allitterazione
Denominazione umanistica dello schema indicato dagli antichi con homeoprophoron e dysprophoron, che designano rispettivamente la ripetizione di una lettera o di un gruppo di lettere in una serie di parole, e in particolare all'inizio o alla fine di ciascuna parola. Considerata nelle " arti poetiche " un vitium da evitare e una ricercatezza da perseguire con moderazione (cfr. Goffredo di Vinsauf Poetria nova, vv. 1926 ss.), l'a. riguarda soprattutto la ripetizione di alcune consonanti quali m (mytacismus), l (lambdacismus), s (polysigma), ma può estendersi fino a comprendere l'accostamento di parole della stessa radice (che rientra propriamente nella paronomasia-annominatio) e l'omoteleuto. L'esame dell'a. va ristretto alla ripetizione di consonanti o di nessi consonantici, e talora di sillabe, quando queste ultime non costituiscano la radice del vocabolo, quando cioè la ricerca mira a un puro effetto fonico. L'individuazione di questa sottile ricerca, che il testo dantesco sembra più che mai favorire, può condurre a esagerazioni, a dar cioè consistenza ‛ retorica ' a casuali combinazioni, ovvero a forme che il poeta tollerava, seguendo la dottrina retorica, più che affettare deliberatamente. In ogni modo, il valore dell'a. si riduce sovente, più che a una funzione poetica ed espressiva, a una necessità didattica, a sollecitare cioè, secondo l'uso della scrittura biblica e medievale, l'attenzione del lettore. Talché, mentre la lirica dantesca, fondata sopra un modello di dolcezza e di leggiadria, non si vale che raramente di questo schema, e in forme assai moderate, e la prosa volgare se ne vale maggiormente, quasi a creare quel complesso di corrispondenze musicali necessario a legare l'oratio soluta, la Commedia è riccamente intessuta di a. che hanno una duplice funzione, espressiva e didattica, e la prosa latina delle Epistole, richiamandosi alla consueta ricercatezza del genere epistolare, accoglie l'a. con particolare frequenza rispetto alle altre scritture latine. In generale D. preferisce l'annominatio all'a., ossia la ripetizione variata del vocabolo alla materiale ripetizione della lettera singola.
Nelle rime della Vita Nuova prevale il mytacismus, che diffonde una certa vibrazione intorno alla parola ‛ amore ':... si movea d'amoroso tesoro; / ond'io pover dimoro (VII 5 14-15); un spirito amoroso che dormia (XXIV 7 2); e sì come la mente mi ridice, / Amor mi disse: "Quell'è Primavera, / e quell'ha nome Amor, sì mi somiglia" (9 12-14). Ma la medesima risonanza ottiene tale a. ripetuta in posizione di rilievo in Tanto gentile: ogne lingua deven tremando muta (XXVI 5 3), dove non va esclusa la duplice nasale precedente, e da cielo in terra a miracol mostrare (6 8). La ripetizione della v contribuisce certo alla levità espressiva perseguita nel libello, ma si raccoglie soprattutto intorno alla radice di vedere ', che è termine chiave di tutta l'operetta: d'orine valor voto, / vegno a vedervi (XVI 9 10-11); vidi venir (XXIV 7 3); vidi Monna Vanna... / venir inver lo loco la 'v'io era (8 9-10); venite voi... / .., com' a la vista voi (XL 9 3-4).
Ma non mancano naturalmente altre allitterazioni come e poco stando meco (XXIV 8 7), che è propriamente un omoteleuto al limite con la paronomasia, in un sonetto particolarmente ricco di ricerche foniche.
La prosa della Vita Nuova si arricchisce di risonanze soprattutto attraverso il ripetersi di desinenze simili, che a volte genera una monotonia e può talora riguardarsi come difetto del prosatore non ancora pienamente esperto. E tuttavia l'affettazione e il compiacimento possono rintracciarsi in un'a. come la seguente: cominciaro a parlare tra loro; ... mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri (XVIII 5). Caratteristica è anche nella prosa l'a. della dentale, che sottolinea certe immagini, come coronata e vestita d'umilitade s'andava (XXVI 2), che nei versi era stata risolta con appena un accenno di tale ricerca (benignamente d'umiltà vestuta, 6 6). Così in mi sopragiunse uno soave sonno (III 3) l'evidente affettazione del polysigma deve essere stata voluta per l'effetto che il suono poteva produrre in rapporto all'immagine del dolce assopimento.
Nelle Rime, a parte certe a. tipiche del linguaggio dolce della lirica, cui si è accennato (cfr. pregio di saver portate; / per che, vitando aver con voi quistione, XL 2-3, e in XLII 6 una simile combinazione: saver ver voi), sono notevoli le a. che s'incontrano in corrispondenza con lo sviluppo di temi aspri, come in LXVII 60-62 (la mia persona pargola sostenne / una passion nova, / tal ch'io rimasi di paura pieno), in X CV 3-5 (nel fiume lombardo / cader suo figlio, fronde fuor n'elice; / ma frutto no), in cvr 60-61 (per merlo, / per voi, non per me certo). Tuttavia la durezza di alcune Rime (cfr. CIII 1 Così nel mio parlar voglio esser aspro) non è fondata se non in minima parte sull'a., che è rilevabile ma non particolarmente accentuata (ad es.: parlar... esser aspro; la lor vertù sì che n'allenta l'opra, 34; vespero e squille, 69; fuggir... mi face, 77).
Non è il caso di soffermarsi sulla prosa del Convivio, meno cosparsa di a. rispetto a quella del libello giovanile, ma sicuramente aperta a certe esterne ornamentazioni per l'esigenza di evidenziare i concetti. Di fatti nell'indicare le ragioni del commento in volgare D. sottolinea in questo modo il fondamento morale della sua scelta: sanza essere domandato lo dono, dare quello (I VIII 2); e nel costruire l'immagine della Filosofia come feconda nutrice D. insiste sulla comune a. che accosta ‛ fiori ' e ‛ frutti ': Filosofia, li cui raggi fanno ne li fiori rifronzire e fruttificare la verace de li uomini nobilitade (IV I 11). Così la ripetizione della v viene sfruttata per sottolineare un concetto su cui già insiste la paronomasia: e nulla cosa veramente veggiono vera (XV 15).
Nemmeno nelle Epistole, in cui la ricerca retorica è più propensa alle forme dell'ornamentazione esteriore, l'a. appare eccessiva; e tuttavia essa è più frequente che nelle altre opere latine. L'Epistola V, particolarmente impegnata per esser diretta a tutti i signori d'Italia e ai senatori romani, può considerarsi un esempio tipico: inizia infatti con una forte a. (signa surgunt consolationis et pacis) e procede dosando sapientemente lo schema, sì che esso si avverte appena, mentre in realtà sottolinea la rarità di certe figurazioni: aurae orientales crebrescunt; rutilat coelum in labiis suis, et auspitia gentium blanda serenitate confortat (§ 2). Interessante risulta la combinazione dell'a, della v e della r in v 16 (in viriditate vestra terra vernante) e 3 (cum illa iubar ille vibraverit, revirescet). Anche l'Epistola all'imperatore Enrico VII presenta a. che possono citarsi fra le più tipiche e le più evidentemente affettate: nel primo periodo l'alternarsi di una coppia di sillabe pone l'accento sulla dolcezza della pace divina: ut in sua mira dulcedine militiae nostrae dura mitescerent (VII 2). Altrove la triplice ripetizione non lascia dubbi sull'intenzione di servirsi dell'a. per porre l'accento sui concetti più notevoli: Haec est vipera versa in viscera (VII 24), ricerca ripetuta, sebbene con un più ampio intervallo, in VII 26 (Vere... evaporante ... vitiantes ... vicinae); male ausa luendo laqueo se suspendit (24).
Quel che caratterizza l'a. nella Commedia è la varietà del suo impiego e la più ampia funzione espressiva cui essa è destinata. Sono naturalmente più comuni i casi in cui l'a. serve semplicemente a dar rilievo alla parola centrale di un'immagine o al verso: Dimmi, maestro mio, dimmi segnore (If IV 46); caddi come corpo morto cade (V 142), dove la particolare ripetizione di ‛ cade ' (che è una reflexio) accentua l'immagine (così come in If XIII 68 la ripetizione del verbo e li 'nfiammati infiammar sì Augusto); sanza tempo tinta (III 29); e poco par che 'l pregi (XIV 70); tanta che tardi tutta si dispoglia (XVI 54); che la mia comedìa cantar non cura (XXI 2); per lo furto che frodolente fece (XXV 29); dannò Minòs (XXIX 120); esta fiera è fatta fella (Pg VI 94); del non ver vera rancura (X 133); e' marinari in mezzo mar dismago (XIX 20), dove tutto il verso è proteso all'effetto della preziosa parola finale; con cotanta cura (XXI 120); turba tacita e devota (XXIII 21); sì... si sentì sazio (XXIV 33); tornar tanto tosto (v. 77; così la '21, dove il Petrocchi legge tornar mio tantosto); che sì alti vapori hanno a lor piova / che nostre viste là non van vicine (XXX 113-114); lo qual dal mortal mondo m'ha remoto (Pd il 48); violenza il torza (IV 78); da via di verità e da sua vita (VII 39, dove l'a. non fa che rinforzare la paronomasia); tra l'altre luci mota e mista, / mostrommi l'alma che m'avea parlato (XVIII 49); tutti tirati sono e tutti tirano (XXVIII 129); la mente mia da me medesmo scema (XXX 27).
Spesso le coppie di vocaboli che si succedono per approfondire un concetto si legano per mezzo dell'a.:
mostrarti e minacciar (If XXIX 26), pentendo e perdonando (Pg V 55). Talora l'a. è forse la fonte stessa di una metafora, come spogliar la spene (Pg XXXI 27), o di una preziosa scelta lessicale, come prima che pensi, il pensier pandi (Pd XV 63).
Un interesse maggiore presenta l'a. quando si trasforma da espediente retorico volto ad attribuire sonorità al verso, insistendo su alcuni elementi fonici, in una ricerca che miri a rendere sensibile l'immagine attraverso particolari suoni capaci di evocarla analogicamente: in if I 26, nel descrivere il proprio orrore di fronte alla vista del passo ‛ fatale ', il poeta ricorre alla ripetizione della r: l'animo mio... / si volse a retro a rimirar; in If VI 18 (grafia LI spirti iscoia ed isquatra) è rappresentato fonicamente l'atto violento; in If III 27 (suon di man con elle) si giunge al limite dell'onomatopea, come in XIII 42 e cigola per vento che va via (stessi suoni in Pg X 81 l'aguglie [dei vessilli] ne l'oro /... in vista al vento si movieno); in If XII 51 sì mal c'immolle insiste sul suono già abbastanza significativo del verbo (e la stessa cosa si può dire del verso successivo, un'ampia fossa in arco torta); in If XVII 136 si dileguò come da corda cocca evoca lo scatto, lo scoccare della freccia; in Pg XVI 7 che l'occhio stare aperto non sofferse utilizza l'a. per rendere il senso di fastidio indicato già nel verso precedente da così aspro pelo; in XXV 10 il cicognin che leva l'ala intende aderire col suono alla levità dell'immagine; in XXVIII 109 la percossa pianta tanto puote richiama il rumore della percossa e nello stesso tempo la sua risonanza.
Tale schema retorico corrisponde in questo e nei numerosi casi affini alla poetica dantesca che mira a tradurre in immagini sensibili e per questo più efficaci la realtà rappresentata. In altro senso alla poetica dantesca va ricondotta l'a. come elemento che concorre a caratterizzare lo stile aspro e dolce in base al principio della ‛ convenienza ' fra la constructio e il tema trattato, come si è visto nelle Rime. Non si può non citare, a questo riguardo, fra i numerosi casi in cui l'incontro delle liquide obbedisce a questo metodo di composizione, l'inizio di Pd VIII, dove in realtà l'a. è solo una delle componenti della preziosa similitudine.
Bibl. - R.L. Taylor, Alliteration in Italian, New Haven 1900; G. Lisio, L'arte del periodo nelle opere volgari di D.A. e del secolo XIII, Bologna 1902, 133-136; P. Valesio, Strutture dell'allitterazione, Bologna 1967, 34-35.