CORNER, Alvise
Nacque a Venezia, nella parrocchia di S. Bartolomeo, da Antonio di Giacomo e da Angeliera Angelieri, probabilmente nel 1484.
Tale data è suggerita dal più recente ed autorevole studioso del C., il Menegazzo, che è giunto a determinarla dopo una complessa serie di confronti ed esami: la qual cosa potrebbe stupire a proposito di un personaggio che tanto scrisse di sé, al punto da redigere di propria mano una sorta di epistula ad posteros, di compendio biografico destinato ad essere letto come elogio funebre, se proprio le sconcertanti alterazioni di dati proposteci dal C. non costituissero il principale ostacolo per l'individuazione della sua data di nascita. Convinto com'era, infatti, che la natura avesse assegnato all'uomo un'esistenza di 90-100 anni, pensò bene di ritoccare qualche poco la sua, per surrogare meglio le sue teorie di igienista: così, nel 1540 egli si assegnava 56 anni, ma nel 1551 ne dichiarava 70, che l'anno seguente divenivano 74 per poi salire a 80 nel 1557 e ad 85 nel '59; nel 1565, infine, affermava di averne 95. Non basta: ad alimentare il mito della longevità di un C. quasi centenario, contribuì non poco il Graziani, che dichiarò di aver personalmente assistito alla sua morte, avvenuta a 98 anni. Purtroppo il mancato riconoscimento del patriziato al C. ci priva del sussidio di una quantità di fonti, a cominciare dal Libro d'oro, e quindi non rimane che accettare la data del 1484, indicata da lui stesso in un esposto ufficiale alla Serenissima, cioè in un contesto che suggeriva la massima serietà.
Collegato con la nascita si presenta un altro grosso problema, quello del nome: Corner o Righi? In una lettera allo Speroni del 2 apr. 1542 il C. fornisce un'inverosimile spiegazione della perdita della nobiltà: a suo dire, infatti, il progenitore, un figlio del doge Marco Corner (morto nel 1368), acquistò parte della Morea e vi si trasferì. In tal modo, quando i suoi discendenti tornarono a Venezia, erano sì ricchi "di denari, argenti et gioglie", ma senza più l'appartenenza al patriziato.
Senonché di questi presunti tesori greci non appare traccia: il padre del C., testatore nel 1510, lasciò ai figli solo parte di un palazzo a S. Bartolomeo, mentre tutto il resto della sostanza apparteneva alla dote materna. Ancora, nel 1490 un fratello del padre, pure lui di nome Alvise, aveva inutilmente cercato di farsi riconoscere nobile, proponendo alla Quarantia una diversa vicenda: affermava infatti di discendere da un figlio del doge Marco, Enrico o Rigo, bandito per omicidio e segretamente vissuto a Padova sotto il nome di Antonio di Rigo dal Legname, e, per quanto nel suo testamento il doge Marco affermi che il figlio Enrico gli era premorto, questa storia sembra avvicinarsi maggiormente alla verità giacché l'unica possibilità di trovare testimonianze relative alla famiglia del C. è cercare sotto la voce Righi e non Corner: così il testamento (1460) del nonno, Giacomo Righi, e così l'anonimo compilatore di un Libro di nozze e origini delle famiglie nobili (Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 538 (= 7734), c. 38 a) che a proposito del matrimonio di Chiara, l'unica figlia del C., scrive, pur sbagliando il nome del padre della sposa: 1537. Ser Zuanne Corner di ser Fantin de ser Girolamo da la Pischopia in la fia de ser Jacomo Corner da Padoa diti dirjgi".
In ogni caso, i genitori del C. abitavano sicuramente a Venezia, e veneziano era pure il fratello della madre, don Alvise Angelieri, presso il quale, a Padova, egli venne inviato ancora bambino, nel 1489. Nella città euganea l'Angelieri godeva di una cospicua posizione economica, consistente in due canonicati e un gran numero di case, campi, livelli, situati per lo più nel basso Padovano, tra Este e Chioggia. Sappiamo poco della giovinezza del C.: lo zio, che in fondo era anche uomo di cultura, l'avviò prima allo studio delle lettere e poi della giurisprudenza (la sua presenza tra questi studenti è documentata per gli anni 1504-05), ma senza gran frutto.
Il C. non riuscì infatti a laurearsi: spirito dotato di notevole intuizione e di buone capacità sintetiche, era portato essenzialmente alla realizzazione pratica, a tradurre subito in forme concrete e visibili il frutto delle proprie applicazioni, e non ad esercitarsi in un quotidiano sforzo di analisi e di astratta sistemazione di concetti per lo più avulsi dalla realtà. Si spiega così la sua insofferenza per lo studio del diritto, che dava luogo a vere e proprie manifestazioni di nevrosi ("io nacqui molto collerico, talché non si poteva praticare meco": Discorso secondo, in Fiocco, p. 182) e - paradossalmente - l'abilità di cui seppe nel contempo dar prova, esercitando privatamente la professione avvocatesca, pur senza averne titolo.
La morte dello zio (1511), ma soprattutto la sua eredità, toccatagli quasi per intero (il fratello Giacomo ebbe invece i beni materni), costituirono una svolta nella vita del C., che da allora si trovò ad affrontare nuove responsabilità, ma con i mezzi convenienti per superarle e scoprire la propria via al raggiungimento dei successo. Per prima cosa, tentò di ottenere il riconoscimento della nobiltà, forse nell'intento di intraprendere la carriera politica: d'altronde, negli anni della travagliata riconquista della Terraferma che seguirono alla disfatta di Agnadello (1509-1517), con le campagne continuamente percorse dagli eserciti, non era possibile che il C., pensasse seriamente a una valorizzazione della proprietà fondiaria ereditata dall'Angelieri.
Ritenne anche di dar maggior forza alla sua richiesta creando un precedente giuridico, anticipando cioè il verdetto della magistratura che doveva giudicarlo con quello della massima autorità finanziaria, i Savi alle decime. Così, nell'agosto 1514, in occasione della nuova redecima, anziché iscriversi ai meno onerosi fuochiesteri, denunciò ai Savi sei case a Padova, oltre 300 "campi" a Piove di Sacco - Codevigo, numerosissimi livelli, "anchora che io non sea obligato, ma perché se otegno quel che desidero, videlicet de provar la nobilità mia, son per vegnir ad habitar in questa terra. E però ritrovandomi al prexente per questo in questa terra et con bona speranza de esser provato, la produgo con reservation de le mie raxon, perché non provandomi son per tornar a Padova, como per avanti za anni 25 continue ho habitato".
La risposta del magistrato tardò quattro anni a giungere, e fu negativa, ma per il C. rappresentò una delusione salutare: se la patria desiderata lo respingeva, ebbene, egli non sarebbe vissuto da veneziano, ma da padovano. Un colto, ricco, importante padovano. L'anno prima, nel 1517, aveva sposato Veronica Agugia di Giovanni, la cui dote aveva costituito un ulteriore incremento delle sue proprietà immobiliari. Ad esse prese a dedicarsi intelligentemente, divenendo quasi il precursore di quella prima riscoperta della terra che interessò il Veneto tra la pace di Noyon e il congresso di Bologna.
Purtroppo siamo privi del trattato sull'agricoltura che nell'autoelogio egli afferma di aver scritto, e pertanto non siamo in grado di conoscere a quali criteri il C. si ispirasse tanto nei rapporti con i suoi contadini di Codevigo, quanto nella valorizzazione dei fondi; senz'altro è da escludere la bonifica di quasi mille "campi" che dichiara di aver effettuato nel corso di due anni, subito dopo l'abbandono dell'avvocatura, ma pare altrettanto sicuro che il periodo 1518-28 fu decisivo per il consolidamento della posizione economica e sociale del C., come dimostrano le polizze d'estimo presentate nel 1544 e 1562, pressoché identiche.
Già dal '24 Giovan Maria Falconetto aveva costruito per il C. la loggia e l'auditorio nella casa di via del Santo, che da allora divenne il centro di una piccola "corte" di artisti; lì, tra i giardini della villa, nella "foresteria", accanto a lui sarebbero a lungo vissuti il Beolco, l'Alvarotto, e poi lo stesso Falconetto assieme ai figli e al nipote, lo stuccatore Ottaviano Ridolfi, e ancora lo stuccatore Giovanni da Udine e lo scultore Francesco Segala e anche Tiziano Aspetti e Domenico Campagnola, il teologo e oratore Cornelio Musso, il letterato e poeta Pierio Valeriano e altri artisti e uomini di cultura che il mecenate trattava piuttosto come amici che servitori, al punto di voler essere seppellito accanto al Falconetto, il cinquantenne pittore veronese che egli aveva saputo scoprire e valorizzare.
Né l'odèo di via del Santo rispondeva solo ad esigenze estetiche: attraverso i suoi giochi chiaroscurali, le aperture che davano sul cortile, sulla stalla, sui depositi ed i giardini, Ruzzante ed i suoi comici avevano a disposizione uno spazio scenico multiforme e suggestivo, quantomai adatto alla riproduzione dei luoghi agresti; e infatti a casa Corner le rappresentazioni in dialetto pavano divennero consuetudine.
È probabile, dunque, che il C. abbia avuto parte nell'ideazione del complesso; del resto, il suo Trattato dell'architettura rivela la mano di un competente.
Sua intenzione è di prendere in esame un aspetto della materia che Vitruvio aveva ignorato: l'abitazione privata doveva rispondere ad esigenze di bellezza, ma anche di solidità e comodità, convinto com'era il C. che il fatto di vivere in edifici ben progettati gli avesse consentito di mantenersi in buona salute fino ad età avanzata. Le preoccupazioni per il risparmio, la facilità di manutenzione, la salubrità, che egli esterna nel Trattato, sipossono infatti ritrovare in tutte le costruzioni da lui commissionate al Falconetto, dalla casa di via del Santo alle ville rustiche ("Se un gentiluomo vuol sapere come si fabbrica nella città venga a Casa Cornara in Padova; se vuol edificare in villa vadi a Codevigo e a Campagna, chi vuol fare un palazzo da principe vadi a Luvigliano": così il pittore Francesco Marcolini), assieme ad un originale istintivo gusto per la simmetria, la razionalità (a suo dire, i fregi scolpiti erano inutili, perché la basilica del Santo, che non li possedeva, era più bella di quella di S. Giustina, che invece poteva esibirli) e la valorizzazione dell'ambiente circostante (indiscutibilmente suggestivo, anche se di impossibile attuazione, il suo progetto per un teatro di marmo che sorgesse dall'acqua proprio nel bacino di S. Marco, a Venezia, tra la piazza, la punta della Dogana e l'isola di S. Giorgio).
Casa Corner, dunque, come laboratorio culturale, cenacolo di esperienze teatrali, architettoniche, letterarie, ma anche come centro di "fronda" antiveneziana, punto di convergenza di personalità legate a sentimenti municipalisti e filoimperiali: Falconetto, durante l'occupazione asburgica di Verona, nel 1509, aveva dipinto sulla facciata di varie case l'aquila di Massimiliano; Ruzzante aveva avuto due fratelli incarcerati dalla Repubblica in seguito a quelle vicende. La loggia, completata nel '24, ricorda da vicino il cortile di palazzo Farnese a Roma e costituisce, con ogni probabilità, la prima architettura veneta ispirata alla più matura rinascenza romana: è quindi possibile che essa sottintenda non pochi risvolti di quella sottile polemica antiveneziana che, di lì a poco, troverà espressione nelle realizzazioni vicentine del Palladio.
Polemica esile, però, e per di più saltuaria, destinata comunque a stemperarsi rapidamente nei molteplici legami che univano il C. alla Dominante e ai suoi rappresentanti: dal '29 al '43 egli fu amministratore dei beni del vescovato di Padova, di cui erano costantemente titolari patrizi veneziani, ed è documentata la presenza dei rettori alle rappresentazioni di commedie del Ruzzante che si tenevano nella casa di via del Santo (come la Vaccaria, nel 1533); ancora, fu probabilmente il C. ad ottenere dalla Signoria che al Falconetto fosse conferito l'incarico di costruire le porte ed altri edifici pubblici a Padova: è pensabile, allora, che i Veneziani vedessero seriamente un nemico nel C., che, se patrizio non era, non poteva neppure accampare legami con la vecchia nobiltà carrarese? O non è piuttosto più semplice credere che Venezia si sia servita proprio di questa figura, di questo circolo, per far lentamente decantare, svuotare di significato concreto i tenaci umori municipalisti dei Padovani?
Quel che è certo è che, se il ricordo del mancato riconoscimento della propria nobiltà poteva ancor esser vivo nell'animo e nella mente del C. quando affidò a Falconetto l'esecuzione della loggia, nel '29 la sua figura doveva essere in grado di fornire al ricchissimo ed influente cardinale e vescovo di Padova, Francesco Pisani, che lo nominò amministratore di quella mensa, almeno una duplice garanzia: di perfetta ortodossia politica e di esperimentata capacità nella gestione della proprietà fondiaria.
Il contratto stipulato dal C. col Pisani, il 13 sett. 1529, rivela ampiezza di respiro e notevole spirito di iniziativa: egli infatti si impegnava a versare al prelato un canone annuo di 7.000 ducati (mille in più, cioè, del precedente affittuale), col patto però che il cardinale si impegnasse a sua volta a sborsarne subito 2.00 per indurre i contadini e i lavoratori dei 4.000 "campi" del vescovato a passare dal regime di affittanza a quello di mezzadria, attraverso l'eliminazione dei piccoli affittuali e la ristrutturazione dell'agenzia in unità poderali di 50-60 "campi". Il tornaconto del C. era evidente: terminata l'epoca delle guerre, la rivoluzione dei prezzi spingeva al rialzo i prodotti agricoli, determinando utili fortissimi per chi avesse potuto disporre in proprio della campagna.
La solidità economica, ed il prestigio sociale che il C. ragionevolmente poteva ormai presumere di aver conseguito, gli suggerirono quindi di perseguire altri più ambiziosi traguardi: l'opera delle bonifiche e il conseguimento del patriziato per i suoi discendenti.
L'11 febbr. 1530 il C. entrava in società col veneziano Agostino Coletti e col padovano Francesco Forzatè per bonificare alcune valli (a suo dire, 1.600 "campi") a Santa Margherita di Calcinara, là dove il Padovano sfiora la laguna veneta. L'esecuzione del progetto, ideato dal C., ebbe presumibilmente inizio nel '33, ma l'estensione e soprattutto la direzione dei lavori, sempre più prossimi ai margini della conterminazione lagunare, allarmarono i savi alle Acque, che nel gennaio 1541 decisero un sopralluogo agli argini di Fogolara.
Per parare il probabile giudizio negativo della magistratura, il C. stese di getto un lungo memoriale alla Signoria, nel tentativo di illustrare le autentiche impellenti necessità che la conservazione della Dominante richiedeva, riconducibili tutte alla salubrità dell'aria (al momento inquinata dai miasmi delle barene), alla sicurezza del luogo (garantita dal sistema militare), alle condizioni di vita del popolo, il cui incremento demografico richiedeva almeno 45.000 staia di frumento all'anno, contro le precedenti 30.000. Bisognava dunque, a suo dire, porre un freno all'inarrestabile emorragia di pubblico denaro - tanto più gravosa in quanto la rivoluzione dei prezzi assumeva forme sempre più virulente - attraverso la riscoperta, la valorizzazione della "santa agricoltura".
Attraverso la via delle bonifiche: "Et in verità l'agricoltura del retraere è la vera archimia, perciò che si vedde che tutte le grandissime ricchezze di monasteri et di qualche privato cittadino si sono fatte per questa via, e non solamente si vede le private persone, ma le città esser fatte grandi e potenti per questo mezo. Non era il Mantoano palude? Non era il Ferrarese il medesimo? il paese di Ravena e di Cervia ? ... Dico adonque, che la Signoria Vostra, ha intorno a questa città 500 mila campi di paludi, cominciando d'Aquilegia et andando intorno questo lago infino di sopra da Fosson, et sul Trivisano, Padoano, et Polesene et oltra Po".
Senonché, con un decreto in data 23 nov. 1541, la Signoria impose il taglio degli argini, che effettivamente avevano sottratto un'estensione notevole alla laguna e all'espansione della marea. Il C. appellò la sentenza, ma per sua sfortuna la Repubblica trovò un eccezionale avvocato in Cristoforo Sabbadino, nominato proto dei savi alle Acque proprio nel '42.
Ebbe così inizio una lunga, quasi ventennale polemica tra i due, a colpi di arricordi, memorie, trattati, nella quale l'esperienza, l'abilità scientifica, la ragionevolezza del Sabbadino ebbero costantemente la meglio sulle paradossali teorie del C., che distinguendo artificiosamente tra acque dolci ed acque salse propugnava di por fine a quella che riteneva una dannosa commistione, separando nettamente la laguna con una diga tra Chioggia e Torcello e restringendo drasticamente le bocche dei lidi. In sostanza, il C. riscopriva il vecchio progetto carrarese di interramento della parte meridionale della laguna, attraverso il ritorno nei vecchi alvei del Bacchiglione, del Brenta nuovo, del Musone. Solo il nostro secolo avrebbe dimostrato pari insensibilità per la salvaguardia dell'equilibrio lagunare, ed infatti il C. parlava e scriveva pro domo sua, da quel perfetto proprietario terriero che era.
Va anche detto, però, che l'inizio degli anni '40 costituì un momento cruciale nella vita del C.: al fallimento del progetto di bonifica si sommò infatti un'aspra e costosa lite col cardinal Pisani, che aveva trovato da ridire sulla sua amministrazione.
Il 19 nov. 1541, quattro giorni prima della sentenza con cui gli veniva imposta la distruzione degli argini di Fogolara, il C. fu costretto a vendere la casa di S. Bartolomeo a Venezia e a consegnare il ricavato, assieme ad altri beni, "ad officium ... supragastaldionum ad instantiam ... cardinalis Pisani, pro liberatione". Riuscì in tal modo ad evitare il carcere, ma non ottenne quello che più gli premeva, e cioè il rinnovo del mandato di amministrazione del vescovato. La paura e il dolore di quei momenti determinarono probabilmente la morte dell'unico fratello, Giacomo (3 novembre '41), seguita ben presto da quella dell'amato Ruzzante (17 marzo '42).
Se anch'egli non venne piegato dai colpi della sorte, fu merito - com'ebbe a dire - della dieta sobria, che lo trasse dall'"humor malinconico", e del conforto trovato nella famiglia. Il 1° luglio del 1537, infatti, la sua unica figlia, Chiara, aveva sposato il patrizio Giovanni Corner, figlio di Fantino del ramo dei Corner chiamati Piscopia, con una dote di 4.000 ducati, che peraltro non venne mai pagata. Il C. infatti, preferì tenere tutto presso di sé: i ducati, la figlia, il genero e gli undici nipoti che, anno dopo anno, giunsero a rallegrare la "foresteria" di via del Santo. Veri, autentici patrizi mediante i quali il C. poté illudersi di aver in qualche modo, recuperato l'uso della nobiltà: così, riconciliato con la madrepatria, sollevato dall'amministrazione dei beni vescovili, accantonata l'attuazione delle bonifiche ai margini della laguna, egli passò l'ultimo ventennio della sua operosa esistenza tra la cura delle sue proprietà di Codevigo ed una intensa produzione saggistica, col duplice fine di divulgare i suoi ideali scientifici e culturali e di fornire un'immagine idealizzata di se stesso.
Nel '56 - l'anno in cui fu costituita la magistratura dei Provveditori sopra beni inculti - il C. diresse un nuovo memorandum al Principe per caldeggiare l'impresa delle bonifiche in tutta la Terraferma; due anni più tardi redasse il trattato sulla Vita sobria, destinato a grande fortuna, nel quale ricordava come fosse riuscito a guarire da una pericolosa malattia, contratta all'inizio delle sue fatiche di amministratore del cardinale Pisani, ricorrendo ad una dieta ispirata soprattutto alla semplicità dei cibi, che egli voleva privi di condimenti.
Nel '60, infine, dopo la morte del Sabbadino, l'unico che avrebbe potuto efficacemente controbattere sul piano della ragione la sua formidabile abilità di polemista, il C. si decise a pubblicare il Trattato di acque, che compendiava e ribadiva le sue teorie proprio nel momento in cui, nel Veneto, si moltiplicavano i consorzi di bonifica, anche se più a monte di dove egli aveva ipotizzato: Santa Giustina, Lozzo, Brancaglia, Castagnaro, Frattesina.
Morì a Padova l'8 maggio 1566 e fu sepolto nella basilica del Santo.
Fonti e Bibl.: Quasi tutte le opere del C. sono state in tempi recenti commentate e pubblicate. In particolare, per quelle di archit. si veda: G. Fiocco, A. C., il suo tempo e le sue opere, Venezia 1965, pp. 155-167 (nello stesso libro, l'autore ristampa anche la Vita sobria, i principaliscritti di idraulica e diverse lettere, ma con qualche inesattezza); per gli scritti di idraulica, Antichi scrittori di idraulica veneta, a cura di R. Cessi, II, parte I, Venezia 1930, pp. 83-87, 114-117, 120-122, 219-233; parte II, Venezia 1941, pp. 3-69 (seguono, in risposta, le contestazioni del Sabbadino); per quelli di igiene, P. Molmenti, Luigi Cornaro e la vita sobria, in Curiosità di storia venez., Bologna 1919, pp. 177-256 (segue, a pp. 257-280, un Elenco delle edizioni ital. e delle trad. della "Vita sobria");l'elogio funebre, assieme a una lettera al vescovo Alvise Corner, gran commendatore di Cipro, ed a quella allo Speroni del 2 apr. 1542, in E. Menegazzo, Tre scritti di A. C., in Tra latino e volgare. Per C. Dionisotti, II, Padova 1974, pp. 602-613; i testam., in P. Sambin, I testamenti di A. C., in Italia medievale e uman., IX (1966), pp. 295-385. La più recente, autorevole sintesi biografica è data da E. Menegazzo, A. C.: un veneziano del Cinquecento nella terraferma Padovana, in Storia della cultura veneta, III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, II, Vicenza 1980, pp. 513-538, mentre un'articolata indagine sui diversi aspetti della personalità e del ruolo assunto dal C. nell'ambito della civiltà veneta cinquecentesca è offerta dal catalogo della mostra organizzata dal Comune di Padova, in occasione delle manifestazioni per l'anniversario dell'anno palladiano: A. C. e il suo tempo, a cura di L. Puppi, Padova 1980. Si vedano inoltre: Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, III, p. 33; Venezia, Bibl. naz. Marc., Mss. It., cl. VII, 15 (= 8304): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, I. cc. 325r., 332v; F. Sansovino, Venetia città nobiliss. et singolare, Venetia 1663, pp. 599, 602; A. M. Graziani, De vita Ioannis Francisci Commendoni, IV, Parisiis 1669, pp. 16 s.; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Venez., VI, Venezia 1853, pp. 687-698; E. Lovarini, Le ville edificate da A. C., in L'Arte, II (1899), pp. 197202; A. Mortier, Un mécène de la Renaissance ital., in Etudes italiennes, Paris 1930, pp. 5-19; R. Cessi, A. C. e la bonifica venez. nel sec. XVI, in Rendiconti della R. Accad. nazionale dei Lincei. Classe di scienze morali, stor. e filologiche, s. 6, XII (1936), pp. 301-323; G. Fiocco, La casa di A. C., in Miscell. in onore di R. Cessi, Roma 1958, pp. 69-77; A. Stella, La proprietà eccles. nella Repubblica di Venezia dal sec. XV al XVII, in Nuova Riv. stor., XLII (1958), pp. 66 s., 70; A. Chastel, Cortile et théatre, in Le lieu théatral à la Renaissance, a cura di J. Jacquot, Paris 1964, pp. 41-47; E. Menegazzo, Ricerche intorno alla vita e all'ambiente del Ruzante e di A. C., in Italia medioevale e umanistica, VII (1964), pp. 180-220; P. Sambin, Altre testimonianze (1525-1540) di Angelo Beolco, ibid., pp. 221-245; A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta de '400 e '500, Bari 1964, p. 308; G. Carnazzi, Posizione stor. del Ruzzante e i suoi rapporti con A. C. e gli influssi della satira rusticale, in Ateneo veneto, V (1965), pp. 45-67; E. Menegazzo, Altre osservazioni intorno alla vita e all'ambiente del Ruzante e di A. Cornaro, in Italia medioevale e umanistica, IX (1966), pp. 229-263; G. Liberali, Il "papalismo" dei pisani "dal banco", Treviso 1971, p. 94; N. Mangini, I teatri di Venezia, Venezia 1974, pp. 26 ss.; F. L. Maschietto, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia (1646-1684) prima donna laureata nel mondo, Padova 1977, pp. 4 s., 13 s., 19, 23, 43, 50, 58, 63, 145 ss., 215, 237; O. Logan, Venezia, Cultura e società 1470-1790, Roma 1980, ad Indicem;S. Ciriacono, Scrittori d'idraulica e politica delle acque, in Storia della cultura veneta,III, Dal Primo Quattrocento al Concilio di Trento, II, Vicenza 1990, pp. 503, 508-512.