GRITTI, Alvise (Ludovico)
Primo dei quattro figli avuti da Andrea e dalla convivente di questo - con tutta probabilità una greca -, nasce a Costantinopoli, nel quartiere di Pera, nel 1480.
"Arlevato et nutrito" nella capitale turca - come sottolineerà una delibera, del 20 luglio 1530, a lui relativa del Consiglio dei dieci -, nel 1502 segue il padre nel suo rientro a Venezia. Quivi il G. perfeziona la propria istruzione anche tramite la frequentazione del vicino Studio di Padova. Ma non per questo - data la nascita illegittima che lo timbra con la qualifica di "fiol bastardo" - gli si aprono grandi prospettive. Sbarrato l'ingresso nella carriera politica, al più può aspirare a quella, subalterna e modestamente retribuita, cancelleresca. Troppo poco per le sue ambizioni. Donde, nel 1506, la decisione di tornare a Costantinopoli; il dato anagrafico - a Venezia condizionante - dei natali al di fuori del matrimonio in questa non ha alcun rilievo.
Avido di guadagno, ambiziosissimo, ingordo di vita, fisicamente vigoroso, alto di statura, nero di barba e capelli, dal fluente eloquio, padrone dell'italiano e del greco parlato, a proprio agio pure con il turco, di ingegno desto, di carattere deciso il Gritti. Compressa a Venezia, sin soffocata la sua smania di protagonismo. È sbarcando a Costantinopoli che può dispiegarla appieno. E vi si afferma in tempi brevi attivando, con gran lucro personale, l'interscambio veneto-turco, commerciando all'ingrosso in zafferano e granaglie, in sale e olio, in gioie e pietre preziose, in minerali e oro, in argento e vino. E di gran giovamento al prestigio del G. la stessa elezione, del 1523, a doge del padre. Laddove - fosse rimasto a Venezia - la carica paterna l'avrebbe vieppiù cacciato nell'ombra (Andrea Gritti avrebbe dovuto guardarsi dal suscitare il benché minimo sospetto di favoritismo nei confronti del "bastardo"), a Costantinopoli sin accreditante risulta, e nell'ambiente degli operatori economici e nella stessa corte, la qualifica di figlio del doge. Tant'è che il G. viene chiamato beyoglu - figlio, cioè, del signore; ed è da tal contrassegno che deriva la denominazione dell'omonimo quartiere stanbuliota - e anche perché tale facilitati, per lui, i rapporti con i dignitari più autorevoli dell'Impero ottomano. Un'entratura, questa di cui gode il G., che gli vale la commessa di grosse forniture all'esercito e lucrosi appalti d'imposte, sicché - ad ampliare ulteriormente il proprio giro d'affari - dispone di somme sempre più ingenti da reinvestire, senza, per questo, sacrificare il tenore di vita sempre più sontuoso. Quello per cui - nel suo palazzo italianizzante a Galata allietato da giardini; e nel serraglio schiavi, schiave, efebi - vive alla grande, con fasto principesco, con un risalto che lo colloca tra i primi della città e non senza effetti di ricaduta anche in termini di influenza sin nell'ambito del governo.
Amico il G. del gran visir Ibrahim pascià - e annaffiata dal vino l'intrinsichezza con questo entusiasta del suo "moscatello" -, per il cui caloroso tramite si guadagna pure la stima e la simpatia del sultano Solimano il Magnifico. Una frequentazione che ridonda avvalorante sin dentro palazzo ducale, agli occhi del quale il G. è un personaggio sul quale contare, al quale ricorrere. È indicativo che sia il G., nel 1526, a fare quasi da arbitro nel contrasto tra Pietro Bragadin, il bailo uscente, e Pietro Zen, il bailo subentrante, al quale il primo non vuol trasmettere il bailaggio perché arrivato senza ducali e con la sola commissione. Si deve al G. se Bragadin, il 26 aprile, si imbarca per Venezia accontentandosi di 250 ducati sui 500 che, strepitando, pretendeva da Zen. Bailo a pieno titolo ora Zen nonché assiduo frequentatore del G., sul quale - coadiuvato anche da Marco Minio, l'"orator" veneto giunto a congratularsi con Solimano per i successi di Ungheria - preme perché torni a Venezia. Sinceramente affezionato al G. il bailo, per il quale imbarcarsi senza di lui sarebbe come, "lassandolo" a Costantinopoli, lasciar "la mità de mi medemo", come scrive lo stesso Zen a suo padre, evidentemente caldeggiante il buon esito delle sue pressioni per il rientro, il 27 ottobre.
Solo che il G. non vede perché mai da Costantinopoli - dove vive principescamente - dovrebbe trasferirsi a Venezia dove "si convien viver al modo de altri" e, per di più, in subordine al patriziato al quale la nascita gli preclude l'accesso. È evidente: "el magnifico messer Alvise" non può accontentarsi di una sistemazione qualsiasi, non può adattarsi a "maneggiare cose basse né patirle". Poco allettante - Zen lo comprende - abbandonare d'un tratto il "viver richo" di cui gode "per morir povero" a Venezia. "Cosa dificcillima oprare contra el suo naturale", convincerlo. Invidiabile, eccezionale lo status conseguito presso il Turco: maneggia "cose honorate"; è in gran reputazione per il "saputo ingegno"; si distingue per i "costumi gratiosissimi", per il tratto "cerimonioso" che lo rende amabile a "tutti questi grandi" della Porta; può permettersi una munificenza grandiosa, una "liberalitade" impensabile a Venezia. Per indurlo al "passo" dell'abbandono di una posizione di tanta eminenza occorrerebbero - fa presente Zen - una qualche contropartita, una qualche assicurazione che a Venezia qualcosa l'attende.
Se il G. - si illude Zen - "potesse sperar qualche honorevole vita, se moveria". Nell'impensabilità di una carica politica ad personam, opportuno sarebbe prospettare al G. "qualche grado nelle cose ecclesiastiche". Forse - così Zen ostinato nel suo tentativo - al G. basterebbe un cenno esplicito dal padre che gli "aprisse qualche coseta di questa materia et qualche speranza". Ma chi si intestardisce a sperare è solo Zeno. Il G. non è uomo cui basti una "coseta" da poco. E il G. - già al primo cenno del bailo all'eventualità di un suo ritorno - l'aveva francamente esclusa.
"Voi vedete" - così il G. a Zen - "come son usato viver […], vedete li andamenti miei; non bisogna ch'io m'extenda molto in narrarli. Et se vado a Venetia lassando le cose che mi vanno per mano, dov'è il fondamento mio? non harò piui el modo et la fortuna non applaude sempre". Non c'è motivo - visto che la fortuna a Istanbul sta applaudendo fragorosamente e al di là di ogni aspettativa - di voltarle le spalle per reinventarsi la vita, senza il "fondamento" di un appiglio certo, a Venezia. Troppo memore il G. delle angustie degli anni in questa trascorsi per volerle ritrovare. Sicché a Costantinopoli resta e, addolorato, Zen parte senza di lui.
Né il G. rimane solo perché trattenuto dalla fastosa esistenza, a Venezia intrasferibile, permessagli dalla sua strepitosa ricchezza, anche questa a Venezia intraslocabile. Sta assumendo un personale ruolo politico, anche questo - ancorché incoraggiato da palazzo ducale perché sintonizzabile con le sue scelte allora antiasburgiche - impensabile a Venezia. È soprattutto merito delle pressioni del G. sul primo visir e, tramite questo, sullo stesso sultano il buon esito della missione costantinopolitana dell'inviato di Giovanni Szapolyai, Gerolamo Laski.
È questi a riconoscerlo nello scrivere, il 23 genn. 1528, allo stesso Szapolyai che ha ottenuto l'appoggio della Porta perché vigorosamente "adiutus" dal Gritti. "Nisi hic", a Costantinopoli, il G. "fuisset" - ribadisce lo stesso il 24 in una lettera all'"episcopus Albensis Transilvaniae" Giovanni "Statilius", nativo di Traù - "res omnes non eo ordine ivissent". Un riconoscimento che produce un immediato risultato a vantaggio del G., se, il 3 febbraio, nel congedarsi dal sultano, Laski così si esprime: "relinquo, ex mandato domini mei", ossia di Szapolyai, il G. "loco oratoris et rerum negotiorumque curatoris". Fautore autorizzato, a questo punto, il G. dell'appoggio decisivo di Solimano al reinsediamento, del 1528, del voivoda in quel Regno d'Ungheria che Ferdinando d'Asburgo gli contende. Odiatissimo, ora, a Vienna il "filius bastardus ducis Venetorum", quasi principale responsabile delle difficoltà cesaree: "omnia ista facit", lo denuncia un anonimo il 10 marzo 1529. Ed è tramite lui (così una lettera del 1° giugno da Agria) che i "perfidi" veneziani aizzano Solimano all'offensiva anticesarea.
In effetti è sul G. che Venezia - il cui governo sta investendo "tutta la speranza" sua "nelli prosperi successi del […] Gran Signore" - punta perché, come gli scrive il Senato il 25 agosto, si adoperi a "sollecitar il magnifico bassà" Ibrāhīm "ad penetrar nella Austria". E il G. - già al seguito d'Ibrāhīm nella campagna antimperiale e fermatosi a Buda, anche ad avviarvi affari anche per conto di Venezia; e quivi, al ritorno di Solimano dall'infruttuoso assedio di Vienna, preposto a un contingente di 3000 uomini - intanto divenuto "episcopus agriensis", vescovo di Agria, ossia Eger o Erlau; ma c'è da dubitare della consistenza del titolo: nella Hierarchia catholica (III, p. 98) il G. non figura - nonché "generalis tesaurarius totius regni" d'Ungheria "et camerarius ac locumtenens generalis regie maiestatis". È con siffatte qualifiche che, il 17 sett. 1529, sottoscrive, a Buda, una propria lettera a Marco Contarini, nella quale - oltre a ringraziarlo dell'aver combinato le nozze, del 28 luglio 1529, di "Marieta mia figliola" con il "magnifico messer" Vincenzo Cicogna di Marco - gli annuncia che arriverà a Venezia Giorgio Gritti, "mio fratello", latore d'un "cavallo […] bellissimo" in dono per lui, aggiungendo che, qualora gli "occorrerà cosa" in "queste bande", egli non mancherà di soddisfarlo. Mai interrotti - anche sul piano privato e familiare - i rapporti del G. con Venezia, dove sua figlia Maria, rimasta vedova, si risposa, il 14 ott. 1533, con Alvise Bragadin di Piero, donde è di lui che ci si avvale quando a Costantinopoli, dove nel frattempo è rientrato, c'è da tranquillizzare la Porta - agitatissima e anche sdegnatissima nell'apprendere dell'accordo, a Bologna, veneto-cesareo - con l'assicurazione, la più enfatica, che, ciò malgrado, l'amicizia veneto-turca è sin scolpita indelebilmente nel marmo.
Lasciata, nell'ottobre del 1530, Costantinopoli, si porta, quale "orator Turci" in Ungheria, partecipando alle operazioni difensive contro l'assedio imperiale ed essendovi nominato, il 26 dicembre, "gubernator regni Hungariae", nonché "comes perpetuus terrae Marmarusiensis" - una contea questa di Maramureş, con miniere di salgemma e minerali - e "summus thesaurarius et consiliarius" del re, il quale, il giorno 31, fa sottoscrivere ai dignitari di corte e ai magnati un impegno solenne a prestare il loro appoggio al G. "in omnibus que ad commodum et statum […] regis nec non libertatem et conservationem regni pertinerent". Una garanzia relativa ché la nobiltà indigena è subito insofferente dell'eminenza, istituzionalizzata, del Gritti. E questi - che della carica subito approfitta per avviare commerci, per aprire miniere, per immettere sul mercato zafferano di pessima qualità -, a sua volta, ricambia l'antipatia. Condizionata di fatto la sua "auctoritas", se, il 12 genn. 1531, prima di partire, a fine mese, per Costantinopoli, la deve trasmettere a Tommaso Nádasdy, il quale - in sua assenza - assume la responsabilità del governatorato. E anche se il G., nel 1529, nascondendolo nella propria tenda, dopo la presa di Buda, l'ha salvato, in cuor suo il vicegovernatore - su posizioni nettamente antiottomane - al G. è ostilissimo, perché uomo dell'odiato Ibrāhīm, perché espressione del Turco.
In effetti, se visto nel suo palazzo di Galata, con il serraglio pieno di donne ed efebi, con centinaia e centinaia di servi, vestito alla turca, con abiti di seta, con addosso tessuti aurei, con le dita inanellate di anelli sfavillanti, con il petto ostentante pesanti catene d'oro tempestate di diamanti, troneggiante in banchetti, il G. sembra un satrapo orientale. E - ancorché si atteggi a gran protettore dei mercanti cristiani, ancorché nella piccola corte messa su a Buda chiami umanisti, altrimenti sfitti, come il dalmata Francesco Tranquillo De Andreis, come il suo futuro biografo Francesco della Valle, come fra Agostino Museo al quale affida l'educazione del proprio primogenito Antonio - orientale è il suo stile di vita. E dubbia la sua fede cristiana. Anche se vescovo d'Agria, circola voce si sia fatto circoncidere, c'è chi assicura si sia convertito all'Islam. Se ne deduce voglia diventare gran visir. Di certo la mercatura non gli basta. Le sue ambizioni sono ormai politiche.
Lasciata, nel febbraio del 1532, Costantinopoli, con cavalieri e fanti, punta - così, almeno, un avviso a Vienna, del marzo, da parte del "castellanus castri Fagarensis" - alla soggezione della Moldavia e della Transilvania. Occupa "Cibinum", una posizione chiave per avere in pugno "totam Transilvaniam", spiega il medesimo "castellanus". Sempre a capo del suo contingente militare, stando alle date delle sue missive e disposizioni, tutte sottoscritte "in castris nostris", il 16 aprile è "prope Thorgovistum", il 25 maggio è "prope Bassoviam", il 1° giugno è "prope villam Sarkan", il 28 "prope Debreczen". Quindi, tra luglio e inizio agosto, è a Buda, dove, in sua assenza, l'attore lucchese Francesco de' Nobili noto come Cherea - probabilmente istigato da Nádasdy - ha allestito una sorta di farsa carnevalesca grevemente ridicolizzante il G. da un lato mostrificato nell'aspetto, dall'altro fatto morire in scena per poi esservi oggetto di un parodistico canto funebre. Mossosi da Buda il G. si porta "ad Strigonium". È, appunto, "in castris" sotto, "sub", questa che l'assedia. Tornato a Buda con il sopraggiungere dell'inverno, di qui, il 20 febbr. 1533, ingiunge "iudicibus et iuratis civibus" di Kremnica o Kremnitz di trattare con lui. Rientrato, il 29 aprile, a Costantinopoli, da lì, il 29 giugno, annuncia "baronibus" croati che parte "ad istas partes" un proprio uomo, Isidoro Czeglédi, in merito a questioni da risolvere mirando a conseguire "veram pacem et quietem". Sta pensando ad abbassare - una volta in Ungheria - la boria magnatizia che rende ingovernabile quel Regno. Ciò a costo di tagliare teste, anzi a così procedere determinato. "Chi vuol governare" - ama sentenziare - non deve temere di "versar sangue".
Certo che nell'ultimo suo soggiorno in Ungheria il G. ha calcato la mano. Ha sostituito le milizie cristiane del re con elementi turchi. Puntando all'integrazione totale di Buda nel sistema ottomano, vi ha azzardato, all'inizio del 1533, una sorta di effettivo regno personale che oltrepassa di gran lunga la carica sua di governatore e comandante supremo dell'esercito. Vi ha avviato una sorta di dispotismo personale esautorante e umiliante Szapolyai che a lui deve la colossale somma di 300.000 ducati. E, deposto Nádasdy, ha insediato nel vicegovernatorato Giovanni Dóczy, l'arcivescovo d'Ungheria, un suo fido. E nella Dieta del marzo del 1533 ha preteso a chiare lettere dalla nobiltà e dal clero magiari la metà dei loro capitali mobili quale contributo alla lotta contro Ferdinando d'Asburgo. Né - prima di tornare a Costantinopoli - si è astenuto dall'imporre l'acquisto di enormi quantitativi di zafferano avariato, dal palesarsi interessato allo sfruttamento di una miniera aurifera in Transilvania, dallo speculare sul trasporto del rame tratto dalle miniere dell'Ungheria superiore alla volta della Turchia. Una smania di potere e un'ingordigia di lucro sin devastanti ai fini del consenso: che, se segnano il punto alto del protagonismo del G., provocano uno scontento diffuso, una esasperazione dilagante nei confronti del suo governo troppo esoso e oppressivo. Né il G. - una volta a Costantinopoli - avverte il montare dell'ostilità che si è lasciato alle spalle, tutto preso dal personale risalto di uomo cui, il 5 ott. 1533, scrive da Vienna lo stesso Ferdinando lusingandolo quale capace di promuovere il "bonum pacis". In "vobis plane confidamus" - ripeterà lo stesso in una lettera al G. da Praga del 13 febbr. 1534 -, quasi designandolo patrocinante "res nostras", gli interessi asburgici, "apud Cesarem" dei Turchi, presso il sultano.
Così corteggiato - e tra i corteggianti pure il re di Francia Francesco I che, il 24 ag. 1534, gli scrive da Fontainebleau complimentandosi con lui per l'avveduta gestione del Regno d'Ungheria ridondante "ad utilitatem et quietem" universali; e si accoderà, quando ormai la sorte del G. è precipite, il 14 settembre, P. Aretino promettendo al "felicissimo e glorioso" G. la dedica de I sette salmi di David - il G., lusingato, si gonfia interiormente perdendo il senso delle proporzioni, traendo dagli omaggi un'illusoria sensazione di forza. E che, nel settembre del 1533, dietro pressione del governo, a lui faccia appello come a "fiol carissimo" il padre doge perché invii al più presto gran quantità di grano - c'è gran penuria di questo; afflitti Venezia e il territorio veneto da carestia - alona di pubbliche benemerenze la sua sempre interessata e sempre remunerata e mai dismessa attività mercantile. Di lui sin entusiasti l'"orator" e vicebailo Pietro Zen (lo stesso che, antecedentemente, aveva tentato d'indurlo a partire per Venezia) e "l'orator" Tommaso Contarini; il G. "ha bonissimo intelletto" e si comporta "honoratamente", assicurano.
Quasi salvatore della patria il G. finché c'è bisogno delle sue spedizioni di granaglie. A ben 200.000 staia ammonta il quantitativo di frumento da lui inviato a Venezia nel 1533 pagato con quasi 84.000 ducati d'oro e quasi 47.000 ducati correnti. Ma quasi - a detta di Zen e Contarini - covante un "desegno" foriero della "ruina" della Repubblica il G. allorché, dopo di essi da tempo tornati a Venezia, arriva, da Costantinopoli, nel giugno del 1534, il segretario Daniele de Ludovici a riferire - come confermano le lettere del G. e del bailo in carica Niccolò Giustinian da lui con sé recate - in Senato della richiesta turca di nuove capitolazioni con la clausola d'"amici degli amici" e "nemici dei nemici" inchiodante la pace veneto-turca alla condizione obbligatoria delle alleanze e delle inimicizie. Insorti in Pregadi a protestare a gran voce i due con "non piccola mormoration" di tutto il consesso. "Invention", sostengono, del G. la novità della forzatura che coinvolge la Serenissima nelle mosse della Porta. E se il bailo gli ha dato man forte, è perché "subornato" dal G., il quale - insinuano i due -, approfittando del fatto che è "povero" e con numerosa famiglia a carico, deve averlo comprato. Ipotizzabile i due, Zen e Contarini, con la veemente reazione a un rafforzamento tanto vincolante dell'alleanza con la Porta denunciato come escogitazione del G., vogliano fare dimenticare quanto a favore del G. hanno scritto finché erano a Costantinopoli. Aggiungibile che dietro la loro presa di posizione ci sia la spinta di ambienti insofferenti della forte personalità del doge, decisi in qualche modo a ridimensionarlo mettendogli di traverso l'imbarazzante menzione del figlio naturale che da Costantinopoli starebbe tramando contro la Serenissima. Indubbio, comunque, che per il G. un più stretto vincolo tra questa e la Porta sarebbe conveniente; in prospettiva anche Venezia dovrebbe sostenerlo nelle sue ambizioni ungheresi, così mettendosi in urto cogli Asburgo. E ciò - è questo quel che angoscia il Senato - sarebbe, per la Repubblica, esiziale.
Certo che, con la presa di distanza della Serenissima, la posizione del G. si indebolisce. E non gioca a suo vantaggio che a Ibrāhīm - inviato a dirigere le operazioni militari in oriente - subentri Aias pascià di quello rivale e a lui ostile. Meno autorevole a Costantinopoli, il G., il 18 giugno 1534, la lascia arrivando il 6 luglio a Brasov, quivi raggiunto dal figlio Antonio e da Dóczy prontamente mossisi da Buda. E quivi l'omaggiano molti nobili ungheresi. Ma sollevata contro di lui la Transilvania dal vescovo di Varadino (ma non figura in Hierarchia catholica, III, p. 326) e vicevoivoda Emerico Czibak. Sorpreso questi, la notte tra l'11 e il 12 agosto, da uomini - parte turchi, parte ungheresi - del G., viene trucidato. Voluta più da Dóczy che dal G., l'eliminazione ha un effetto di ricaduta rovinoso per il G.: aumenta l'odio contro di lui e gli incerti - timorosi per la propria sorte - diventano decisamente avversi. E deciso a vendicare l'assassinio del prelato il nipote Miklós Pátócsy chiama alle armi i Transilvani cui si uniscono anche signori magiari. Entrato il G. con i suoi il 23 agosto a Mediaş, qui viene assediato. Non soccorso dal voivoda di Valacchia, tradito da quello di Moldavia il G. ormai non ha più scampo. Presa la città il 29 settembre, il G., mentre ne fugge, viene catturato lì appresso da militi moldavi e consegnato agli ungheresi Gotthard Kun e István Maylád, quello capitano generale di Transilvania, questo voivoda di Transilvania per nomina di Ferdinando d'Asburgo. Ed è costui a volerlo morto.
Il G. è trucidato da un suo uomo il 29 sett. 1534. Le spoglie trovarono pietosa sepoltura a Mediaş nella chiesa di S. Francesco.
Intanto, prima della sua fine, Pier Paolo Vergerio aveva avvisato, il 13 settembre, da Vienna che correva lì voce il G. fosse determinato a "farsi esso re", occupando "la Ungheria a suo commando" e mirando, a tal fine, a eliminare "Joanne vaivoda". Una decisione - questa di "far morire" Giovanni Szapolyai per diventare "signore" al suo posto - che il nunzio Vergerio ripete attribuita al G. anche in una lettera, del 28 novembre, successiva alla sua morte. E non appena giunge a Venezia notizia di questa, il nunzio Girolamo Aleandro si affretta a raccogliere tutte le informazioni possibili per poi, il 31 ottobre, trasmetterle a Roma. "Decapitato", riferisce il nunzio da Venezia, il G. con il figlio decenne titolare del "vescovato agriense". Catturato un altro suo figlio diciottenne - dev'essere Antonio, il primogenito -, mentre Giorgio, fratello del G. è stato fermato con due fuste, "piene di una grande ricchezza" sul Danubio. Si calcola - così sempre Aleandro - che, sommando questa con quella che lo stesso G. "haveva seco", quest'ultimo disponeva di "molte" migliaia di ducati. Una somma enorme, per lo meno nelle affabulazioni. E se a Vienna si dà per certo il G. abbia realmente tentato di "farsi re lui", a Venezia "si dice" piuttosto puntasse a "partir il regno" d'Ungheria con il "re de' Romani" Ferdinando.
Affranto per il dolore il padre del G.; "povero principe […] sconsolato", si impietosisce Aleandro; c'è da temere la sofferenza "sia per abbreviarle la vita". E tra i parenti del doge, tra "questi suoi" a lui più vicini nasce un'altra versione. Quasi a elaborare il lutto per l'"infelice" tragico "successo" della fine atroce, "se la lasciano intendere" sì da configurare l'ultimo G. disposto al pieno reintegro nel mondo cristiano, in Occidente. Lo sventurato "voleva ben dare il regno" a Ferdinando avendone "per ricompensa alcune terre qua vicine in Istria et Segna". Così - è sottinteso - avrebbe tradito la Porta. E così si spiega - e in ciò la versione suona sin ragionevole - perché il G. "haveva portato seco tanto tesoro et li figliuoli". Chi reca con sé i propri tesori, chi porta con sé i figli intende evadere, scappare. "Altramente" - insiste questa versione quasi impegnata a offrire motivi un minimo confortanti al vecchio doge - "pazzia saria stata menar li figliuoli a tanto pericolo in tanta incertitudine di successo".
Fonti e Bibl.: Venezia, Fondazione Cini: A. Papo - G. Nemeth, L. G.: un principe mercante del Rinascimento tra Venezia, i Turchi e la Corona d'Ungheria (dattiloscritto); A. Papo - G. Nemeth, L. G., partner commerciale e informatore politico-militare della Repubblica di Venezia, in Studi veneziani, n.s., XLI (2001), pp. 217-245.