ALLOFENE.
Il termine a. venne coniato dalla ricercatrice statunitense B. Mintz, intorno agli anni Sessanta, per indicare quegli animali che si possono far sviluppare da embrioni ''sintetici'', cioè formati dall'aggregazione in vitro di blastomeri geneticamente diversi. L'autrice aveva compiuto approfonditi studi sugli embrioni di mammifero e le sue ricerche erano principalmente volte alla comprensione dei fenomeni che accompagnano lo sviluppo dell'embrione, e quindi dell'intero organismo, l'invecchiamento, la patologia cellulare in generale e in particolare quella tumorale.
La blastocisti è una struttura embrionale che si sviluppa dalla morula, all'incirca tre giorni dopo la fecondazione, tramite successive divisioni. È costituita da alcune decine di cellule (i blastomeri) ed è la blastula modificata caratteristica dei mammiferi placentati. La blastocisti presenta una cavità, al cui interno si è formato un cumulo eccentrico di cellule, la massa cellulare interna, e che è racchiusa da uno strato di cellule appiattite, chiamato trofoectoderma o trofoblasto. Dalla massa cellulare interna si sviluppa l'embrione vero e proprio, mentre dal trofoblasto si forma la placenta con gli altri tessuti di sostegno e nutrimento del feto. Da questo momento in poi, per permettere alla blastocisti di continuare il suo sviluppo, è necessaria la cavità uterina materna: al di fuori degenera e muore.
La tecnica messa a punto dalla Mintz è molto semplice: mentre sono ancora in corso le prime divisioni cellulari, due embrioni a genotipo diverso, nati da due coppie di genitori omozigoti per un allele dominante e uno recessivo e a fenotipo distinguibile, vengono espiantati dall'utero materno e privati del loro involucro, la zona pellucida, mediante trattamento con enzimi proteolitici. I due embrioni denudati vengono messi in contatto a 37 °C: a questa temperatura si crea una stretta adesione tra i loro blastomeri, che origina una blastocisti più grossa, all'incirca doppia rispetto a quelle di partenza, e geneticamente ibrida. È possibile ritrasferire chirurgicamente questa blastocisti in una madre portatrice resa pseudo-gravida, in quanto in essa è stata indotta una condizione simile alla gravidanza per somministrazione di ormoni quali lo stimolatore del follicolo (FHS) e il luteinizzante (LH). In animali così trattati la blastocisti attecchisce, ritorna a dimensioni normali e si sviluppa in un animale allofenico (fig. 1).
In vitro la sperimentazione diretta sull'embrione può avvenire solo nelle fasi che precedono l'impianto. In queste fasi gli studi sono particolarmente utili in quanto le singole cellule della blastocisti sono totipotenti; ciò significa che ciascuna cellula potrebbe svilupparsi in uno qualsiasi dei suoi organi o tessuti e, in teoria almeno, in un organismo completo. In più, queste cellule embrionali sono estremamente resistenti alle manipolazioni; bastano infatti poche cellule embrionali per portare a termine il programma ontogenetico dell'ovocita fecondato: queste cellule sono infatti totipotenti. Al fine di studiare il destino delle singole cellule dell'embrione e delle popolazioni clonali che se ne sviluppano, la Mintz si era chiesta come fosse possibile far coesistere nello stesso individuo cellule geneticamente diverse ma al tempo stesso coeve, nel senso che fossero entrate a far parte dello stesso organismo allo stesso tempo, e non per es. in seguito a un trapianto di singole cellule in un organismo a sviluppo già avanzato.
Lo scopo di tale ricerca era duplice: poter seguire il corso dello sviluppo, della patogenesi e dell'invecchiamento mediante lo studio di cellule e di cloni cellulari ''marcati'' in modo appropriato (grazie alla presenza di mutazioni a fenotipo distinguibile), e inoltre conservare e individuare le relazioni funzionali caratteristiche dei diversi livelli organizzativi di un organismo complesso come un mammifero.
Risposte, seppur parziali, a queste domande vennero con la produzione di animali allofenici, in particolare topi. La frequenza di successo in queste operazioni è piuttosto alta: nei topi può arrivare al 50% delle blastocisti impiantate. L'organismo che si forma e nasce nel giro di una quindicina di giorni è 'allofenico' in quanto presenta un fenotipo eterogeneo, determinato dai diversi genotipi delle cellule primordiali dalle quali deriva il tessuto, o il frammento di tessuto in esame. Così i topi allofenici più frequentemente prodotti esibiscono un mantello variegato a strisce del colore proprio di una o dell'altra coppia di genitori, scelti in quanto omozigoti per i due alleli dei geni che controllano la pigmentazione dei melanoblasti: una coppia è albina, l'altra è normale (fig. 1: con inserto di foto). È interessante osservare che le striature, non sempre nettissime, si presentano per lo più ortogonali all'asse antero-posteriore del corpo, seguendo un processo di sviluppo la cui determinazione molecolare pare prossima alla comprensione soprattutto per gli insetti, grazie agli studi effettuati sui geni omeotici e di controllo della segmentazione in Drosophila.
Uno dei problemi degli animali allofenici è che non possono essere propagati come tali per riproduzione sessuale, in quanto le cellule germinali derivano dall'una o dall'altra blastocisti parentale che erano state inizialmente aggregate, come verificabile in esperimenti di incrocio con animali a genotipo recessivo per il carattere in esame (per es. ancora il colore del mantello), e quindi andrebbero rifatti o, per usare un termine adottato dalla Mintz, "risintetizzati" ogni volta. Questo non diminuisce però l'importanza della tecnica, in quanto gli a. restano un utile sistema per lo studio delle interazioni tra cellule patologiche (quali quelle neoplastiche) e cellule sane, per studi di tolleranza immunologica, oltre che ovviamente per indagini sui meccanismi dello svi luppo.
Un impiego per ora limitato a semplice curiosità di laboratorio, ma potenzialmente suscettibile di applicazioni di ragguardevole importanza zootecnica, è quello che fa uso di embrioni di specie diverse per produrre animali suggestivamente definiti come ''pecapra'' o ''zeballo'', moderne chimere derivate dalla fusione di embrioni rispettivamente di pecora e capra, e di zebra e cavallo: la fig. 2 mostra lo schema seguito per la formazione di una pecapra. Le chimere devono essere rese immunologicamente tollerabili alle madri, grazie alla sintesi di un trofoectoderma omologo rispetto alla portatrice: ciò è possibile con un delicato lavoro di accostamento manuale delle cellule esterne.
La pratica delle manipolazioni embrionali che hanno portato agli animali allofenici si può comunque prestare a impieghi diversi e utili: basti pensare alla possibilità di indurre la super-ovulazione in femmine di specie in estinzione, o comunque rare, e di produrne in vivo o in vitro blastocisti che, impiantate con gli opportuni accorgimenti in portatrici, consentono di riprodurre in questo modo un elevato numero di individui. Oppure si può prelevare un piccolo numero di cellule trofoblastiche da una blastocisti pre-impianto, e procedere su queste a saggi di tipo biochimico, citologico o genetico che permettano di individuare nell'embrione difetti trattabili prima dell'impianto.
Oggi l'importanza degli animali allofenici appare forse ridotta a seguito della disponibilità degli organismi transgenici (v. biotecnologia, in questa Appendice) ottenibili per introduzione di geni ben caratterizzati in ovociti fecondati o in cellule embrionali staminali totipotenti; ma per indagini originali sull'interazione di cellule geneticamente diverse nello sviluppo fisiologico e patologico dei mammiferi, oppure per studi di incompatibilità riproduttiva, uno strumento originale e difficilmente sostituibile è ancora quello costituito dagli animali allofenici, figli di quattro genitori (se non di cinque, se si vuole includere tra questi anche la madre adottiva o portatrice) pioneristicamente avviato negli anni Sessanta da B. Mintz.
Bibl.: B. Mintz, Genetic mosaicism in vivo: development and disease in allophenic mice, in Federation Proceedings, 30 (1971), pp. 935-43; C. B. Fehilly, S. M. Willadsen, E. M. Tucker, Interspecific chimaerism in sheep and goat, in Nature, 307 (1984), pp. 634-36; S. Meinecke-Tillmann, B. Meinecke, ibid., pp. 637-38; G. Evans, Testtube embryos, in New Scientist, 19 novembre 1987, pp. 1-4; V. G. Purcel e altri, Genetic engineering of livestock, in Science, 244 (1989), pp. 1281-87.