dei rogati (1785-1797), a cura di R. Cessi, Bologna 1942, pp. 229 s.; M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956, pp. 270 s., 325; G. Gullino, La congiura del 12 ott. 1797 e la fine della Municipalità veneziana, in Critica storica, XVI (1979), pp. 545-622, passim; L. Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica. Repubblica e Regno d’Italia, Bologna 1983, pp. 316-319 e passim; A. Zorzi, Venezia austriaca, Roma-Bari, 1985, pp. 247 s. e passim (anche su Alvise Francesco); M. Gottardi, L’Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca 1798-1806, Milano 1993, pp. 78 s.; Su Alvisopoli: N. Vianello, La tipografia di Alvisopoli e gli annali delle sue pubblicazioni, Firenze 1967, pp. 1-7; G. Romanelli, Alvisopoli come utopia urbana, in L'abaco, n. 2, maggio 1983, pp. 9-26; L. Bellicini, La costruzione della campagna. Ideologie agrarie e «aziende modello» nel Veneto, 1790-1922, Venezia 1983, pp. 11-146; Campagna, città e industria, III, Alvisopoli. Nuovi contributi per la conoscenza della città di A. M., a cura di V. Gobbo - A. Battiston, in Quaderni di storia locale, n. 10, 2006. Su Alvise Francesco: A. Bernardello, La prima ferrovia fra Venezia e Milano. Storia della imperial-regia privilegiata strada ferrata Ferdinandea lombardo-veneta (1835-1852), pp. 270-280 e passim; P. Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1948-49, Torino 2007, ad ind.; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v. Mocenigo, tav. XV.