GRADENIGO, Aluica (Alvica, Ludovica)
Figlia di Nicolò (Nicoletto), figlio di Pietro, il doge della "serrata", e di una Fiordilise, della quale non si conosce il casato, nacque a Venezia quasi certamente entro la prima decade del XIV secolo. Si hanno pochissime notizie sulla sua vita privata e familiare. Ebbe almeno due sorelle, Caterina, che morì sicuramente prima del 1335, ed Engoldise. Intorno al 1335 si sposò con Marino Falier, di parecchio più anziano di lei, portandogli in dote ben 4000 lire. Il futuro doge aveva sposato in prime nozze Tommasina Contarini, che gli aveva dato almeno una figlia, Lucia. Dal matrimonio con la G. non ebbe invece figli.
La vicenda umana della G. sarebbe certamente passata in secondo piano rispetto a quella del marito se ella non fosse stata coinvolta nella disgraziata fine del doge, ispiratore e protagonista nel 1355, almeno secondo gran parte della storiografia ufficiale, di un confuso quanto maldestro tentativo di farsi signore di Venezia e per questo condannato a morte dal Consiglio dei dieci e decapitato in tutta fretta a palazzo ducale. Anzi, come voluto da gran parte delle cronache, posteriori però alla narrazione di Marino Sanuto, proprio la condotta licenziosa della dogaressa avrebbe occasionato la gelosia e il risentimento dell'anziano Marino Falier, e quindi innescato il fuoco della congiura antinobiliare da questo promossa: "Furono trovate scritte sulla sua cadrega ducale queste parole: "Marin Falier doge da la bela moier, altri la galde et lui la mantien". Et fo incolpado uno Michiel Sten, ch'era cao di 40, il qual fu preso per gli avogadori in Quarantia di ritenir, ma poi fo batudo con una coa di volpe, bandito a compir un mexie in prexon et pagar cento lire al Comun. Di che el doxe avé molto a mal" (Sanuto).
A partire dal racconto del Sanuto la vicenda venne dunque ripresa con minime varianti dai più celebri cronisti e storiografi veneziani, i quali, del tutto acriticamente, addossarono alla G. l'accusa di adulterio e quindi la causa prima della congiura. Non così i cronisti coevi o di poco posteriori agli avvenimenti, Rafaino Caresini, Lorenzo De Monacis, Antonio Morosini e Nicolò Trevisan su tutti, che si limitarono a riferire alcune espressioni ingiuriose rivolte al doge, senza coinvolgere in alcun modo la dogaressa e i suoi costumi. Il fatto, secondo la tradizione più accreditata, avrebbe avuto luogo la sera del giovedì grasso del 1355 (12 febbraio), e ne sarebbero stati responsabili alcuni giovani patrizi, guidati da Michele Steno, anch'egli poi destinato a cingere la berretta dogale, particolarmente adirato nel confronti del Falier, al punto da rischiare più del lecito pur di vendicarsi di alcuni torti, o presunti tali, subiti. Tra le due famiglie, quella dei Falier e quella degli Steno, in ogni caso da tempo non correva buon sangue, a dimostrazione delle profonde divisioni che attraversavano il patriziato veneziano nei decenni immediatamente successivi alla "serrata" del Maggior Consiglio.
La vicenda, così come è riferita dal Sanuto e ripresa da quelli che a lui attinsero, fino alle versioni più o meno romanzate elaborate dalla narrativa e dal melodramma ottocenteschi, presenta molteplici e affatto insanabili contraddizioni, a cominciare proprio dalla cronologia degli avvenimenti, almeno secondo l'accurata ricostruzione fattane da Riccardo Fulin, che ha anticipato al novembre del 1354 il controverso episodio, origine prima della disgrazia del Falier, escludendo per di più qualsiasi coinvolgimento della dogaressa; e sulla medesima falsariga sembra convergere anche Vittorio Lazzarini.
Un'altra conferma, indiretta, ma documentaria e più attendibile, sembra venire anche dal testamento di Marino Falier, dettato il 17 apr. 1355 al notaio Pietro de Compostellis. Ormai prossimo a morire, il doge istituì la moglie unica esecutrice delle sue ultime volontà, e a lei affidò quelle opere di carità che sole il Consiglio dei dieci gli lasciò ordinare. Un'attestazione di stima e di fiducia - senza voler assolutamente parlare d'amore - che certo un tradimento coniugale e una condotta di vita licenziosa e per nulla conveniente alla dignità dogale non avrebbero contribuito a mantenersi inalterate nel tempo. Se veramente il Falier fosse venuto a conoscenza, anche attraverso un anonimo, becero e squallido avviso, che la moglie ben più giovane di lui e ancora piacente lo tradiva in continuazione, e se ne fosse fatto convinto, non avrebbe certo raccomandato proprio a lei le sue estreme disposizioni, ma piuttosto alla figlia Lucia, oltretutto di primo letto. E poi, può essere davvero sufficiente a scatenare un colpo di Stato dagli esiti quanto mai incerti un'offesa non punita a dovere, per quanto calunniosa e diffamatoria? Sospettoso e magari anche un po' troppo geloso l'anziano doge forse poteva esserlo stato realmente; ingenuo al punto tale da rischiare la vita in una sollevazione contro la costituzione oligarchica per vendicare il proprio onore così gravemente compromesso, lui che aveva percorso tutte le tappe di un cursus honorum particolarmente significativo e che a suo tempo si era particolarmente distinto nella repressione della congiura Querini-Tiepolo, appare difficilmente sostenibile.
Sembrerebbe pertanto doversi escludere non solo qualsiasi responsabilità più o meno indiretta della G. nelle trame confuse e torbide dei giochi di potere che portarono il vecchio Marino Falier a finire i propri giorni sotto la mannaia del carnefice, ma anche il suo eventuale coinvolgimento in una vicenda dai contorni solo apparentemente passionali, che riguardava piuttosto i pessimi rapporti interfamiliari tra i Falier e gli Steno, e dai quali lei, nata Gradenigo, non poteva in alcun modo venire sfiorata. Semmai fu proprio la G., vittima incolpevole della ragion di Stato, a subire, con la insinuazione e l'infamante accusa di adulterio, le conseguenze negative di una lotta per il potere senza esclusione di colpi che insanguinò Venezia per tanta parte del secolo XIV. Lotta per il potere che vide, oltre tutto, il casato d'origine della dogaressa palesemente coinvolto nei ripetuti conati oligarchici che occasionarono in successione diretta la "serrata", la congiura di Marco Querini e Baiamonte Tiepolo, e quella di Marino Falier. Può essere poi ritenuta solamente una singolare coincidenza il fatto che a succedere al Falier venisse chiamato un Gradenigo, Giovanni, secondo cugino della dogaressa?
Decapitato il doge traditore, bisognava screditarne a distanza di anni pure l'onore, la rispettabilità, la memoria, offendendo anche la figura e la persona della moglie. Di qui l'accanimento monocorde dei cronisti nei suoi confronti, alla ricerca forse della rima facile e dell'assonanza musicale piuttosto che della verità storica: "Marin Falier dalla bella mugier, altri la gode e lui la mantien" (Barbaro, c. 81v); "Becho Marin Falier della bella moier" (Navagero); "Quel dalla bella moglie, altri la gode et esso la mantien" (Caroldo). Di qui l'accusa infamante, gratuita e costruita ad arte, e abilmente arricchita a ogni passaggio di mano di tutti i particolari propri di un simile caso, quasi a voler dare una sorta di giustificazione morale a un feroce regolamento di conti consumatosi in seno alla classe dirigente veneziana. Fedifraga e di dubbia moralità la dogaressa, traditore della patria il doge. Se veramente Marino Falier attentò alla costituzione e ambì a farsi signore di Venezia, altre e diversamente fondate dovettero essere le sue motivazioni.
La G. sopravvisse a lungo al marito. Costretta a lasciare la casa del doge ai Ss. Apostoli, confiscata dal Comune, insieme con tutti gli altri beni mobili e immobili, per ordine del Consiglio dei dieci, cercò dapprima rifugio nella quiete del monastero di S. Lorenzo, nella contrada di S. Severo, quindi nel 1367 si ritirò a Verona, lontana dai clamori veneziani, anche se continuò a seguire a distanza i suoi affari e i suoi molteplici interessi economici, servendosi, quali procuratori, dei numerosi nipoti, tanto Gradenigo quanto Falier. Rientrata poi a Venezia, prese dimora in una casa di sua proprietà sempre nella contrada di S. Severo. Negli ultimi anni di vita, forse a causa dell'età avanzata, perse progressivamente il dono della memoria e probabilmente anche il lume della ragione, almeno a detta di gran parte di coloro che se ne occuparono, sebbene dalla lettura dei testamenti non appaia poi così evidente quella demenza senile denunciata agli avogadori di Comun dal cugino Giorgio Giustinian: "Prefata domina, jam mentis alienata […] non existens sepedicta domina Aluicha in sua sinceritate, nec penitus sana mentis et intellectus, sed tamquam mente capta et in alienatione mentis continue de die in diem deteriorata" (Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, Raspe, reg. 4, c. 33r).
Un primo testamento venne dettato il 14 ott. 1384 al notaio Pietro Spirito; un secondo fu redatto dal notaio Guglielmo de Chiarutis, poi segretario del Pregadi, il 7 marzo 1385; un terzo, risalente al 10 febbr. 1387, venne trascritto il 7 marzo seguente, viso cadavere, dal notaio Leone di Rovolone nel suo protocollo. Alla morte della G., che dunque deve essere collocata tra il 10 febbraio e il 7 marzo 1387, i parenti, interessati alla spartizione delle sue notevoli ricchezze, litigarono per l'eredità, chiesero agli avogadori di Comun e ottennero l'annullamento dell'ultimo testamento - che poteva sembrare favorevole ai soli Gradenigo - a causa dell'infermità mentale della testatrice. In esso la G. aveva affermato però di essere sana di mente e di corpo, per quanto d'età avanzata; nel ricordare il marito defunto ne taceva la dignità dogale, diversamente da quanto aveva fatto in precedenza, e, particolare quanto mai interessante, accennava alle moleste insistenze dei parenti che ambivano alla consistente eredità: "Et questo facio per le grande et continue infestacion che dicti parenti et d'altri continuamente con molti stimoli me vien dado" (Cecchetti, 1880, pp. 348 s.). Che un barlume di lucidità animasse però la vecchia dogaressa appare quanto mai evidente dal fatto che la stessa preannunciava una sorta di parola d'ordine, di chiave segreta, "Libera anima mea, Domine" [sic], a garanzia dell'autenticità di eventuali future disposizioni testamentarie. "Grido dell'anima di una povera donna tormentata nella lunga e triste vecchiaia da parenti che si affaccendavano assidui intorno a lei, aspettando che ella abbandonasse le sue ricchezze" (Lazzarini, 1893, p. 242).
Nel corso dell'Ottocento la triste vicenda umana della G., così fortemente intrisa di fermenti potenzialmente romantici, più ancora di quella politica del doge, divenne fonte d'ispirazione per musicisti, librettisti, drammaturghi, romanzieri. Basti ricordare la tragedia Marino Faliero, in cinque atti, di G. Byron, scritta proprio a Venezia nel 1820 e rappresentata per la prima volta a Londra nel 1821. Al lavoro del Byron si rifece quindi C. Delavigne per l'omonimo dramma (prima rappresentazione Parigi, théâtre de la Porte-St-Martin, 30 maggio 1829). Il 12 marzo 1835, sempre a Parigi, al Théâtre-Italien, si tenne poi la prima del Marin Faliero, dramma lirico in tre atti, musicato da G. Donizetti su libretto di G.E. Bidera, rivisto da A. Ruffini. Nell'opera donizettiana, la più lontana quanto a verosimiglianza storica, la G., diventata nel frattempo Elena, ama Fernando, nipote dell'anziano doge, in un confuso e greve intreccio di sentimenti, passioni, cospirazione politica, miserie umane, morte. Nella seconda metà dell'Ottocento videro la luce in Germania il Marino Faliero, "grosse romantische Oper" in quattro atti, di F. von Holstein, che ne compose musica e libretto, ispirandosi anche lui al Byron, senza però portare a termine il lavoro; e infine il Marino Falieri, melodramma in tre atti, musica e libretto di W. Freudenberg, rappresentato per la prima volta a Ratisbona il 29 dic. 1889.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 56: Cronaca veneta [veneziana] dall'anno 1280 all'anno 1413 attribuita a Daniele Barbaro, cc. 81v-82v, 85v; Misc. codd., III, Codici Soranzo, 21: Historia veneta scritta da Gio. Giacomo Caroldo… in forma di cronica dalla fondazione di Venetia sino l'anno 1361, c. 282v; Archivio notarile, Testamenti, Notaio Leone di Rovolone, b. 557 (testamento della G. in data 10 febbr. 1387); Avogaria di Comun, Raspe, reg. 4, c. 33r; Cancelleria inferiore, Notai, b. 180, Notaio Marco Semitecolo; b. 188, Notaio Pietro Spirito (testamento della G. in data 14 ott. 1384); b. 219, Notaio Marco della Vigna (testamento di Pietro Gradenigo in data 14 sett. 1309); Consiglio dei dieci, Deliberazioni miste, reg. 5, cc. 40v, 53v, 59v; Procuratori di S. Marco, Ultra, b. 187, n. 6; M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum Italice scriptae, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, col. 631; A. Navagero, Historia Veneta, ibid., XXIII, ibid. 1733, col. 1040; L. De Monacis, Chronicon de rebus Venetis, a cura di F. Corner, Venetiis 1758, p. 316; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, III, Venezia 1855, pp. 177 s.; B. Cecchetti, La moglie di Marino Falier, in Archivio veneto, I (1871), pp. 364-370; R. Fulin, Due documenti del doge Marino Falier, ibid., VII (1874), pp. 104-106, 108, 110; B. Cecchetti, L'ultimo testamento di Lodovica G. vedova di Marino Falier, ibid., XX (1880), pp. 347-350; P.G. Molmenti, La dogaressa di Venezia, Torino 1884, pp. 120-137; B. Cecchetti, La dote della moglie di Marin Faliero, in Archivio veneto, XXIX (1885), pp. 202-204; V. Lazzarini, Genealogia del doge Marino Faliero, in Nuovo Archivio veneto, n.s., III (1892), p. 181; Id., Marino Faliero avanti il dogado, ibid., V (1893), p. 114; Id., Marino Faliero. La congiura, ibid., XII (1897), p. 21; Id., Marino Faliero…, Firenze 1963, pp. 20, 108, 137-141, 143, 151 s., 154, 183, 239-244, 261, 270, 273 s., 277, 281; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1966, pp. 147-149; G. Pillinini, Marino Falier e la crisi economica e politica della metà del '300 a Venezia, in Archivio veneto, s. 5, LXXXIV (1968), pp. 45-71; M. Praz, Storia della letteratura inglese, Firenze 1968, p. 444; F.C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, p. 218; G. Scarabello, Le dogaresse, in I dogi, a cura di G. Benzoni, Milano 1982, p. 172; G. Cracco, Un "altro mondo", Venezia nel Medioevo. Dal secolo XI al secolo XV, Torino 1986, p. 137; Consiglio dei dieci, Deliberazioni miste, Registro V (1348-1363), a cura di F. Zago, Venezia 1993, p. 184 n. 484; G. Ravegnani, Falier, Marino, in Diz. biogr. degli Italiani, XLIV, Roma 1994, p. 437; G. Gullino, Una famiglia nella storia: i Gradenigo, in Grado, Venezia, i Gradenigo (catal.), a cura di M. Zorzi - S. Marcon, Venezia 2001, pp. 138, 141; F. Rossi, Quasi una dinastia: i Gradenigo tra XIII e XIV secolo, ibid., p. 180; Faliero Marino, in Diz. encicl. universale della musica e dei musicisti, I titoli e i personaggi, I, pp. 573 s.