Almeone
La grafia classica vuole propriamente ‛ Alcmaeon ', ma nei codici medievali si legge costantemente ‛ Almeon '. Secondo il mito antico il nome di A. è legato al matricidio di cui egli si macchiò. La madre sua, Erifile, si era convinta a rivelare a Polinice il sicuro nascondiglio del proprio marito Anfiarao, il quale non voleva partecipare alla guerra (detta " dei sette ") contro Tebe sapendo che vi sarebbe morto, come infatti accadde; l'aveva spinta a tanto il desiderio di possedere il magnifico monile di Argia, moglie di Polinice, cioè la famosa collana, fabbricata da Vulcano, che Venere aveva donata, insieme a un peplo, alla figlia Armonia per le sue nozze. Naturalmente Erifile era ignara che quella collana legava le donne che l'avessero poi posseduta (Giocasta, Semele, Argia) a un destino di sventure (cfr. Stazio Theb. II 265-305).
Molti anni dopo, desiderando ottenere anche il peplo di Armonia, Erifile spinse il figlio a partecipare alla spedizione degli epigoni contro Tebe. Al ritorno A., conosciuta la verità su quanto era accaduto al proprio padre, l'uccise. Perseguitato dalle Erinni, impazzì; né valse a dargli pace il matrimonio con Alfesibea, figlia del re di Psofi. Continuò a errare senza pace fino a che giunse alle foci dell'Acheloo; qui, rinsavito, sposò Calliroe, figlia di Acheloo, e ne ebbe due figli, Anfotero e Acarnanio. Ritornato a Psofi per recuperare la collana fatale, richiestagli da Calliroe, fu ucciso dai fratelli di Alfesibea. Il mito è tra i più citati dai poeti greci (specie i tragediografi) e latini.
D. conosce la storia della delazione di Erifile e della vendetta del figlio soprattutto dai numerosi e ripetuti accenni della Tebaide (II 265 ss., 298 ss., IV 187 ss., e passim), mentre nelle Metamorfosi si allude brevemente anche alle vicende successive (IX 406-417). Nel desiderio di Erifile di possedere quello sventurato addornamento (Pg XII 51; cfr. " infaustos... ornatus ", Theb. II 265-266) D. vede soprattutto un atto di superbia; e quindi l'episodio della morte della donna scellerata - che i poeti latini bollano aspramente (Ovid. Ars am. III 13 " scelere... Eriphylae "; Stazio Theb. VIII 120-121 " nefanda... coniunx "; XII 123 " impia coniunx ") - è scolpito sul pavimento del primo girone purgatoriale, tra gli esempi di superbia punita (Pg XII 50-51). Quel matricidio è ricordato ancora in Pd IV 103-105: Beatrice, distinguendo tra volontà assoluta e volontà condizionata, afferma che molte volte, dovendo scegliere, l'uomo è costretto a fare, sia pure contro voglia, ciò che non dovrebbe, e che tuttavia in quella contingenza costituisce il male minore: come A. che si fé spietato, venne meno all'amore filiale uccidendo la madre, per non perder pietà, per non venir meno ai suoi doveri verso la memoria del padre (il quale morendo aveva auspicato, e predetto, di essere da lui vendicato; cfr. Theb. VII 787-788 " tibi, Phoebe... / pulchrum nati commendo furorem "; la precisazione di D., di ciò pregato / dal padre suo, è pertanto inesatta). L'espressione dantesca ricalca il giudizio ovidiano: " ultusque parente parentem / natus erit facto pius et sceleratus eodem " (Met. IX 407-408). L'assoluto silenzio sulle successive vicende di A., cui pure si accenna proprio in quel passo delle Metamorfosi, si spiega in quanto D. anche per questo episodio guarda, più che ad A., ad Anfiarao, che è personaggio di notevole rilievo della Tebaide. Le due citazioni si prestano infine a un'analisi del giudizio dantesco sulla liceità della vendetta (cfr. If XXIX 31-36): tenendo presente che D. trovava apprezzamenti positivi sull'operato di A. già nei poeti latini (cfr., ad esempio, Theb. II 305). V. anche ANFIARAO.