DARDANI, Alvise
Figlio di Giacomo e di Pellegrina Testa, nacque a Venezia tra il 1429 e il 1432, se il Sanuto ne registra la morte, nel marzo 1511, all'età "di anni 82" e le due iscrizioni funebri, composte dal figlio a reverente memoria paterna, lo dicono di 79 anni.
Poche sono le date certe della sua esistenza. Amantissimo degli studi "humani" e allevato dal padre con precisi intenti cancellereschi, il D. è ricordato nelle fonti per la prima volta nel 1463: dal marzo di quell'anno risulta confratello della Scuola Grande di S. Marco. Nel 1476 concorse, senza successo, all'elezione di cancelliere grande in Candia. Nel 1483 cominciò ad operare come notaio presso gli Auditori Nuovi. Il 25 febbr. 1484 risolse una questione di confini tra immobili, cui era interessato in quanto esecutore testamentario di uno dei due proprietari. Sempre nel 1484 fu eletto "vardian grando" della Scuola di S. Marco, carica che ricoprì anche nel 1490, quando (25 luglio) ottenne dai frati dei SS. Giovanni e Paolo una dilazione nella restituzione dei debiti che egli aveva contratto con la scuola stessa.
Nel 1487 ricevette il primo incarico dal governo, in occasione del conflitto veneto-tirolese. Una ducale del 4 settembre informava i provveditori in Valsugana, Cristoforo Moro e Domenico Dolfin, del prossimo arrivo del D. col quale dovevano decidere le modalità d'un colpo di mano contro Primiero, la cui valle, sede di miniere ferrose assai importanti, era stata occupata per rappresaglia dall'arciduca Sigismondo d'Austria. Mentre il progetto veniva accantonato per l'ansia di chiudere il conflitto, il D. esercitava, forse tra settembre ed ottobre, la carica di governatore di Castel Ivano.
"Informatissimo del paese" diceva del D. la ducale ai provveditori e ben a ragione. Il 18 dic. 1487,in esecuzione del trattato di pace stipulato tra Venezia e Sigismondo, Giovanni Ramnaz, commissario dell'arciduca, restituiva ai legittimi proprietari veneziani le miniere di Primiero e tutto ciò che era stato razziato durante il conflitto: tra i proprietari reintegrati figurava anche il D. che, comunque, fin dal 1483risultava detenere la proprietà, assieme con Paolo Ciera, della principale miniera agordina. Così redditizio doveva esserne il possesso che, quando nel 1488veniva attuato lo statuto minerario fortemente limitante le prerogative dei possessori di concessioni, il D. appariva tra i più acerrimi oppositori dello statuto stesso, tanto da esser ammonito dal Consiglio dei dieci.
Il 23 apr. 1500 i Dieci nominarono il D. - con Alessandro Capella e Paolo Franceschini - custode del cardinale Ascanio Sforza caduto in mano veneziana, dopo la cattura del Moro, poco tempo prima. Quindici giorni durò il forzato soggiorno del cardinale in Venezia, fino, cioè, alla decisione di cedere ai Francesi l'ingombrante prigioniero. Vistasi sempre rifiutare formale udienza, il cardinale elesse intermediario tra sé e il governo il D., che, quindi, ebbe libero accesso in Collegio, dove compariva per conciliaboli riservatissimi con i capi dei Dieci.
Il 16 novembre dello stesso anno i "provisores exercitus" e "patroni Arsenatus", Angelo Trevisan e Zaccaria Dolfin, inviarono il D. a "comprar fero in Primier".
Con il D. partivano Francesco Ravagnan "maestro in Arsenal" e un Giorgio "proto di armeri", recanti l'elenco esatto dei pezzi in ferro occorrenti e i relativi modelli in legno. Spicce le istruzioni che gl'inviano i provveditori e che riguardano uomini destinati alle galee e ferro. Circa i primi, gli si dice d'insistere a cercarli in Bellunese e in Carnia. Quanto al ferro, l'obbligo è andare in Zoldo, principale fucina della Repubblica.
La missione del D., iniziata il 17 0 18 novembre, terminò un po' prima dell'8 dicembre con risultati soddisfacenti. Il D. si era spinto anche in territorio arciducale e ciò sollevò sospettosi interrogativi negli ambienti diplomatici francesi e pontifici: si accusava la Repubblica d'aver inviato il D. in terra imperiale con ben altri scopi che quelli di un pacifico approvvigionamento di ferro e "gallioti".
Dopo il 1501, le tracce del D. si perdono per riapparire otto anni più tardi, nel 1590, quando, il 28 giugno, con procedura piuttosto insolita che solo l'eccezionalità dei tempi giustifica, fu nominato "per gratia" provveditore di Mirano, Oriago e Stiano, i cui abitanti, rifiutatata obbedienza alla ribelle Padova e venuti in Collegio, lo avevano espressamente richiesto per il loro governo. Il D., lo stesso 28 giugno, s'era offerto per l'incarico; e l'avere nel Miranese numerose proprietà, preda di possibili scorrerie nemiche, non era affatto estraneo al gesto.
Le fasi del suo provveditorato sono ricostruibili con una certa sicurezza solo per i mesi centrali del 1509. Entrato in Mirano il 1º luglio, sovrintese ininterrottamente alla difesa della vicaria - peraltro assai vasta - fino al 19 agosto, con i soli intervalli della partecipazione in prima persona alla presa di Padova (17 luglio) e del generoso aiuto prestato al provveditore di Camposampiero Antonio Querini, dal 4 all'8 agosto. Dal 19 agosto ai primissimi di settembre risiedette nuovamente a Padova per cooperare alla fortificazione della città, minacciata sempre dagli Imperiali. Dopo il suo rientro a Mirano (4 settembre), il 7, il figlio Giacomo chiese per lui "licentia de repatriare", concessa non subito. Il 18 novembre il D. si trovava in riposo a Vicenza; il 21 una ducale, riconoscendo "honestissima" la sua richiesta di rientro, dovuta all'"indisposition", gliela concesse, pregandolo però di rimanere in Vicenza altri tre giorni. Nel marzo 1510 il D. fu riconfermato provveditore e partecipò a tutte le principali operazioni di difesa svolte nel Miranese e attorno a Mestre; questo sicuramente fino alla fine di agosto: dopo, le tracce della sua attività si perdono sino all'autunno.
Difficile dar conto del suo operare, svolto quasi sempre in un'atmosfera di grande concitazione per la precarietà dei sussidi e il continuo spostarsi del fronte che, comunque, per buona parte dell'anno e mezzo di provveditorato, vide la vicaria in prima linea, sempre potenzialmente esposta ad attacchi nemici. Fondamentali le preoccupazioni legate alla difesa. Vuoi per "esser el territorio longo et largo" vuoi per continuo ritardo del governo che non inviava truppe o ne inviava in misura limitatissima, il D. incessantemente implorava "subvention d'arme", stradioti e "fanti alemani"; e se li otteneva, non di rado era Gritti, o qualche provveditore, a dirottare a proprio vantaggio la tanto sospirata milizia. Neppure era raro il caso che il D. fosse costretto ad assoldare a proprie spese gente. Del resto, quando i militi arrivavano, non v'era da esserne entusiasti, visti gli eccessi ai quali si abbandonavano; meglio, forse, quanto a disciplina, la compagnia di mercenari turchi.
Sentendosi "tra l'incudine et martello", il D. pagò "spioni" e soldati, smistò "messi" che a decine corsero il martoriato territorio, sfamò di suo moltissimi profughi, corse qua e là "senza uno momentode reposso" e spesso pattugliò anche di persona; ma non sempre le sue iniziative riuscirono ben accette alla Signoria.
I poteri concessi al D. - che serviva "gratis senza stipendio e spese" - come quelli degli altri provveditori, comprendevano l'amministrazione di "rason" e "giustizia" in "civil et criminal". Preoccupazione fondamentale, dopo la difesa, fu per lui quella di mantenere in vita il sistema di esazione delle ricche "intrade" dei cittadini veneziani e ciò gli causò parecchi attriti coi "zentil'homeni" padovani passati agli Imperiali. Che il D., semplice cittadino, esercitasse così ampi poteri, indispettì alquanto i rettori insediati in Padova liberata e soprattutto i successori, Stefano Contarini e Cristoforo Moro, i quali ripetutamente, ne ostacolarono le prerogative. A tal punto essi esercitarono la loro prevaricazione, da costringere all'intervento la Signoria per ben due volte - il 21 marzo e il 12 maggio 1510 - e in termini sempre più perentori: con l'obbligo immediato di "far cassar et annullar" ogni sentenza da essi pronunciata in spregio all'autorità del D., li si invitava "de coetero" ad osservare "questa nostra deliberazione" (riconferma al D. dei suoi poteri e divieto ai rettori di insidiarli), così da non sentirne più "alcun pur minimo richiamo" riuscente "supra modum molesto".
Coi primi freddi, il D. rientrò a Venezia in pessime condizioni fisiche. Morto il 12 dic. 1510 il cancelliere grande Giovanni Diedo, il D. fu eletto a questa carica il 22 dicembre, benché non fosse in candidatura ufficiale.
Ma non poté entrare in carica per l'aggravarsi delle sue condizioni. Morì a Venezia il 16 marzo 1511.
Due volte il D. s'era maritato. Una prima volta con Angela di Reniero Vitturi e una seconda con Paola Davanzo. Dai matrimoni gli nacquero due figli: Giacomo dalla prima moglie e Angela dalla seconda, maritata, forse nel 1484, a Domenico di Bertucci Contarini (podestà e capitano di Feltre nel 1492 e podestà di Bergamo nel 1502). Il figlio Giacomo fu assistente del padre nel provveditorato miranese e fu a capo di una squadra di guastatori che nel 1511 concorse alla fortificazione di Padova. Confratello della Scuola di S. Marco, di cui fu "vichario" nel 1511 e "vardian grando" nel 1518 e 1523, sposò Polissena di Marc'Antonio Balbi.
Il D. non fu alieno da interessi culturali. Amico di umanisti, si cimentò egli stesso con la letteratura, scrivendo La bella e dottadifesa delle donne... contra gli accusatori del sesso loro (pubblicata a Venezia solo nel 1554), operina "in verso, e prosa", "curiosa" "vaga" "gratiosa" secondo l'opinione di molti passati estimatori, ma che in realtà appare d'impianto abbastanza modesto, salvandosene qua e là solo alcuni momenti in prosa particolarmente vivaci. Divisa in sette libri preceduti da un proemio, l'opera ha solo il primo in versi (cantante le lodi delle donne illustri) e tutti gli altri in prosa. Il settimo libro è "un breve trattato di ammaestrare li figliuoli", modesta sintesi di pedagogia degli antichi e pratico buonsenso, non priva di qualche spunto nuovo per l'epoca. Tutta l'opera merita forse d'esser ricordata più per il tema che per il valore letterario; un filone destinato a durare in ambiente veneziano fino, ad es., a Lucrezia Marinelli, autrice di Le nobiltà et eccellenze delle donne et i difetti degli uomini (Venezia 1600). Il Sansovino ricorda del D. anche un'altra operetta "in terza rima", secondo taluni "fatta ad onore della veneta nazion" e non pervenutaci.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Miscell. Cod., I, Storia ven. 5: M. Toderini, Cittadini, II, cc. 723, 724 s.; Consiglio dei dieci, Misti, regg. 13, c. 15r; 14, c. 40r; 24, c. 18v; 28, c. 186r; Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 25, cc. 75r, 80r; Notarile Testamenti, Busenello Priamo, b. 66, n. 47 del 29 ott. 1504, con codicillo del 24 dic. 1506 (nonché nel Liber tercius testamentorum mei Priami Busenelli Venetiarum notarii, sempre nella medesima busta, alle cc. 17v-19r; estratto del testamento in Cancelleria Inferior, Miscell. notai diversi, b. 28, n. 2862); Provveditori da Terra e da Mar, f. 26, cc. 23v, 150v; f. 27, cc. 73v, 87v; Scuola Grande di S. Marco, b. 136 (pubblicato in P. Paoletti, L'architettura e la scultura del Rinasc. in Venezia, II, Venezia 1893, p. 103 ed in L. Olivato Puppi-L. Puppi, M. Codussi, Roma 1977, p. 259); Scuola Grande di S. Marco, Notatorio, reg. 16 bis, cc. 1v, 7r, 8r, 10r, 18r, 19rv (uno dei doc., del 25 luglio 1490, pubbl. in Paoletti, cit., cc. 20rv, 21v, 22rv, 23rv, 24r, 29v, 30rv, 31v, 32v e, dopo numerose cc. bianche, alle cc. 30, 32, 39, 43, 44, 46, 52r, 54rv, 55r, 59v, 60r; Senato. Secreta, Deliberazioni, 42, c. 75v; Venezia, Bibl. d. civico Museo Correr, Cons. XI.E. 5: E. Cicogna, Memorie estratte succintamente da varii codici intorno alle famiglie cittadine veneziane, cc. 145 s.; Ibid., Mss. P. D. 4, c. 11: Cittadini veneziani, c. 144; Ibid. 27 c: La veneta nobiltà...,c. 208; Ibid. 244 b: Cancellieri grandi, c. 9r; Ibid. c. 767, II, III, IV, passim; Ibid.c. 667/11 (carta notarile del 25 febbr. 1484); Ibid., Cod. Cicogna 1159, c. 122v; Ibid. 1701, cc. 81 s.; Ibid. 2156: Cronica di famiglie cittadinesche originarie venete, cc. 7-16; Ibid. 2484, cc. 49r, 51r; Ibid. 3052/37, passim; Ibid. 3280/1b, cc. 1v-2r; Ibid. 3526: G. P. Gasperi, Catal. d. 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