FOSCARINI, Alvise
Primogenito di Giacomo di Alvise del ramo dei Carmini (già S. Fosca), esponente di primo piano della politica veneziana nella seconda metà del XVI sec., e di Elena Giustinian, nacque a Venezia il 25 genn. 1559 (1558 more veneto). Di qualche rilievo la figura del fratello Giambattista (1564-1628) il quale, esempio sempre più raro, attese contemporaneamente alla carriera politica e alla pratica mercantile, ereditando dal padre il gusto per gli affari che condusse in società anche con la sorella Foscarina. Dopo l'iniziale esperienza in alcune cariche minori salì via via i gradini di una carriera politica che lo portò a reggere Padova e Brescia, a divenire provveditore nella Guerra di Gradisca del 1612, consigliere dei Dieci e senatore più volte, riformatore allo Studio di Padova ed esecutore contro la Bestemmia, e nel 1625 procuratore di S. Marco de supra. Sposò nel 1588 Elena Da Mula che gli diede tre maschi, il terzogenito dei quali, Alvise, anch'egli procuratore di S. Marco, assolverà al compito di perpetuare il casato, che poté continuare per tutto il secolo XVIII grazie all'unione con i Foscarini di S. Stae. Il F. - da non confondere con l'omonimo figlio di Nicolò di Sebastiano (1566-1643), né con il figlio di Gerolamo di Marcantonio (1566-1638), né con quello di Nicolò di Alvise (1560-1617) tutti politicamente attivi nei medesimi anni - entrò con cinque anni di anticipo in Maggior Consiglio nel 1579, grazie all'estrazione della Balla d'oro. Nel medesimo anno accompagnò a Torino Francesco Barbaro, che in quella città era stato inviato come ambasciatore. Accanto al Barbaro - che come il padre Marcantonio era molto legato alla sua famiglia - il F. si avvicinò all'attività diplomatica, compiendo alcune missioni, anche riservate, che l'ambasciatore non poteva o non voleva condurre personalmente, tra cui quella presso il duca di Lesdiguières, il capo ugonotto, tenace avversario del duca Carlo Emanuele I.
Il debutto vero e proprio del F. avvenne nel 1583, con la nomina a savio agli Ordini, la carica che tradizionalmente costituiva il tirocinio per i giovani patrizi più promettenti. In tale veste presentò proposte di legge e sottoscrisse scelte improntate al tradizionale moderatismo dei "vecchi". Riconfermato nella carica dal settembre 1584 al marzo del 1585, il F. aveva già mostrato di prediligere la carriera diplomatica presentando la candidatura a diverse sedi di ambasciate vacanti. Nell'agosto 1586 fu in corsa per quella di Torino e due anni dopo, mancata per poco la designazione ad ambasciatore straordinario a Mantova per l'incoronazione del nuovo duca, nel giugno 1588 fu nominato a larga maggioranza ambasciatore in Savoia subentrando a Francesco Vendramin, futuro patriarca di Venezia e anch'egli conservatore. La nomina, oltre al sostegno del padre, era stata appoggiata dai patrizi interessati a contrastare i candidati innovatori per assicurare continuità di indirizzo politico in una delle sedi più delicate d'Italia. Rimase a Venezia ancora un anno, per aggiornarsi sulla situazione internazionale, e raggiunse Torino solo nel giugno 1589, con l'istruzione di mantenere la tradizionale linea di cordiale amicizia che improntava la politica veneziana verso i Savoia.
Il duca Carlo Emanuele I aveva mostrato di voler cambiare la politica estera, sostanzialmente neutralista, del padre Emanuele Filiberto e a partire dal 1581, contando sulla debolezza della Francia e sull'appoggio della Spagna e del pontefice, aveva dato vita a una lunga campagna militare contro Ginevra, caposaldo del calvinismo, contro le piazzeforti francesi in Piemonte, e alla morte di Enrico III di Francia addirittura verso la Provenza e il Delfinato. Il duca aveva ricercato nel contempo l'adesione di Venezia a una lega cattolica, ma senza successo, per il radicato convincimento neutralista della Serenissima, ben rappresentato dall'azione diplomatica del F., il quale racconta in dettaglio le operazioni militari di Carlo Emanuele e fornisce puntuali resoconti sulle vicende interne della confinante Francia che interessavano il governo veneto quanto quello sabaudo. Attente e scrupolose erano le sue informazioni sugli orientamenti della Spagna e della Santa Sede, sulla loro influenza nella politica sabauda, e sugli atteggiamenti dei personaggi di spicco della corte torinese. Prudente e sorvegliato fu il comportamento del F. nei frequenti contatti con i colleghi di Spagna e della Sede apostolica, ai quali il F. si sforzava di spiegare le ragioni per cui la Serenissima non aderiva a una lega antiprotestante e antiturca, per il timore di indurre la Porta alla guerra contro Venezia e tutto il mondo cristiano e con la giustificazione che la Serenissima non poteva sbilanciarsi proprio quando cercava di ristabilire l'armonia con la Sede apostolica, già allarmata dalle sue dimostrazioni di amicizia verso il nuovo re di Francia Enrico IV. La sua ascesa infatti era stata salutata con compiacimento a Venezia dai "giovani" e a Torino il F. dovette affrontare il disappunto del duca spalleggiato dagli oratori di Spagna e di Roma: si sentiva ripetere che nel Senato veneziano ormai comandavano i "giovani", i quali avevano sconfitto "tanti consumati et provati senatori" e avevano portato la Repubblica a riconoscere un re "heretico". Il F. ribatteva che "era antico instituto in quella Serenissima Signoria (che si è governata sempre con singolarissima prudenza) corrisponder con cortese et grave maniera con tutti" e che, se Venezia non avesse ricevuto l'ambasciatore francese, inviato di Enrico IV, "venirebbe senza dubio a dechiarir che quel Re… non potesse subentrar a quel Regno"; contraddicendo la "profession antichissima" di Venezia, che "è solita trattar senza minima ombra di partialità con i Principi" e che per tale condotta godeva di tanta reputazione.
Il F. rassicurava gli scettici interlocutori proclamando che in Senato non comandavano "avventurieri" perché vi accedevano solo "quelli che, passati sotto censura de i voti, sono stimati meritevoli d'entrarvi" e "non vi esser persona esaminata per giovine che non fusse prima passato per la scola di diverse sorti di giodicii con i quali si poteva veramente dire che fossero tolti a prova prima che si intendessero ricevuti in quell'Ecc.mo Consiglio, nel quale pochi sono quelli che vi entrano; onde non potrebbero esser in alcuna maniera bastanti, a qual si voglia negotio, apportar (benché minima) alteratione". Controbatteva l'oratore spagnolo spingendosi a dire che vi erano ancora molti "prudenti senatori" a Venezia che desideravano una Spagna forte, anzi ancora più forte e potente, che facesse da antemurale principale nel mondo contro tutti gli infedeli, musulmani o cristiani eretici che fossero.
Lo scontro non fu privo di asprezze e di colpi bassi; il F. fu posto sotto sorveglianza, la sua corrispondenza violata e uno dei suoi corrieri ucciso in circostanze sospette. Si raffreddarono i suoi rapporti col duca mentre il nunzio e in particolare l'oratore spagnolo stigmatizzarono dinanzi alla Signoria il comportamento del F., "che è giovane et si porta da giovane". Le acque poi si calmarono e la freddezza con la corte del duca fu solo un ricordo, cancellata dalle calorose espressioni di stima e di lode con le quali Carlo Emanuele I accompagnò i saluti per il rientro a Venezia del F. nel luglio 1592.
Sulla missione disponiamo di una relazione incompleta (Arch. di Stato di Venezia, Arch. proprio. Savoia, 2) e di un sommario datato 1° nov. 1593 (Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Wscovich-Lazzari, 28/I) nei quali il F. traccia un lucido e asciutto quadro del Ducato, nelle cui realtà interagivano prepotentemente gli avvenimenti di Francia e lo scontro tra mondo cattolico e protestante. Rapida ma attenta la descrizione fatta dal F. delle strutture politiche, amministrative, sociali e militari dello Stato e della corte, i cui membri "la maggior parte tirano provisione dalla corte di Spagna". Centrale la figura del duca che "si governa con maniere in tutto et per tutto differenti da quelle con cui si reggeva il duca Emanuel suo padre", e che "dopo che egli ha fatto il matrimonio con l'infanta, immediate voltò tutti i suoi pensieri alla guerra, sperando con ogni mezzo di aggrandir et migliorar la sua fortuna". Innegabile per il F. il nesso tra il bellicismo del duca e l'influenza spagnola, ma riteneva solo strumentale l'attaccamento alla Spagna, e finalizzate ad alzare il prezzo dell'alleanza col re Cattolico le mosse di avvicinamento alla Francia. Suggeriva pertanto alla Signoria di saper trarre giovamento dai dissensi tra il duca e la Spagna sulla politica italiana ed ecclesiastica perché, sebbene i rapporti tra Venezia e la Savoia non potessero essere quelli di un tempo e troppo condizionante fosse la presenza spagnola, "se occorresse, stante le combustioni et i desordini nei quali si ritrova il mondo al presente, per le cause che… le ho rappresentate, a sua Altezza di mutar partito, spererei non solo ma renderei affato sicuro che havesse in tutto e per tutto a dimostrarsi buon figliuolo et servitore di questo Ser.mo Dominio".
Il F. aveva consolidato la sua reputazione già nel corso dell'ambasciata, e se il nome che portava aveva reso più facili i suoi esordi nella carriera, le doti personali gliene resero ora più spedito il proseguimento. Nel settembre 1592 il F. assunse la carica di savio di Terraferma, riservatagli mentre si trovava a Torino, reiterandola nell'anno successivo e ancora numerose volte, fatta salva la contumacia, dal 1593 al 1599 e dal 1603 al 1612, mantenendo perciò una presenza costante nel Collegio, l'istituzione che dopo la "correzione" del Consiglio dei Dieci nel 1582-83 era divenuta uno dei centri di potere e di indirizzo politico della Serenissima. Tra il 1594 e il 1599 il F. fu in corsa per diversi incarichi amministrativi e diplomatici: le podestarie di Bergamo, Verona e Peschiera; i posti di consigliere, senatore e consigliere dei Dieci e le ambasciate di Parigi e Madrid. Entrò per la prima volta nel Consiglio dei dieci tra i membri della zonta nel 1600 e nello stesso anno fu eletto senatore ordinario. In novembre fu scelto per subentrare a Tommaso Morosini come luogotenente della Patria del Friuli e nel frattempo, in qualità di savio di Terraferma, ebbe incarico di tenere i contatti con il nunzio apostolico nel corso delle trattative per la questione del Po, l'annosa controversia con lo Stato della Chiesa che vide tra i protagonisti di parte veneta il futuro doge Leonardo Donà e il padre del F., Giacomo. Prestato giuramento il 6 giu. 1601, il F. si recò a Udine, ove rimase fino al febbraio 1603. Nei numerosi dispacci - la relazione finale non è pervenuta - scorrono, ampiamente descritti, gli endemici problemi che i luogotenenti dovettero sempre affrontare in quella terra: la ridotta efficienza della Camera fiscale, l'irregolarità delle riscossioni delle imposte e dei dazi per le numerose richieste di esenzioni, dilazioni e alleggerimenti, le insidie del banditismo e del contrabbando che avevano negli estesi confini con lo Stato asburgico un complice alimento. Efficiente ed energico, il F. si preoccupò di incoraggiare e salvaguardare le attività economiche e di proteggere le popolazioni nei frequenti contenziosi con funzionari pubblici o feudatari. Che il F. non temesse di confrontarsi con potenti e autorità e manifestare, ove lo ritenesse opportuno, il suo dissenso, lo dimostrò fin dal suo insediamento, rifiutandosi di prestare il giuramento di segretezza che il Sant'Uffizio gli aveva richiesto in merito a un caso che si stava trattando. Il F. riteneva incompatibile per un rettore prestare un secondo giuramento dopo quello di fedeltà alla Repubblica: aveva affermato polemicamente che neppure i "Sacri Concilii" richiedevano tanto. Ne seguirono sue prese di posizione apertamente critiche nei confronti dell'operato delle autorità ecclesiastiche. Il F. trovava ad esempio che ci fossero esagerazioni nel trattare i casi di eresia da parte dell'Inquisitore il quale, a suo vedere, tendeva a ingigantire ogni episodio anche "di pocca et legiera importanza" (Arch. di Stato di Venezia, Senato. Dispacci rettori, 1 bis). Suscitando scalpore nei religiosi il F. considerava gli eventuali provvedimenti contro i rei di eresia pertinenti più "al giuditio secolare che a quel Sant'Uffizio". Criticava e minimizzava, in sostanza, l'operato delle autorità ecclesiastiche e non si faceva scrupolo di stigmatizzare la posizione dello stesso patriarca di Aquileia. E lo faceva sapere a Venezia, opponendo agli allarmi degli inquisitori un rassicurante quadro di tranquillità spirituale e di ortodossia dei territori sotto il suo governo, rallegrandosi, non senza sarcasmo, con la Signoria "che in questa città et Patria se viva così catolicamente, che non ve sia alcun neo considerabile, conservando questi sudditi una fede costante et incorrotta, se bene da questi padri Inquisitori s'attende con ogni spirito a ventillare qualche sospicioncella più per meritare presso suoi superiori, come ambiscono sopra modo, che per necessità che vi sia". Il F., che al termine della missione friulana tornava a Venezia, era non solo circondato da una più solida reputazione ma anche politicamente più vicino alle posizioni giurisdizionaliste e anticuriali che aveva progressivamente maturato fin dalla missione a Torino e che costituivano una presa di distanza dalla sua tradizione familiare, sebbene non travalicassero mai negli atteggiamenti e nelle scelte radicali dell'ala sarpiana del patriziato. Tra il 1603 e il 1605 il F. fu provveditore sopra Ori e monete, senatore e consigliere dei Dieci, e pose la propria candidatura a rettore di Vicenza, a podestà di Brescia e ad ambasciatore in Francia.
Il 24 sett. 1605 il Senato lo inviò in Polonia come ambasciatore straordinario per partecipare ai sovrani le felicitazioni per le nozze, per la loro imminente discendenza e con la commissione di rafforzare i legami con la Serenissima, che fin dagli anni della guerra per Cipro si erano intensificati. Si pose in viaggio solo nel maggio 1606 quando già da un mese la crescente tensione tra la Repubblica e la Santa Sede era sfociata nell'interdetto. La missione in Polonia si era pertanto caricata di ben altro significato, inserendosi nell'offensiva diplomatica e ideologica intrapresa da Venezia per far sentire le sue ragioni alle corti europee e per ricavarne solidarietà. Furono due mesi e mezzo di colloqui con principi e uomini di governo, sui quali inviò alla Signoria minuziosi e quotidiani resoconti. Da Innsbruck, la prima tappa importante, il F. nota che tutti osservano "il progresso delli dispareri che passano tra il Pontefice et quella Serenissima Repubblica et se ne parli assai dapertutto con varia interpretazione de chi ne habbia la ragione, non manchando però io, dove occorre, di pubblicare le validissime ragioni che sono dal canto della Ser.à Vostra".
Alcuni ecclesiastici e parroci obbedienti agli ordini superiori gli avevano negato l'accesso a chiese e funzioni religiose, ma il F. riferisce anche lo stupore e i cambiamenti di opinione di molti una volta venuti a conoscenza in modo veritiero e documentato delle ragioni di Venezia. Durante l'incontro con l'arciduca Mattia il F. fece notare che se il Papa avesse avuto successo nella vertenza con Venezia, un giorno sarebbe potuto toccare alla Germania di subirne gli attacchi, e l'arciduca stesso - riferisce - ammise che i gesuiti "si vogliono arrogar troppo" e in molte cose si trovò d'accordo con lui.
Il F., da diplomatico accorto, lascia che le critiche al Pontefice vengano spontaneamente dalla bocca dei suoi interlocutori, mostrando da parte sua, senza enfasi propagandistica, la disponibilità al dialogo della Serenissima, e va dicendo pacatamente di "creder che sua Beat.e, considerato che averà senza passione la giustezza della nostra causa, non solo non doverà proceder più oltre, ma si doverà più tosto avedere dell'ingiusto travaglio che apporta" alla Repubblica. Rileva compiaciuto la simpatia di cui Venezia gode a Vienna, ove perfino alcuni cappuccini e gesuiti gli fanno sapere di non essere d'accordo con il Papa e di non considerare valido l'interdetto "per simili cause et mere di stato et non concernenti materia di fede né di religione". Fornisce inoltre puntuali notizie sulle vicende interne dell'Impero, specie quelle che vedevano contrapposti i cattolici ai protestanti che chiedevano insistentemente "libertà di coscienza". Questione della massima importanza, sottolinea il F., perché "se la concedessero agli Ongari le altre provincie la vorrebbero et a questo modo diventerebbe totalmente heretica tutta la Germania, et non la concedendo da loro stessi non si possono difendere". Da Cracovia il F. illustra la complessità della situazione interna della Polonia, i difficili rapporti tra cattolici e protestanti, l'influenza dei gesuiti e il peso esercitato dal nunzio apostolico. Quanto all'interdetto "non ho taciuto - riferisce - alcuna di quelle cose c'habbino potuto far impressione nell'animo di Sua Maestà a fine che restasse ben persuasa delle potentissime ragioni di quella Ser.ma Rep.a et del torto c'haveva S. S.tà a travagliarla così ingiustamente, et me ne sono faticato assai, perché, essendo la Maestà Sua molto pio et religioso et essendo attorniato da padri gesuiti et da Mons. Rangone, Nuntio di Sua B.ne, ella assai facilmente presta fede alli concetti che da questi le vengono suggeriti" (ibid., Polonia, f. 3).
La missione ebbe successo: la Polonia non pubblicò l'interdetto e ne risultò un rafforzamento dei legami tra le due nazioni, come rilevò Sarpi con soddisfazione nella sua Historia dell'interdetto. Il F., che era stato insignito da re Sigismondo del titolo di cavaliere, tornò in patria in agosto, per riprendere la consueta attività di governo come savio di Terraferma, fu tra coloro che gestirono la crisi con la sede apostolica. Con Francesco Molin egli fu tra gli interlocutori che la Repubblica pose accanto al cardinale de Joyeuse - che fece la sua opera di mediazione nella città lagunare - fino alla sua conclusione, il 21 apr. 1607. Da posizioni moderate egli continuò la sua carriera, sempre ai vertici delle responsabilità governative: senatore nel 1609, alla morte di Enrico IV fu a lui, di nuovo con l'amico F. Molin, che fu affidato l'incarico di porgere il cordoglio della Repubblica all'ambasciatore di Francia. Nel 1612 il F. fu savio del Consiglio e poi consigliere del doge. Nel novembre del 1614, poco dopo essere stato nuovamente eletto in Senato, si ammalò. Morì il giorno 24 nella sua abitazione e il suo corpo fu inumato nell'arca di famiglia nella vicina chiesa dei Carmini. Nonostante la disapprovazione del padre, che aveva affidato al secondogenito il ruolo di continuatore del casato, il F. aveva sposato nel 1597 Elisabetta da Lezze, figlia di Giovanni e di Maria Priuli (nel testamento del padre del F. vi è un cenno un po' freddo a questa nuora "della quale per la breve prattica non ho havuto altra cognitione se non che è moglie di detto figliolo"). Nel 1603 il F. aveva impugnato il testamento del padre, considerandolo lesivo dei diritti di primogenitura e la giustizia gli aveva in parte dato ragione. I beni furono quindi divisi tra i due fratelli, poi nel 1613 il F., rogato a sua volta il testamento, fece sì che il patrimonio di famiglia si ricomponesse, lasciando che alla morte della moglie, divenissero eredi i figli del fratello Giambattista.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. ven. 19: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, II, c. 468; III, c. 552; Ibid., Ospedali e luoghi pii, bb. 280, f. 8; 489, f. 18; Ibid., Provv. e sopraprovv. alla Sanità. Necrologi, b. 847; Ibid., Avogaria di Comun. Libri d'oro Nascite, reg. 53, c. 134; Ibid. Libri d'oro Matrimoni, reg. 91, c. 92; Ibid. Contratti di nozze, X, n. 17, b. 156; Ibid. Balla d'oro, reg. I, p. 117; Ibid. Indici 86 ter I: G. Giomo, Indice per nome di donna dei matrimoni…; Ibid., Notai di Venezia. Testamenti, bb. 57, n. 338; 177, n. 377; Ibid. Atti, b. 222, n. 1058; Ibid., Segretario alle Voci. Elezioni Pregadi, regg. 5, cc. 16v, 17v, 112v; 6, cc. 9v, 10v, 11v, 12v, 13v, 14v, 63v, 161v; 7, cc. 12v, 14v, 16v, 82, 145; 8, cc. 11v, 12v, 13v, 55v, 145; Segretario alle Voci. Elezioni Maggior Consiglio, regg. 6, cc. 10v, 161v; 8, c. 141v; 11, c. 1; Ibid., Senato. Terra, regg. 58, cc. 59, 61; 59, cc. 35, 161v; 60, c. 2; 62, c. 47; 63 (marzo 1593); 75, c. 126v; Ibid., Senato. Dispacci dei rettori. Udine e Friuli, b. 1 bis; Ibid. Dispacci degli ambasciatori e residenti. Savoia, ff. 5, 10-13; ibid. Polonia, f. 3; Ibid., Senato. Deliberazioni. Secreta, f. 60 (15 maggio, 6 ottobre, 20 genn. 1589 m.v.); Ibid., Archivi propri degli ambasciatori. Savoia, reg. 2, cc. 2-39, 493-526; ibid., Polonia, 3; Ibid., Collegio. Esposizioni Roma, f. 3, regg. 9, cc. 92 s., 99, 108v; 15, c. 41; ibid. Esposizioni principi, ff. 7, 8, 16; regg. 9, cc. 108, 126, 131; 10, c. 26; Ibid. Lettere principi. Savoia, b. 43: 30 maggio 1592; Ibid. Lettere, f. 35; Ibid., Consiglio dei dieci. Lettere ambasciatori, b. 28; Ibid. Giuramenti dei rettori, reg. 5, c. 43; Ibid. Lettere dei rettori, b. 172 (nn. 28-47); Ibid., Luogotenente generale della Patria del Friuli, ff. 188 s.; Ibid. Ducali, b. 290/45; Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Mss. Wscovich-Lazzari, b. 28/I; Ibid., Cod.Cicogna 1994: Materie politiche, c. 24; ibid. 3098, f. 16; ibid. 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, II, c. 28; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. it., cl. VII, 829 (8908): Consegi, c. 258; 830(8909), cc. 223v, 26bis; 831 (8910), cc. 12v, 15v, 187v, 201v, 216v, 307v, 311v, 374v, 421v, 423v, 447v, 449v; 832 (8911), cc. 3v, 5v, 27, 46v, 53v, 74, 129v, 135v, 145, 180, 194v, 196v, 200v, 202, 205, 241, 258; 833 (8912), cc. 52v, 129v, 136v, 137, 184, 197, 225, 228, 235v, 250v, 267, 268v, 276, 278v; 834 (8913), cc. 20v, 26, 177v, 203, 219v, 244v; 835 (8914), cc. 52v, 53v, 89v, 97v, 106, 210, 220v; Ibid., Mss. it., cl. VII, 811 (7299): Memorie pubbliche, c. 345; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, Venezia 1830, sub voce; Calendar of State papers… relating to English affairs… in the archives of Venice…, VIII, a cura di H.F. Brown, London 1894, ad Ind.; XII, a cura di Id., ibid. 1905, ad Ind.; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, I: La Patria del Friuli (Luogotenenza di Udine), Milano 1973, pp. LX, 121; XIV: Provveditorato generale di Palma, a cura di A. Tagliaferri, Milano 1979, p. 125; A. Morosini, Historiarum Venetiarum, in Degl'istorici…, III, Venezia 1720, sub voce; E. Cornet, Paolo V e la Repubblica veneta. Giornale dal 22 ottobre al 9 giugno 1607, Vienna 1859, pp. 114 e n. 115, 181, 194, 199, 222; G. Cappelletti, I gesuiti e la Repubblica di Venezia, Venezia 1873, p. 123; A. Cieszkowski, Fontes rerum Polonicarum e tabulario Reipublicae Venetae, s. 2, fasc. I, Litterae ambasciatorum Venetorum apud regem Poloniae sub anno 1574 usque ad annum 1606, Venezia 1892-1902, pp. 254-301; C. De Magistris, Carlo Emanuele I e la contesa fra Repubblica veneta e Paolo V (1605-1607), in Miscell. di storia veneta di storia patria, s. 2, t. X (1906), pp. XXVIII, XLIV, 143 passim; A. Dufour, La guerre de 1589-1593, Genève 1958, sub nomine; A. Da Mosto, I dogi di Venezia…, Milano 1966, p. 386; P. Sarpi, Istoria dell'interdetto, in Scritti scelti di P. Sarpi, a cura di G. Da Pozzo, Torino 1968, pp. 230 s.; M.J.C. Lowry, The reform of the Council of ten 1582-83: an unsettled problem?, in Studi veneziani, XIII (1971), pp. 275-310; G. Trebbi, F. Barbaro patrizio veneto e patriarca diAquileia, Udine 1984, ad Ind.; D. Caccamo, Repubblica nobiliare nella prospettiva di Venezia, in Cultura e nazione in Italia e Polonia dal Rinascimento all'Illuminismo, a cura di V. Branca - S. Graciotti, Firenze 1986, pp. 121-148; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini…, Venezia-Roma 1958, p. 107, anche in: Id., Venezia barocca. Conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia 1995, p. 88 n.