ALLEGORIA (dal gr. ἀλλεγορία, da ἄλλος "altro" e ἀγορεύω "parlo")
Fu già definita (Aristot., Poet., 21; Cicer., Orat, 94; Quintil., IX, 2, 46) una metafora continuata; e veramente, a considerarla nei termini stretti, ha una fondamentale attinenza con l'espressione metaforica di un concetto: se non che l'allLegoria non è solamente parlata o scritta, è anche figurativa; e contiene assai più di una metafora continuata, in quanto suole svolgere un'azione a modo di racconto o di romanzo, o determinarne in forme plastiche o disegnate alcuni essenziali elementi, perché il lettore o l'osservatore vegga, di là dal racconto reale, un senso ideale o morale. Convien dunque considerare l'allegoria come un'espressione del pensiero e della fantasia anche fuori dei trattati retorici e del linguaggio poetico.
Come meglio apparirà dalla trattazione ulteriore, si devono distinguere nell'allegoria almeno due principalissimi aspetti. Il primo si ha quando vocaboli oppure segni furono a bella posta adoperati in guisa che, dopo l'impressione e l'intelligenza del senso offerto dal racconto, dalla pittura, dalla scultura, si abbia la ríflessione e la penetrazione di un'intima verità concettuale. Il secondo, quando a una verità concettuale un pensatore cercò di dare con l'arte propria una determinazione letteraria, pittorica o scultorica, così che la veste apparente sia soltanto un tramite, più o meno agevole, verso l'idea originaria. Nel primo caso, la lettera, i tratti, i colori devono avere tal valore in sé e per sé, da poter conseguire un effetto estetico anche su chi non si accorga del riposto significato o non si curi di raggiungerlo. Nel secondo, la lettera, i tratti, i colori devono fin dall'origine e costantemente subordinarsi all'intendimento morale, politico, sociale, ecc., onde ebbero la ragione vera dell'essere loro.
Naturalmente l'un caso e l'altro né si contrappongono sempre in una maniera recisa, né si escludono mai compiutamente dentro una medesima opera d'arte, anzi sogliono alcun poco frammischiarvisi. Un'interpretazione allegorica può, del resto, come vedremo, esser data anche da altri a un'opera che nelle intenzioni dell'autore non la richiedeva; e poté, per giunta, esser data altresì ad avvenimenti storici o leggendarî, a fenomeni naturali, a organismi vegetali e animali, ecc.
Rientrano nell'allegoria, a giudicarne da codesto punto di vista, i cosiddetti Bestiari Lapidari Erbarî moralizzati, e vi rientrano le parabole evangeliche, le favole esopiche, alcune caricature. D'altro lato vi rientrano perfino, in grandissima parte, sia le medaglie, le monete, le insegne o imprese, sia le moderne réclames che con parole o con disegni cercano d'attrarre l'attenzione per qualche merce o festa pubblica o convegno industriale, ecc.
Simbolo e simbolismo sono espressioni che non è possibile distinguere oramai nettamente da allegoria e allegorizzamento. Comunque se ne vogliano delineare i termini rispettivi, conviene genericamente riconnetterli a quell'antica e sempre in modo vario vigorosa forma del pensiero e della fantasia da cui sorsero tante bellissime invenzioni in quasi ogni campo dell'arte.
Nell'antichità classica.
Presso i Greci. - Come termine tecnico, lo troviamo entrato nell'uso scolastico solo nell'età ellenistica e largamente di poi usato sì da sostituire il vocabolo ὑπόναια adoperato da prima (Plat.. Rep., II, 378 d) per indicare quella figura retorica per la quale si deve riconoscere nel pensiero espresso un senso diverso da quello che le parole materialmente dichiarino. Tale definizione si tramanda invariata nei varî trattati retorici, in cui se ne ricercano le varie forme e gradazioni, includendovi persino l'ironia e l'enimma.
Ma Giovanni Sicil. (in Walz, Rhet. Gr., VI, p. 221 seg.) avverte che il pensiero intuito deve essere realmente compreso nel valore delle parole, e Trifone (De trop., 3) vi esige anzi una somiglianza (cfr. Cornific., lV, p. 34, 46). In fondo per gli antichi l'allegoria era una metafora (v. sopra), e per questo i Latini la chiamarono inversio (Quint., VIII, pp. 6, 44). Ma già lo pseudo-Demetrio avvertiva (§ 102) che bisogna ben guardarsi in questo dalla continuazione, acciocché l'orazione non ci diventi enimma". L'allegoria è usata spesso per ricoprire con una certa verecondia l'amarezza di un pensiero che turba (Greg. Corinz., p. 215, in Walz, Rhet. Gr., VIII, p. 764), onde è facile comprendere il valore dell'allegoria della nave, usata da Alceo (fr. 30 D.) per significare le condizioni della sua città infelice, dando il modello così di una vera rappresentazione, comune ai poeti posteriori (cfr. Horat., Carm., I, 14). Ma soprattutto si esige dall'allegoria solennità, gravità al discorso. Infatti lo pseudo-Demetrio (c. 99-101) nota che "grande è ancora l'allegoria e principalmente nelle minacce...., perché il concepito nell'animo con sospetto è più terribile, ed altri s'immagina qualcosa di più; e per lo contrario ciò che si palesa, ancorché sia formidabile, sarà verisimilmente disprezzato, come gl'ignudi (trad. Adriani). Su questa necessità dell'allegoria insiste lo pseudo-Longino (VII, 3), perché "in quelle cose.... che ne' poemi e nelle orazioni si leggono, badar si dee, che alcune hanno apparenza di grandezza, e ritengono dello strano con molto del manierato..... messe poi in vista, non sien trovate sì vizze, che il dispregiarle sia più nobile dell'ammirarle", anche perché spesso, come in Omero, certe scene (c. IX, 3) "son.... veramente terribili, e, se non si pigliano secondo allegoria, sarebbono del tutto empie e non servanti il decoro" (trad. Gori).
I poeti, secondo la concezione ellenica, già dai tempi d'Omero, erano ispirati dal dio, con sacro entusiasmo; sicché nelle loro parole doveva essere riposta una sapienza che superava il valore delle parole. Perciò Tzetze (Exeg. in Il., p. 29 Herm.) afferma che l'allegoria è la principale caratteristica dei poeti, e distingue (p. 28) una triplice forma d'interpretazione allegorica, cioè retorica, fisica ed ammaestrativa, portando come esempio dell'una la favola dei Centauri, che indica il primo allevamento dei cavalli, della seconda quella dei dardi pestiferi di Apollo, con allusione ai raggi del sole, della terza le notizie dell'"Orsa che non tocca le acque dell'Oceano" per significare la posizione della costellazione sul polo invisibile. Per Eustazio (p. 19,1) l'interpretazione allegorica è anagogica e storica. Ma in fondo si tratta di varietà di termini più che di differenze reali.
Allegorie omeriche. - Le varie forme si possono infatti riassumere nelle due grandi categorie dell'interpretazione fisica ed etica. Entrambe derivano dallo sforzo di eliminare i contrasti tra la morale dei primi tempi e quella della nuova società, e di conciliare le speculazioni dei filosofi e teologi con la venerazione per l'antica poesia. Per questo soprattutto Omero fu oggetto di studî allegorici, i quali si affermarono maggiormente quando si diffuse il culto e la venerazione dei misteri, in particolare orfici.
Teagene di Reggio, al tempo di Cambise, spiega allegoricamente la lotta degli dei nell'Iliade (Sch. B ad Il., XX, p. 67), considerando Apollo, Elio, Efesto = fuoco; Posidone, Scamandro = acqua; Artemide = luna; Era = aria; e inoltre Atena- saggezza; Ares = sfrenatezza; Afrodite ad. passione; Ermete = pensiero. Metrodoro di Lampsaco (Diog. Laert., II, 11), scolaro di Anassagora, che già aveva dato spiegazioni fisiche dei passi omerici (Seh. A ad. Il., XVI, p. 161), va più oltre e trova in tutte le figurazioni omeriche l'allegoria delle "sostanze della natura e forze ordinatrici degli elementi" (Taziano, 21), ammettendo Agamennone = etere (Hesich., s. v.), Achille = sole; Elena = terra; Alessandro = aria; Ettore = luna, mentre la famiglia degli dei forma come un organismo umano, essendo Demetra = fegato; Dionisio = milza; Apollo = bile (Philod., Vol. Hercul. coll. alt., VII, pp. 3, 90). Invece gli anassagorei (Syncell., Chron., 140 c - I, 289, 19 D.) giudicavano Zeus = mente; Atena = arte; Diogene di Apollonia riconosceva nello Zeus omerico l'aria (Philod. De piet., 6 b.), dacché Zeus tutto sa e tutto conosce. Democrito particolarmente illustrò come allegorie la storia degli dei omerici. Ma Platone non pare presti grande fiducia a tali interpretazioni (Fedr., 229 seg.), se pure nel Cratilo si voglia riconoscere, come è stato affermato (Kiosk, De Crutyli Platonici indole ac fine, Breslavia 1913), una satira geniale: tuttavia indulge anch'egli al mito, dando il primo impulso al misticismo che si svilupperà più tardi coi neoplatonici. Anche Aristotele (Eustat., Ad Od., XII, p. 130) cede alla tendenza generale, vedendo nei trecentocinquanta buoi, divisi in 7 mandrie, appartenenti al sole, la figurazione dell'anno lunare. Nell'età ellenistica posteriore queste interpretazioni ebhero uno sviluppo anche maggiore, per opera in particolare degli stoici. Zenone (Dion. Cris., 53, 4) aveva interpretato allegoricamente i poeti antichi, le leggende mitiche, ricorrendo alle etimologie. Negli dei areva indicato forze naturali (Cic., De nat. deor., II, 63): i Titani, p. es., erano gli elementi dell'universo (Schol. Hes. Theog., 134), significando Κοῖς "la qualità" (per lo scambio nell'eolico del π col κ, onde κοῖος o ποῖος quale"); Κρεῖος dominatore"; ‛Υπεϕίων "quello che si muove in alto". Etimologie di analogo valore e tendenza hanno dato (Macr., Saturn., I, p. 17 seg.) Cleante e Crisippo. Questa tendenza non cessò mai nel periodo bizantino, e risorse più forte e vigorosa nel principio del sec. XIX col Creuzer, e ancor più con la scuola dei mitologi comparatisti.
Fra i filosofi prevalse però l'interpretazione etica. Senofane aveva rimproverato ad Omero l'immoralità delle sue rappresentazioni divine, ma Anassagora (Diog. Laert., II, 11) vi ritrovava allegoricamente il modello tipico della giustizia e della virtù. Il sofista Prodico illustra con allusioni morali (Xenoph., Mem., II, 1, 21, 34) la favola di Ercole al bivio, e Antistene crede che nell'allegoria sia il primo segreto della retta intelligenza d'Omero, mostrando in Ulisse, cui dedica una sua declamazione, il tipo ideale del sapiente cinico. Diogene, suo scolaro, in Medea riconosce non la maga della leggenda, ma l'incarnazione del metodo igienico per irrobustire i corpi infrolliti dalla lussuria: così solo si poteva spiegare la favola del "ringiovanimento" da lei operato (Stob., Floril., 29, 92). Tale indirizzo continua nella sofistica cinico-stoicizzante del sec. I d. C., e il principale rappresentante ne è Dione Crisostomo (40-130 d. C.) con le sue Orazioni omeriche.
Dei grammatici ed eruditi ellenistici soprattutto i Pergameni si occuparono dell'interpretazione allegorica. Cratete di.ì Mallo ne inizia la scuola, seguendo le concezioni stoiche, con esagerazioni che saranno rimproverate anche dai più tardi allegoristi (cfr. ps.-Heracl., c. 27). Ricordiamo, p. es., la spiegazione, data dalla scuola pergamena (Schol. Hes. Theog., 126) dei dieci strati dello scudo d'Achille con le dieci zone del cielo. A tali esagerazioni e puerilità si contrappose la scuola alessandrina, con criterî più scientifici e con l'interpretazione letterale e filologica dei testi. Eratostene (Strab., I, 55) affermava che scopo del poeta è dilettare, e però (Strab., I, 24) si sarebbe potuto identificare nei paesi reali il viaggio d'Ulisse, quando si fosse trovato il calzolaio che aveva cucito l'otre dei venti. Il criterio filologico e grammaticale fu applicato col massimo rigore da Aristarco di Samotracia (v.). Il suo scolaro Apollodoro d'Atene (v. A. Münzel, De Apollodori περὶ ϑεῶν libris, Bonn 1883), indulgendo alla tendenza stoica, si lasciò sedurre dallo studio delle etimologie, cadendo nell'allegorismo teologico nell'opera Sugli dei, con interpretazioni degne di quelle di Cleante e di Crisippo. L'opera di Apollodoro ebbe larga fama ed esercitò forte influsso sui più tardi studiosi di teologia, quali, per es., Cornuto (sec. I d. C.) e lo pseudo-Eraclito. Cornuto, nel suo Compendio teologico, cercando di trarre argomenti dalle etimologie, mescola interpretazioni mistiche e naturalistiche, fondate su concezioni filosofiche o quasi: p. es., Crono (χρόνος "tempo") e Rea, "terra" (poiché tutta la materia ῥεῖ, cioè "scorre") si congiungono in nozze mistiche: egli inghiotte i figli, ché il tempo divora tutti, eccetto Zeus, che è la vita (ζῆν, "vivere"), poiché la vita supera il tempo; Apollo è il sole, Efesto il fuoco, e via dicendo. Il libretto di Cornuto fece grande impressione e divenne quasi il manuale dei più tardi allegoristi omerici, dei teologi neoplatonici e persino dei cristiani (Origen., in Euseb., Hist. Eccl., VI, 19, 18). Lo pseudo-Eraclito quasi nello stesso tempo, con le sue Questioni omeriche, comunemente note col nome di Allegorie omeriche, si sforza di dimostrare come i rimproveri d'immoralità e di empietà rivolti ad Omero non abbiano ragione d'essere, quando i poemi s'interpretino allegoricamente con spiegazioni fisiche e meno di frequente etiche e storiche. Dopo costoro l'interpretazione allegorica omerica continua col pseudo-Plutarco, cui è attribuita una Vita d'Omero, e con Porfirio (sec. III d. C.), che scrive le Ricerche sull'antro delle Ninfe. Ma Porfirio appartiene a quella corrente mistica che si compiace dell'allegoria teologica e che investe non solo tutta la scuola neoplatonica con Plotino (204-270 d. C.), che ne fu il capo, ma anche la scuola neopitagorica con Giamblico (sec. III-IV d. C.).
Ricordiamo ancora nel sec. IV Proclo di Laodicea col suo commento alla Teogonia esiodea e la Teologia platonica, e il cosiddetto Sallustio con l'operetta Degli dei e del mondo. Nel sec. V c'imbattiamo in una bizzarra interprete omerica, Demo (v. Ludwich, Die Homerdeuterin Demo, in Festchr. Friedländers, Lipsia 1895, pp. 296-325), che sarà più tardi seguita da C. Tzetze (sec. XII), il quale trattò delle varie forme di allegoria nell'Esegesi dell'Iliade, e in due poemi didattici in versi politici con indirizzo evemeristico illustrò Le allegorie omeriche, insegnando persino il modo di allegorizzare in un'altra opera in versi. Ma prima di lui, Michele Psello (sec. IX), seguendo Porfirio, aveva ripreso l'argomento Dell'antro delle Ninfe, mentre più tardi G. Pediasimo (sec. XIII) allegorizza sulle nove muse, e Niceforo Gregora (sec. XIV) con intendimento morale presenta una Compendiosa trattazione dei viaggi di Ulisse. L'allegoria ormai pervade tutti i campi di studio della biologia col filosofo Splenio (E. Rohde, Σπλήνιος, in Act. soc. phiol. Lips. V, 1875, p. 303 segg.; G. Vitelli, De gener. hom., in Stud. it. d. filol. cl.) fino ai veri e proprî romanzi moralizzanti, quali le Avventure di Stefanites e Ichnelates, attribuite ad un Meliteniotes (sec. XlV) non bene identificato (cfr. anche Puntoni, Alcune favole della Στεϕανίτης καὶ ἰχνελάτης, ecc., in Studî di filol. greca, I, 1882, e in Atti R. Accad. d. Lincei, 1887), la Storia ed il sogno di Marin Faliero, continuazione di quella tendenza all'interpretazione allegorica dei sogni che si trova già nell'Onirocrito di Artemidoro Daldiano. Nella letteratura bizantina in tal tempo domina ormai l'influsso della letteratura romanzesca e allegorica dell'Europa occidentale.
Presso i Rontani. - Anche i Romani, sebbene spiriti più pratici e meno inclinati a discussioni teoretiche e a speculazioni filosofiche, subirono l'influsso delle interpretazioni allegoriche delle scuole elleniche. Ma l'allegoria non fiorì rigogliosa nell'età classica; Lucrezio trae motivi ed esempî dalle teorie epicuree, indulge tratto tratto all'allegorismo ellenico e riconosce in Tantalo, Cerbero, ecc. i simboli dei mali umani; le interpretazioni delle varie scuole hanno il loro riflesso nelle opere di Cicerone, specialmente nel De natura deorum. Ma i poeti stessi, impregnati di senso pratico (cfr. Horat., Carm., III, 16, 7-8; Epist., I, 2, 1-34), accolsero più volentieri le concezioni teologiche razionalistiche.
Durante l'età imperiale si sviluppa nella vita romana la tendenza al misticismo e all'allegorismo per influsso della concezioni orientali. Il poema di Virgilio soprattutto vien fatto oggetto di tali studî, cui dava motivo la figura della Sibilla e la discesa di Enea all'Inferno. Già nel commento di Donato si nota qualche traccia d'interpretazioni allegoriche, e, se Servio vi si oppone, qualche volta non sa egli stesso sottrarsi al fascino dell'allegoria. Specialmente gli scrittori cristiani vi trovarono rapporti con la sapienza cristiana; e soprattutto la IV ecloga fu argomento di strane considerazioni. Lattanzio (Divin. instit., 7, 24) ricerca nelle profezie dell'ecloga il preannunzio della nascita di Cristo; S. Agostino (De Civ. Dei, X, 27) vi riconosce nei vv. 13-14 l'insegnamento del perdono del peccato. Ma la piena interpretazione allegorica dell'ecloga si trova nel Discorso alla sacra Sinodo dell'imperatore Costantino conservataci da Eusebio di Cesarea (Constant. ad sanct. conc. oratio) insieme con la versione greca dell'ecloga (op. cit., 19-21), accompagnata da un commento che risale forse a più autori (cfr. A. Kurfess, Curae Constantinianae, Berlino 1920). La Vergihi Continentia di Fabio Planciade Fulgenzio (sec. VI d. C.) ci dà il primo esempio dell'applicazione costante del metodo allegorico nell'interpretazione virgiliana (cfr. Coffin, Alliliigorical Interpretation of Vergil with special reference to Fulgentius, in Classical Weekly, XV, 1922, p. 33 segg.); con le più mirabili stranezze, cui l'autore arriva con lo studio arbitrario delle etimologie, quali, p. es., Lavinia, via Laboris; Menelatis, Menhlaus, Menislaus, vitrus populi, ecc. L'opera di Fulgenzio ebbe largo successo: il suo influsso durò per tutto il Medioevo e continuò fino al Rinascimento nei dialoghi di Cristoforo Landino (Cod. laur. LIII, 28; cfr. Wolf, Die alleg. Vergilserklärung des Chr. Land., in Neue Jahrbücher für Kl. Philologie, XXII, 1919, 453 segg.). Ma, anche all'infuori dell'interpretazione virgiliana, l'allegoria studiata e ricercata allo scopo di moralizzare gli antichi poemi in ossequio alla dottrina cristiana ebbe largo favore.
Nell'interpretazione dei testi sacri.
Se, dal punto di vista letterario, e come figura retorica l'allegoria, metafora continuata, è figlia di quella stessa attività fantastica dello spirito che genera il mito, l'interpretazione allegorica è a sua volta il risultato d'un dissidio di carattere squisitamente etico-religioso, e si può considerare come un fenomeno inverso, ma parallelo, a quello per cui vengono continuamente creati e modifiiati dei miti eziologici, a spiegare riti, del cui significato originario si è smarrita od oscurata la coscienza. L'ermeneutica nasce, per solito, dal contrasto fra un testo sacro o comunque canonico e bisogni spirituali nuovi, da un conflitto fra l'autorità e ciò che si presenta come esigenza della ragione. L'interpretazione allegorica è appunto uno dei mezzi con cui si tenta di superare o eliminare questo dissidio, leggendo nei vecchi libri canonici significati nuovi, in armonia con le mutate esigenze spirituali. Si è visto come il bisogno di affermare il carattere morale della divinità spinse i primi investigatori del "senso riposto" (ὑπόνοια) ad interpretare allegoricamente i poemi omerici: e anche i Veda e l'Avestā allorché non furon più compresi, ebbero bisogno di commenti. Platone, che escludeva i poeti dalla sua repubblica, se non ebbe - a quanto pare - simpatia per questi tentativi, ha esposto chiarissimamente (cfr., p. es., Theaet., 176 c "Dio non è mai per nessun modo ingiusto", Θεὸς οὐδαμῇ οὐδαμῶς ἄδικος ecc., con la discussione in Euthyph., 7 c segg.) il problema della coscienza greca al bivio tra l'accettazione dei miti, che attribuivano agli dei azioni obbrobriose, e la necessità di ritrovare in loro una moralità almeno non inferiore a quella corrente tra gli uomini. Gli stoici si posero su questa via (anche in ciò, sulle orme di Antistene) e, interpretando i miti come allusioni a fenomeni fisici, oltre che a fatti morali, si conformarono alla loro dottrina sulla costituzione dell'universo.
Il giudaismo. - Il giudaismo si trovò di fronte allo stesso problema, e lo risolse portando fino alle ultime conseguenze il suo concetto della Rivelazione. Questa ha essenzialmente carattere religioso, e tutta la religione contiene in sé. Non solo ogni parola del testo sacro, pur nella grafia (v. bibbia, massoreti), fu tenuta per ispirata; ma in ciascuna parve si dovesse ritrovare espresso il carattere di Dio, e quello ch'egli esige dagli uomini: esposto ora in maniera intelligibile ad ogni lettore, ora soltanto ai capaci di oltrepassare il puro senso letterale. Di qui l'interpretazione rabbinica, sia omiletica sia giuridica (più rigorosa), i cui principî vennero condensati nelle sette regole di Rabbí Hillel, poi nelle tredici di R. Ismael, e nelle trentadue di R. Eliezer. In tutti i passi del Vecchio Testamento si ritrovarono così le concezioni religiose più alte, cui il giudaismo era pervenuto solo attraverso una lunga evoluzione storica. Esempî di questo metodo, usato per dimostrare il carattere provvisorio delle istituzioni mosaiche, si trovano anche nel Nuovo Testamento (s. Paolo, Galati, IV, 24 segg.; I Corinzî, X,1-4).
Il giudaismo della Disseminazione (Diasporà) giunse a risultati simili. Del resto, l'immagine delle nozze era stata usata da secoli per indicare la speciale relazione corrente tra Jahvè e il suo popolo; il Cantico dei Cantici, dopo molte discussioni, fu accettato come canonico in base a un'interpretazione allegorica. Nella polemica contro il politeismo ellenico, fu sfruttato Euemero; ma, a rintuzzare le critiche e a dimostrare la superiorità morale di Israele e della sua legge, l'interpretazione allegorica parve strumento provvidenziale. Filone dedicò più libri alla dimostrazione che i racconti relativi ai patriarchi, contro i quali s'appuntavano più volentieri i sarcasmi e le accuse d'immoralità, non erano se non allegorie di verità filosofiche e morali. Così le espressioni che sembrano presupporre una concezione antropomorfica del divino, la Torre di Babele e la Pasqua, diventano allusioni a dottrine morali che si ritrovano nell'insegnamento dei grandi pensatori elleni. Il Paradiso è la parte razionale, predominante (ἡγεμογικόν) dell'anima; l'albero della vita e quello della conoscenza, che vi son piantati, rispettivamente il timor di Dio, inizio della sapienza, e la riflessione (ϕρόνησις); i quattro fiumi che ne sgorgano, le quattro virtù cardinali: e così via (De opif mundi, I, 37; Leg. alleg., I, 56). Se la lettera è il corpo, l'allegoria è l'anima del testo sacro.
Il Cristianesimo. - Gli scrittori cristiani, fin dai tempi apostolici, non procedettero diversamente. S. Paolo, come si è visto, ricorre al metodo allegorico per interpretare la Legge in senso conforme alla libertà Lristiana da lui proclamata. L'autore dell'epistola di Barnaba scorge in ciascuno dei cibi proibiti dal Levitico un vizio; e in Mosè, che apre le braccia durante la battaglia contro gli Amaleciti (Esodo, XVII, 8 segg.) l'immagine del Tau, che a sua volta simboleggia (anche nell'iconografia francescana) la Croce: e dal valore numerico di questa e d'altre lettere, trae una conferma per le sue aspettative del millennio. Nel Pastore di Erma la Chiesa è, a volta a volta, la vecchia che ammaestra il visionario, e la torre in costruzione, il cui compimento si approssima: mentre le varie qualità di pietre rappresentano categorie diverse di cristiani, ad alcuni dei quali è concessa, in vista dell'imminente giudizio finale, un'occasione straordinaria di penitenza. Gli apologisti, soprattutto Giustino, procedettero allo stesso modo. L'interpretazione allegorica del Vecchio Testamento parve tamo più necessaria in quanto bisognava respingere le critiche dei pagani contro di questo, le obiezioni dei giudei contro le interpretazioni cristiane, le pretese di quei gruppi cristiani che volevano rompere interamente con la tradizione dell'antico Patto, e di quegli altri che, accesi ancora d'entusiasmo apocalittico, continuavano a interpretare alla lettera gli annunci dell'imminente ritorno del Cristo per insediare il millenario Regno dei giusti. Se gli gnostici interpretarono allegoricamente anche il Nuovo Testamento, Taziano (Orat. ad Graec., 21) protestò contro varî tentativi (che cita) di leggere un senso riposto nelle favole greche, ma continuò ad allegorizzare per proprio conto.
Era una tendenza universale, alla quale nessuno scrittore cristiano poté veramente sottrarsi. Ippolito romano commentò allegoricamente il libro di Daniele, Clemente alessandrino numerosi passi scritturali. E da Alessandria, patria di Filone, venne Origene, il quale, nel IV libro del De Principiis, fece corrispondere alla tripartizione dell'uomo in corpo (σῶμα), anima (energia vitale, ψυχή) e spirito (πνεῦμα) una distinzione tra le varie categorie di uomini, e tra i varî sensi della Legge divina. La quale oppone ai semplici difficoltà, inciampi (σκάνδαλα, προσκόμματα), che si superano o si evitano appunto ricercando il riposto significato spirituale. Né si dimentichi che Origene fu tenace avversario dei millenaristi. Contro questo metodo reagì in parte, più tardi, la scuola d'Antiochia, in modo che a noi pare più affine al nostro indirizzo mentale storicistico; ma anch'essa ebbe la sua interpretazione "tipologica", e riconobbe nella Scrittura un duplice significato. E attraverso il sec. IV l'interpretazione allegorica prevalse, ripetendosi continuamente - in un senso alquanto diverso da quello che ha nel contesto originale - l'aforisma paolino (II Corinzî, III, 6) che "la lettera uccide, lo spirito vivifica": in Oriente come in Occidente, seguirono questo metodo padri della Chiesa quali S. Gregorio nisseno, S. Gregorio nazianzeno, S. Gerolamo, S. Ambrogio.
A contatto di quest'ultimo, S. Agostino vide nell'interpretazione allegorica il modo di rispondere alle accuse che contro l'Antico Testamento sollevavano i manichei suoi antichi compagni di fede (Confess., VI, 6 e 8). Più tardi, tornato in Africa (e verisimilmente nel 396), egli conobbe il Liber Regularum di Ticonio il donatista, un vero manuale di "teologia biblica" (ed. Burkitt, Cambridge 1894), e queste regole egli incorporò nel suo De doctrina christiana: e, attraverso S. Agostino, passarono a tutti, o quasi, gli scrittori medievali. Ma Agostino a partire dal 393 e più, dopo l'ordinazione episcopale (396), rappresenta, in confronto di S. Ambrogio, quasi una reazione contro l'interpretazione allegorica: in più luoghi dei sermoni e in opere come i due De Genesi ad litteram, in contrasto con il metodo prima seguito, egli cerca il senso letterale: probabilmente sotto l'influsso del commento a S. Paolo e delle Quaestiones Veteris et Novi Testamenti del cosiddetto Ambrosiaster; e la sua esegesi è suggerita in primo luogo dalla ricerca del significato delle parole, attraverso l'etimologia (benché spesso con numerosi e caratteristici errori). Ma la Scrittura Sacra era sempre considerata come il deposito della Rivelazione, e, poiché questa veniva tradotta in formule razionali, precisamente queste formule si lessero nella Bibbia. Alcuni dei capolavori della letteratura latina medievale - p. es. i Sermones in Canticam di S. Bernardo - sono il prodotto precisamente di questo sforzo. E non fa meraviglia che tutti i grandi scrittori dell'antichità venissero interpretati a questo modo; né che - come si vedrà più oltre - sorgessero dei poeti, nel Medioevo o al tempo della Controriforma, i quali cercassero di giustificare la propria attività letteraria, asserendo di voler soltanto rendere più dilettevoli le verità morali, presentando al lettore
aspersi
di soave licor gli orli del vaso.
L'Umanesimo e la Riforma stessa non segnarono la fine dell'interpretazione allegorica della Scrittura. L'atteggiamento degli spiriti verso la Bibbia rimase quello che il protestante S. Werenfels satireggiò nel famoso distico:
Hic liber est, in quo quaerit sua dogmata quisque;
invenit et pariter dogmata quisque sua.
Soltanto più tardi - e un notevole indizio di reazione appare già nel Tractatus theologico-politicus dello Spinoza - il sorgere delle scienze storiche e il mutato indirizzo mentale diedero la prevalenza ad altre forme d'interpretazione della Scrittura.
Nel Medioevo.
Come interpretazione. - Largamente adoperate nelle scuole, le opere che interpretavano allegoricamente sia le Sacre Scritture, sia i poeti classici (e in particolar modo Virgilio), nel corrispondere al bisogno degli spiriti, avidi d'interpretare spiritualmente qualsiasi fenomeno della vita e anche più le belle apparenze dell'arte, accrebbero in quest'epoca il moto verso tali interpretazioni. L'universo visibile, lo scibile tutto non apparvero più che una miracolosa serie di "veri", come Dante li chiamò, involti nei "veli" della vita e dell'arte. Manuali appositi spiegarono con riferimenti morali gl'intimi sensi, o virtù, di pietre preziose, di erbe e piante, di animali. Quando, nel sec. XVII, Giambattista Marino, con tanta prolissità di bizzarre sottigliezze, dichiarava nelle Dicerie sacre, punto per punto, l'armonia dell'universo, come se si trattasse della storia di un'enorme sinfonia scritta da un sublime maestro, ed eseguita dagli angeli e poi dagli uomini in modo non conforme alle intenzioni di lui; quando san Giovanni della Croce, acceso di spiriti lirici nella Spagna di santa Teresa, imitava in strofette erotiche il Cantico dei Cantici, per averne occasione a interpretarle, dalle mollezze sensuali, verso le gioie dell'estasi mistica; forse il Marino non sapeva di Pietro Comestore ("Mangiadore" in Par., XII, 134) interprete della Bibbia moralizzata; ma san Giovanni sapeva di quel libro della Bibbia, da cui Dante, per l'apparizione di Beatrice nel Paradiso terrestre aveva dedotto il grido: "Veni, sponsa de Libano!" (Purg., XXX, 11). Assai del lirismo metaforico del cosiddetto secentismo fu un'applicazione, con temerario abuso, di codeste movenze bibliche, evangeliche, apocalittiche.
Così, l'eredità classica e la novità cristiana portavano insieme le menti a un perpetuo simbolismo, e però a una continuata interpretazione allegorica, anche là dove la lettera o la figura non fossero nate da una vera e propria idea morale che avessero da rivestire di linee storiche e di colori artistici. Tutte le cose invisibili si tenne che fossero presentate all'uomo dalle visibili, in una sorta di portentoso volume che co' suoi caratteri, più o men facilmente decifrabili, ma decifrabili tutti, celebrasse la gloria di Dio e ammaestrasse gl'intelletti e le anime verso l'eterna beatitudine di quella gloria paradisiaca. Aberrazioni, goffaggini non fecero difetto: una noce, col mallo, col guscio, con le partizioni interne legnose, con la parte commestibili e l'altra no, fu tolta a immagine di Cristo, della sua doppia natura, ecc.; e una frase del Vangelo sul vino diventò l'origine di Cristo sotto il torchio, dal cui corpo sprizza il sangue redentore. Tutto il giuoco degli scacchi venne interpretato e presentato ad ammaestramento dell'uomo. I bestiarî moralizzati poterono vantarsi perfino di uno scrittore come fu san Pier Damiano (morto nel 1072), che compilò il De bono religiosi status et variorum animalium tropologia, considerando la zoologia come un trattato in azione di ammaestramenti etici. Altre parecchie opere affini fecero testo, anche con riflessi vividi di poesia: come quando Dante (Par., XXV, 113) chiamò Cristo "il nostro pellicano" con riferimento, oltre che all'inno Adoro te devote, di S. Tommaso d'Aquino, a immagini di scultura e di pittura, nelle cattedrali e nei crocifissi, le quali raffiguravano il favoloso amore paterno di quell'animale in atto di squarciarsi col becco il petto per nutrire i figlioletti nel nido. Uno sguardo alle opere di Onorio d'Autun, di Durando di luende, di Sicardo di Cremona, basterà per avere un'idea completa di queste complesse elaborazioni allegoristiche del Medioevo.
In genere, l'interpretazione dei fenomeni naturali, dei racconti storici, dei nomi stessi di cose e persone fu condotta in maniera sistematica e compiuta. Ma non così come a noi potrebbe oggi sembrare scientificamente naturale, cioè con dimostrazioni positive alle quali dovesse corrispondere una negazione: si ammise, invece, che ciascun intelletto avesse pieno diritto, purché movesse dalla fede cristiana e ragionasse bene, a propugnare una sua interpretazione, senza per questo infirmare le altrui. Per esempio, Dante (Vita Nuova, XXIX), dopo aver indagato perché Beatrice "fue accompagnata da questo numero del nove", non si peritò a concludere: "Forse ancora per più sottile persona si vedrebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella ch'io ne veggio, e che più mi piace". Nella predicazione cristiana perdura tuttavia, nei limiti suddetti, la libertà d'interpretare moralmente i testi saeri in modo diverso da predicante a predicante. Ben più intensamente si usò tale libertà nel Medioevo. Perfino dalle Metamorfosi di Ovidio furono dedotte favole e ammonizioni intorno alla redenzione dell'anima peccatrice; e perfino la popolarissima canzonetta francese Belle Aliz diventò sul pulpito un soggetto di curiose traslazioni morali.
Riferiremo più oltre le opinioni correnti, che Dante riassunse da pari suo.
Come invenzione. - Senza attenerci a un rigoroso e compiuto esame di scritture tanto numerose e varie, prenderemo le mosse da Boezio (480-525), che nel De consolatione philosophiae raffigurò la Filosofia in una matrona, di statura variabile, d'età anziana, ma tuttavia robusta, vestita di panni ricamati con le iniziali della filosofia pratica e della teorica, stracciati a brandelli da mani avide, con alcuni libri nella destra, uno scettro nella sinistra. Fece testo, nelle scuole e fuori, tradotto, imitato. Ma quando Boezio, in un libro non tutto allegorico, inventava quella tipica figurazione, già ben altro si aveva di allegorie. E qui è da registrare almeno la Psychomachia di Aurelio Prudenzio Clemente (348-410 circa), poema dove la gran. guerra tra i vizi e le virtù vien raccontata con personificazioni sistematiche e con una traslazione continua dal senso reale al morale. Pur questo poema fece testo nelle scuole e fuori, tradotto, imitato anche in prosa e in versi italiani. Sorvoleremo sul trattato di Albertano da Brescia (prima metà del sec. XIII) intorno a Melibeo e sua moglie Prudenzia, il quale fu parimenti studiato scolasticamente, e fu poi imitato in parte dal Chaucer; ma, non fosse altro per l'efficacia su Dante e sul Chaucer, è necessario rammentare una quarta opera, la quale gareggiò con tutte le precedenti ne' suoi effetti, e n'ebbe de' suoi peculiari. Il Roman de la Rose, poema francese del XIII secolo, iniziato da Guglielmo di Lorris, proseguito da Giovanni di Meung, è un'allegoria erotica, in cui le personificazioni delle agevolezze e degli ostacoli, delle viriù e dei vizi, sono introdotte a contendere e a combattere sino alla gioia finale della passione sensuale soddisfatta. Del pari, questo romanzo si diffuse subito con gran voga in tutta l'Europa; e anche fu compendiato ingegnosamente e vispamente, tra la fine del sec. XIII e i primi anni del XIV, da un toscano, in cui taluno stima potersi riconoscere Dante (v.).
Questi, discepolo di Virgilio, ebbe utili conforti da Brunetto Latini, scrittore in francese di un'enciclopedia (ha dell'enciclopedia la seconda parte del Roman de la Rose) e autore in volgare dell'allegorico Tesoretto, dove la Natura assume carattere simile alla Filosofia di Boezio. Un'enciclopedia allegorizzata può, per gli aspetti esterni, e per l'intendimento medesimo del poeta, considerarsi la Comedia, almeno in alcune parti (come il primo canto, l'episodio delle Furie, quello della valletta de' principi, la mistica processione nel Paradiso terrestre, ecc.), senza che l'interpretare l'intero poema in tal guisa sia necessario, e senza che una interpretazione morale valga mai a escludere le altre consimili, purché si resti nei termini della scienza e della coscienza dell'autore.
Littera gesta docet; quid credas Allegoria;
Moralis quid agas; quo tendas Anagogia.
Questo celebre e diffusissimo distico medievale che ha riscontro in passi di Durando e di Sicardo, trova nel Convivio (II, 1) di Dante un'ampia esplicazione (onde si può fare a meno di ricorrere alla dubbia epistola di lui a Can Grande): "Le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale... l'altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna... lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade loro e di loro discenti... lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale, ancora sia vera eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa delle superne cose de l'eternal gloria". Dante stesso riconosceva, del resto, che, insomma, i sensi capitali sono due: il letterale e l'allegorico.
Sul termine del Medioevo, quando Dante, Albertino Mussato, il Petrarca, il Boccaccio componevano in latino ecloghe allegoriche, tendendo a riconnettersi con modelli virgiliani, già si andava, d'altra parte, riconoscendo e precisando sempre meglio la realtà dei fenomeni e delle cose indipendentemente da una verità che l'uomo s'industriasse a rintracciarvi dentro. In qualche parte delle opere loro il Petrarca e il Boccaccio allegorizzarono, al segno che il primo de' due spiegava a re Roberto stupefatto gli arcani dell'Eneide; ma l'uno e l'altro contribuirono assai alla formazione dell'arte del Rinascimento, che, con inevitabili prosecuzioni del Medioevo, e non senza aspri conflitti, riuscì nel complesso realistica. Né l'Amorosa Visione vale il Decamerone, né I Trionfi valgono il Canzoniere. Rammenteremo altresì la Intelligenza, attribuita a Dino Compagni (morto circa il 1323), i Documenti d'Amore di Francesco da Barberino (morto nel 1348), il Dittamondo (1348-67) di Fazio degli Uberti, il Quadriregio di Federico Frezzi (morto circa il 1416).
Il Rinascimento, servendosi tuttora dell'allegoria, volentieri la satireggiò. Il Rabelais (1483-1553) fe' ridere con la divine bouteille, dopo che il Pulci (1432-1484), pel suo Morgante, aveva scritto:
Voi che leggete queste cose strane
Andate drieto al senso letterale,
E troveretel per le strade piane;
Ch'io non intendo del vostro anagogico
O morale o le more o tropologico!
e mentre il Berni, rifacendo l'Orlando innamorato del Boiardo, scriveva in parodia dantesca:
"Mirate la dottrina che s'asconde
sotto queste coperte alte e profonde!
Dal Rinascimento in poi.
Le prosecuzioni del Medioevo sono talvolta non meno importanti che curiose. La Psychomachia riappare financo in onore di Luisa di Savoia, madre di Francesco I. La favola esopica, dopo aver prodotto l'enorme satira del Roman de Renard, e componimenti affini (secoli XI-XIV), produsse tra noi l'Esopo di Francesco del Tuppo (seconda metà del secolo XV), dove ogni favola ha la sua propria allegoria e anagogia, ma anche ha talvolta anagoge commixta allegoriae e altre cavillose riflessioni morali. Del Roman de la Rose l'efficacia si perpetua, dopo che la sentì anche il Chaucer, in liriche e in poemi del Quattrocento e del Cinquecento. E per tornare alla Psycomachia, giova indicarne un'influenza dove men si crederebbe, nella Meditazione sopra i Due Stendardi, che è tra gli esercizî spirituali della Compagnia di Gesù; per tornare alle favole esopiche, giova rammentare che favoleggiò, e sopra vi allegorizzò, lo stesso Leonardo da Vinci; e per tornare al Roman de la Rose, importa additarne qualche traccia nell'Adone del Marino. Un'allegoria enorme di vena e di materie eterogenee, ora medievali, ora umanistiche, fu tutta l'opera del Rabelais.
Accanto agli spettacoli teatrali (moraliteś francesi, masques inglesi, rappresentazioni di ecloghe e quindi tragicommedie pastorali, feste, ecc., in Italia e, per moda italianizzante, un po' da per tutto), i quali in diverse guise svolgevano alcuni germi medievali nel meriggio fiorente del Rinascimento sotto la luce della classicità greco-romana, ognun sa come il dramma nuovo sorgesse rigoglioso in Spagna e in Inghilterra. I Canterbury Tales di Goffredo Chaucer (seconda metà del sec. XIV), ammiratore e seguace di Dante e anche del Petrarca e del Boccaccio, fanno riscontro, come opera d'arte moderna, alle sue allegorie, più o meno dantesche e francesizzanti, quale è The House of Fame; e preparano le gagliarde persone del teatro shakespeariano. Se nello Shakespeare medesimo non mancano parziali allegorie, queste culminano nella stupenda azione di The Tempest, che, sia pure con grandiosa allegoria, nulla ha più che fare col Medioevo. E mentre da quella farsa francese del sec. XIV, dove Panetteria, Cantina, Cucina, Salsicceria contendono tra loro come nei contrasti medievali avevan fatto i Mesi, i Tre vivi e i Tre morti, il Vivo e il Morto, la Sinagoga e la Chiesa, ecc., l'antico contrasto proseguiva fino al Cinquecento inoltrato, con effetti anche negli "scenarî" della Commedia dell'arte; affrettiamoci a riconoscere in Lope de Vega, Calderón de la Barca, e altri insigni, una tal vita drammatica che perfino in La vida es sueño, sia pure anch'essa un'opera sostanzialmente allegorica, rielaborò in forme reali il concetto, senza che questo fosse di parte, in parte allegorizzato. Le invenzioni romanzesco-amorose e le relative carte geografiche di Maddalena De Scudéry (1607-1701) si possono considerare come un esempio delle raffinatezze secentistiche.
In altri campi l'allegoria colse invece innumerevoli occasioni per manifestarsi nelle cosiddette medaglie, nelle imprese o insegne o divise cavalleresche, e nei frontespizî o tavole dei volumi a stampa. Innanzi a La scienza nuova il Vico stesso volle che si vedesse una tavola allegorica, e ne diè la spiegazione per servire da introduzione all'opera: così come allegorico fu il titolo, e il frontispizio, del Leviathan di T. Hobbes.
Anche in relazione a siffatte maniere, aggiungeremo che personificazioni, miti, qualche episodio delle letterature classiche, davano all'arte dell'Ariosto, del Tasso, del Gelli e di tanti altri nuovi incrementi all'invenzione; e tornan subito a mente Alcina e Ruggiero, Armida e Rinaldo, Circe e i compagni di Ulisse, per citar soltanto tre esempî tra quelli che agirono, dall'Italia, su tutta la produzione europea. Col Gelli (1498-1563) ci troviamo dinanzi alle imitazioni di Luciano, così spesso allegorizzante; le quali imitazioni, dal Timone il Misantropo del Boiardo a frequenti pagine dei giornali di Gasparo Gozzi (e in Francia si rammentino i Dialogues des Morts del Fontenelle, varie prose del Voltaire, del Diderot, ecc.), ci possono condurre fino ad alcune delle Operette morali del Leopardi.
Qualche pio adattamento delle forme del Roman de la Rose in Francia e altrove, a concetti sacri, e forse più il poema dantesco, furono incentivo e talora fonte al popolarissimo libro dell'inglese Giovanni Bunyan (1628-1688), Pilgrim's Progress, viaggio allegorico dell'uomo attraverso quella che il Thackeray, seguendo lui, chiamò come titolo d'un suo bellissimo romanzo La fiera delle vanità. Ma l'italianizzante Giovanni Milton (1608-1674), autore de' poemetti L'Allegro e Il Pensieroso, e di masques pieni di sottigliezze eleganti, di cui gli spettatori non sempre potevan cogliere subito l'intenzione didattica, seppe nel suo gran poema sollevarsi anch'egli a una nuova e più lata aria di poesia ammaestratrice, lasciando dietro di sé le angustie medievali.
Sin quasi a' giorni nostri è perdurata, con svariatissimi intendimenti d'arte, la favola delle piante, degli animali, delle personificazioni d'idee morali, dove il La Fontaine fu poeta vero e umanamente savio. La féerie del Maeterlinck, L'oiseau bleu (dopo Chanteclair del Rostand), valga a testimonianza di tal vita durevole, che già aveva prodotte, nella prima metà del sec. XVIII alcune forti allegorie del principe della letteratura danese, Lodovico Holberg (1684-1754). Sarebbe, a questo punto, da dire alcunché delle invenzioni derivate, o per le scene o pei libri, dalle fantastiche creazioni di Aristofane, Le nuvole, Le rane, Pluto, ecc. Perfino nella nostra commedia dell'arte ve ne han tracce, sino ad alcune delle Fiabe di Carlo Gozzi. E al conflitto tra il Genio del Bene e il Genio del Male diè forma d'arte, in Francia, in una féerie spettacolosa, ma distesa per iscritto, il Goldoni.
Nei suoi ultimi anni l'Alfieri allegorizzò aristofanescamente l'esame dei governi assoluto, oligarchico, democratico, in tre commedie, L'uno, I troppi, I pochi, per concludere, nella quarta, con la preferenza da darsi al rimestamento di quei tre veleni; onde L'antidoto del governo costituzionale, quale egli l'ammirava nell'Inghilterra. Verrà poi il Giusti, con Lo stivale, ecc.
Per le feste, cerimonie, accademie, dei secoli XVII-XVIII, si gareggiò ad allegorizzare in tutta l'Europa. Speciali esempî offre la Francia col Marot, col Ronsard, col La Fontaine; altri l'Italia, a dovizia. Tutti seppero a mente, come ode d'allegoria satirica, il Ruscelletto orgoglioso dell'oraziante Fulvio Testi (1593-1646); e poi L'impostura, Il bisogno, La tempesta del Parini (1729-1799).
La letteratura popolaresca, anche illustrata, diffuse poemetti nelle varie lingue europee, come La barca degli stolti, La guerra tra i grassi e i magri, ecc., dove, prevalendo la materia giullaresca, si ebbero insieme innesti sagaci e risvegli parziali di reminiscenze classiche. Vogliono, in qualche modo, essere segnate qui (sebbene tanto superiori e tanto diversi) le invenzioni sociali e politiche, quali furono, per esempio, Utopia di Tommaso Moro (1478-1535) e La città del sole di Tommaso Campanella (1568-1639).
V'ha dell'aristofanesco e del lucianesco negli allegorici Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (1551-1613); e v'ha dei miti platonici negli allegorici dialoghi di Giordano Bruno (1548-1600).
I Lusus poetici ailegorici, cari alla scuola gesuitica, siano accennati, a questo punto, non per la loro eleganza formale, sì perché, riprendendo la materia tradizionale delle piante, delle bestie, di alcuni miti e dei vecchi contrasti (come tra la Rosa e la Viola), attestano ancora una volta, a mo' d'esempio, nel sec. XVII quella rielaborazione meramente letteraria che già avvertimmo pel Marino e per altri. Si credeva che, a far gara di virtuosità stilistica e metrica, nulla fosse più adatto di argomenti vieti da rimettere a nuovo; e si credeva che a scusare o a nobilitare qualsiasi figurazione servisse mirabilmente il mostrarne un impreveduto aspetto morale. Tutti gli studiosi del Tasso sanno come egli medesimo, dopo aver poetato di amori e d'incantesimi (secondo gli esempî che, da Omero e da Virgilio in poi, i poemi epici e i romanzi cavallereschi fino a lui gli offrivano in tanto numero), credé salvare dai censori ecclesiastici e dai critici severi la sua propria poesia, facendo egli "il collo torto" e coprendo lei con lo "scudo" dell'allegoria. A questo modo quel po' di moralità allegorica che l'Ariosto aveva circondato di tanta sensualità, divenne artifiziosamente tutta un'allegoria a posteriori per la macchina epico-romanzesca della Gerusalemme liberata. Da un certo angolo d'osservazíone, si potrebbe concludere che quello fu appunto, anzi che il trionfo, il funerale dell'allegoria.
Se non che, sotto altre forme di mito o di simbolo, l'allegoria, come già abbiamo accennato, risorgeva e si affermava tuttavia, graziosamente, argutamente, gloriosamente. E qui non possiam tacere, almeno, per la Spagna, di episodî e di operette del Cervantes, geniale seguace talvolta di allegorie italiane; né, per l'Inghilterra, del poema The Feerie Queen di Edmondo Spenser (1552-1599), un capolavoro italianizzante in tale ordine di rappresentazioni; né di Gionata Swift (1667-1745), che diè novelle quali The Battle of the Books, originalmente movendo da Luciano e dal Boccalini, e romanzi d'avventure, movendo da Luciano, quali Gulliver's Travels. Del resto, una tendenza più o men chiara negli autori medesimi, ma profonda e continua, ad allegorizzare, può dirsi che animi quasi tutta la letteratura inglese. Tra il sec. XVII e il XVIII Giuseppe Addison, di cui l'Inghilterra ammira tuttora The first Vision of Mirza, e a' tempi nostri Rudyard Kipling, con i suoi racconti indiani, bastino a indicare cotale intenzione.
Non dobbiam0 d'altra parte tacere, almeno, del tedesco Hans Sachs (1494-1576); il quale si compiacque d'allegorizzare, tra il Medioevo e il Rinascimento, così che il Goethe lo disegnò tra le vaghe immagini create da lui a edificazione delle anime; e poté il Wagner prendere da lui le mosse a' Maestri cantori, dove è allegorizzata l'unione della scienza metodica con la vena spontanea per le nuove musiche.
Codesti nomi del Goethe, del Wagner, del Kipling, dei quali ci siamo valsi a bella posta, per confermare il proseguimento della antica allegoria nel moderno simbolismo, ci dispensano dal discorrere della letteratura moderna. Il (Goethe stesso, lo Schiller, lo Shelley, il De Vigny, il Lamartine, l'Hugo, l'Espronceda, l'Andersen, il Pascoli, il France (citiamo alcuni soli, che ci appariscono significativi di varî aspetti del fatto), dimostrano che si ebbero fino ad oggi bellissime applicazioni di nuove maniere per intendere e trattare l'allegoria. Può dirsi in genere che, come il Leopardi magistralmente fece, si ha ora di solito, più che un "velo" sotto il quale si debba scorgere il "vero", un parallelismo tra i fenomeni e i fatti esposti, e un concetto morale, sociale, politico. Intiere scuole moderne si volsero al cosiddetto simbolismo. Ciò, per quanto è stato detto fin qui, come una tradizionale conseguenza di un passato secolare, e ciò ancora per concorrenza di presenti energie intellettive e morali. Una certa differenza fra la tradizionale allegoria e il simbolismo moderno sta nel fatto che quella fu, di solito, conoscitiva, e questo è, di solito, affettivo.
Il teatro di alcuni scandinavi, tra i quali grandeggia l'Ibsen, e la poesia drammatica del belga Maurizio Maeterlink han sempre più fatto prevalere cotesta tendenza. Un recentissimo romanzo francese, che mette in caricatura la Norvegia, ha potuto lepidamente raccontare come un'allegra commediola parigina, tradotta e adattata per il teatro di Oslo, fu acclamata là perché parve anch'essa ricolma, fino a traboccarne, di sensi reconditi sopra l'eterno mistero dell'amore. Il che fa, sorridendo, rammentare ciò che il Petrarca scrisse nel sec. XIV: "Non v'ha chi possa porre un freno ai trovatori di concetti nuovi: le spiegazioni, siano o no giuste, non si debbono mai rifiutare, quantunque per avventura non fossero mai passate pel capo de' poeti che inventarono la lettera di un testo".
Stanno contermini tra la letteratura e le arti figurative alcuni speciali spettacoli; tra i quali, dal Rinascimento in poi, con sempre piùforte ordito e in più larghi quadri, i balli coreografici. Nel melodramma incipiente, dopo 'l'intermezzi che lo prepararono, l'allegoria ebbe una parte cospicua e splendida: quindi le danze se ne staccarono in modo da costituire un ampio divertimento a sé. Per tutto il sec. XIX tali allegorie crebbero in gran voga (e durano tuttavia anche nelle cosiddette "riviste teatrali"), specialmente presentando la progrediente civiltà, dal Prometeo del Viganò all'Amor e all'Excelsior del Manzotti, per accennarc soltanto a spettacoli nostri.
Il titolo di quest'ultimo ballo ci riconduce alla poesia. Forse la lirica che in tutto il mondo civile, dall'America all'Europa e al Giappone, fu nell'Ottocento più divulgata e popolare, è l'ode Excelsior! Longfellow, la quale allegorizza le ardue imprese e la vittoria dell'incivilimento in un giovane che ascende su di un monte scosceso, recando, come insegna, il motto: "più in alto".
Nelle arti figurative.
V'è chi sostiene che anche nell'architettura si riscontrano fenomeni rientranti nell'allegoria. E certamente, pur durante il secolo scorso e questo, alcuni edilizî assunsero nel loro stesso organismo un carattere estetico omogeneo al fine cui tendevano; come già fu l'orientamento delle chiese, la loro forma a croce latina, le linee verticali della costruzione, ecc. dall'antico Medioevo in poi, per un effetto della riflessione allegorica. Ha ben più le arti figurative si valsero e si valgono dell'allegria, in affreschi, iluadri, statue, bassorilievi, arazzi, ornamenti d'ogni specie, seguendo di mano in mano le invenzioni fornite da opere letterario, e in alcuni casi facendo un corpo solo con quelle. Per indicare quest'ultima forma, tanto notevole, segneremo qui l'esempio di Francesco da Barbcrino, che, nella prima metà del Trecento, compose di versi e di miniature il suo libro Documenti d'amore; rammenteremo il mirabile volume della Hypnerotomachia Poliphili del 1499, romanzo illustrato; richiameremo alle incisioni, sopra accennate, preposte dal Vico alla Scienza Nuova, e dal Hobbes al Leviathan.
Una teoria, propugnata anche dal Foscolo, il poeta delle allegoriche Grazie, voleva affidato alla poesia, come uno degli scopi precipui, il suggerire agli, li artisti del pennello e dello scalpello immagini belle e ben determinate visivamente: anche a prescindere da ciò, la letteratura è inspiratrice. Le sculture nei sepolcri, i musaici, gli affreschi, alcuni arredi del culto cristiano continuarono sempre, con spiriti rinnovati, la tradizione greco-romana. Quindi si applicarono largamente a intendimenti allegorici sacri o morali gli attributi dei singoli santi e le leggende bibliche e agiografiche, e s'inventarono allegorie nuove, come le Danze macabre, delle quali, del resto, si conoscono ora precedenti classici in argenti scavati presso Pompei. Non tardarono, con fini satirici o burleschi, allegorie scolpite nelle chiese o altrove, e in ornati di stalli corali, di arredi, di ricami, e poi di arazzi. Giotto medesimo, che allegorizzava volentieri vizî e virtù, si divertì in Laricature. Come quella del Comune pelato, e dell'Asino tra il basto nuovo e il basto vecchio. Negli avorî antichi si ammirano frequenti episodì romanzeschi che sono simboli allegorici, quali Aristotele cavalcato dalla ragazza, Virgilio sospeso nella cesta, ecc.; e così giostre d'amore, ecc. A bell'ornamento servirono, dai Trionfi del Petrarca, lungamente, nei cassoni nuziali e in miniature, le allegoriche processioni di Amore, Morte, Castità, ecc. Può dirsi, in breve, che tutte le allegoriche invenzioni dell'antichità e del Medioevo si andarono riflettendo dalle carte in forme plastiche e in disegni.
Ha osservato giustamente il Mâle che per gli uomini del Medioevo il mondo può definirsi "una idea di Dio realizzata dal Verbo". Perciò ogni essere nasconde un pensiero divino e il mondo è un libro immenso scritto dalla mano di Dio e in cui ogni essere è una parola pregna di significato. La scienza perciò consiste non tanto nello studiare le cose per sé stesse, quanto nel penetrare gl'insegnamenti che Dio ha posto in esse per noi. In ogni essere è inscritto il sacrificio di Gesù e vi appare l'idea della Chiesa, l'immagine delle Virtù e dei Vizî. Il mondo morale e il mondo sensibile sono una cosa sola.
L'uomo nel Medioevo sa pure che, essendo stato creato alla libertà ed avendo per sua colpa turbato l'armonia del Cosmo, deve riconquistare l'affrancamento dalle necessità umane e la conoscenza del divino con il lavoro.
Questi concetti, espressi dai trattatisti medievali, hanno importanti sviluppi nelle arti figurative, dove le rappresentazioni si orientano sulle allegorie della vita morale e su quelle della scienza. Perciò noi troviamo nelle sculture, nei musaici e nelle pitture che decorano le cattedrali romaniche, le personificazioni dei Vizî e delle Virtù, la rappresentazione di leggende che illustrano le fasi della vita umana, l'immagine delle opere dell'uomo (così le professioni umili, come le arti liberali) distribuite nei varî mesi. Anzi la rappresentazione delle stagioni e dei mesi ha una parte cospicua nell'iconografia medievale.
In una lunetta del battistero di Parma l'Antelami espresse un episodio della leggenda di Barlaam e Josaphat, quello in cui si vede l'uomo che gusta i frutti stando sull'albero e non s'accorge dell'animale che ne corrode la base. In un distrutto musaico pavimentale in S. Savino di Piacenza era l'immagine del Labirinto col Minotauro e la scritta:
Hunc mundum tipice laberinthus denotat iste
Intranti largus, redeunti sed nimis artus
Sic mundo captus, viciorum male gravatus
Vix valet ad vite doctrinam quisque redire.
Il motivo diffusissimo della "ruota della Fortuna" (specialmente sulla fronte delle cattedrali) ammoniva sul perenne rivolgimento delle cose. Notevole fra tutte la "ruota" di Brioloto in S. Zeno di Verona, dove è scritto:
En ego Fortuna moderor mortalibus una
Elevo, depono, bona cunctis vel mala dono
Induo nudatos, denudo veste paratos
In me confidit, si quis derisus abibit.
Fra le miniature dell'Hortus deliciarum di Herrad di Landsperg, badessa di Hohenburg, si vede la Fortuna che fa girar la ruota provocando la salita e la caduta di varî uomini aggrappati al cerchio. Pur fra queste miniature vi è l'immagine dell'uomo considerato come riassunto del mondo.
Gli affreschi del Cappellone degli Spagnoli, in Firenze, furono detti a ragione lo schema di un'intiera enciclopedia domenicana. Esempî di primissimo ordine ci offrono le pitture di Sandro Botticelli, che da testi antichi e da suggerimenti umanistici trasse l'inspirazione alle invenzioni della Primavera, della Nascita di Venere, della Calunnia, della Pallade Medicea; e le incisioni di Alberto Dürer, alcune delle quali resero sensibili financo le mostruose ed evanescenti profezie dell'Apocalisse, e altre (il Cavaliere e la Morte e la Melanconia) determinarono, con tratti ed ombre, simboli eterni.
Non è questo il luogo di accennare neppure a tante altre principalissime opere dove il Rinascimento fece allegorie o sacre o profane. Era inevitabile, per gran parte di quella materia, nelle chiese e nei chiostri, a voler presentare le pugne e le vittorie della fede, che si ricorresse alle immagini fornite dagli atti autentici o dalle leggende dei santi, dalle meditazioni mistiche: ed era parimenti inevitabile che si ricorresse ai miti e alle figure della mitologia pagana; o seguendo questa senz'altro desiderio che di belle creazioni, o dando a quelle un significato nuovo, come anche i letterati facevano. Si rammentino, almeno, le pareti del Vaticano, tutte affrescate da Raffaello, e da altri, di storie interpretabili filosoficamente o in relazione a vicende recenti: la liberazione di San Pietro, il castigo di Eliodoro, Leone il Grande e Attila, la messa cruenta di Bolsena, la disputa del Santissimo Sacramento, la Scuola di Atene. Si rammentino, almeno, alcune tele di Giorgione (enigmatiche pel soggetto, e, appunto per ciò, da riconnettere ad allegorie umanistiche) e altre di Tiziano. Per tacere d'altro - e siamo costretti a tacere del Mantegna - Michelangelo stesso nel Vaticano, nella Cappella Medicea, nel tondo della Sacra Famiglia, e altrove, volle anch'egli infondere alle sue portentose creature un senso profondo. Né il barocco né il neoclassicismo rinnegarono l'allegoria, in esaltazioni di pontefici, di sovrani, di santi, d'eroi: dopo Paolo Veronese (1530-1588) e la sua Venezia trionfante, Luca Giordano (1632-1705) e il trionfo della dinastia medicea. Con fantasia e grazia il Watteau (1684-1721) dipinse L'embarquement pour Cythère; né la rinnegò (ben altro!) l'arte moderna fino ai dì nostri. Il che esemplificheremo soltanto con alcuni titoli e nomi: Apollo e le Muse, dell'Appiani; la Libertà che guida il popolo alle barricate, del Delacroix; l'Apoteosi di Omero, dell'Ingres; l'emiciclo delle Belle Arti del Delaroche; la Partenza per la guerra del Rude; la Danza del Carpeaux; gli affreschi di Puvis de Chavannes, ecc.
Quanto all'allegoria realisticamente satirica non faremo altro che segnare qui il nome del Goya, paghi di avvertire genericamente che moltissime delle caricature sociali e politiche nei sec. XVIII-XX, e tuttora, sono applicazioni nuove dell'antica allegoria schernitrice, con maggiore o minore acrimonia o giocondità burlesca, delle istituzioni civili e religiose e dei loro rappresentanti.
Bibl.: Volkmann, Die Rhetorik der Griecher und Römer, Berlino 1872, p. 367 segg.; Hersmans, Studies in Greek alelgorical Interpretation, Chicago 1906; Reinhardt, De Graecis theologis capita duo, Berlino 1910; K. Müller, Alelgorische Dichtererklärung, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. der class. Altertumswiss., Supplem. IV, coll. 16-22 (utili indicazioni di fonti).
J. Geffcken, Allegory, in Hastings, Encycl. of Religion and Ethics, Edimburgo 1908, I, p. 377 segg. (anche per la parte classica); E. Mangenot, Allégories bibliques, in Dictionnaire de théologie catholique, 3ª ed., Parigi 1923, I, i, col. 833 segg.; J. Pischel, in Die Kultur der Gegenwart, I, vii (Die Orientalischen Literaturen), Lipsia-Berlino 1925, p. 174 segg. (per l'India); G. F. Moore, Judaism in the first centuries of the Christian Era, Cambridge (Mass.) 1927, I, p. 274 segg. (per il giudaismo rabbinico); E. von Dobschütz, art. Bible in the Church, in Encyclop. of Religion and Ethic, cit., II, Edimburgo 1909, p. 579 segg.; id., art. Interpretation, ibid., VII, Edimburgo 1914, p. 300 segg.; id., Von Auslegung des Neuen Testaments, Gottinga 1927, p. 19 segg.; interessanti, oltre gli scrittori menzionati: Giunilio Africano, Institutio regularis divinae legis, in Patrologia Latina, LXVIII, o a cura di H. Kihn, Friburgo 1880; Eucherio di Lione (in Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 31, Vienna 1894); Adriano Monaco, in Patrol. Graeca, XCVIII; Isidoro Pelusiota (Ep., IV, 117 e 103; ibid., LXXVIII); S. Nilo (Epist., I, 118-177; II, 223, ecc.; ibid., LXIX); v. inoltre le voci bibbia, ermeneutica, esegesi biblica.
Per le interpretazioni di Virgilio, è classico D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, 2ª ed., Firenze 1896; su Dante, v. la bibliografia s. v., e specialmente: A. F. Ozanam, Dante et la philosophie catholique au XIII siècle, Parigi 1839 (cfr. E. Schérer, Nouvelles études sur la littérature contemporaine, Parigi 1865); A. Borgognoni, Scelta di scritti danteschi, a cura di R. Truffi, Città di Castello 1897, pp. 119 segg.; P. Chistoni, I simboli degli alberi e delle selve nella D. C., Milano 1910; E. Proto, L'Apocalissi nella D. C., Napoli 1905; L'Introduzione alle Virtù, ecc., in Studî medievali, Torino 1908, III, p. i segg.; L. Valli, Il linguaggio mistico di Dante e dei fedeli d'amore, Roma 1928 (da seguire con cautela); il Bullettino della Società dantesca italiana consultato a dovere, seguendo gl'indici, darà una copiosissima materia; fondamentale per l'interpertazione della Commedia è l'opera di K. Vossler, La D. C. studiata nella sua genesi ed interpretata (trad. ital.), 2ª ed., Bari 1927. Per le singole letterature si consultino le voci corrispondenti in questa stessa enciclopedia; e così si faccia di caso in caso, pei singoli autori, letterati, artisti, che qui sono rammentati nel testo. Qualche rimando speciale si avrà, p. es., in L. F. Benedetto, Il Roman de la Rose e la letteratura italiana, Halle 1910; F. Ruskin, Mornings in Florence (trad. ital., Mattinate fiorentine, Firenze 1908); C. Chiarini, Di una imitazione inglese nella D. C..., La Casa della Fama di G. Chaucer, Bari 1902; A. Mauro, F. del Tuppo e il suo Esopo, Città di Castello 1926, ecc.
Nel seguire al bisogno le tracce qui indicate e risalire alle opere singole sopra usi e costumi, forme d'arte, edifizî, arredi, ecc., cfr., oltre il reseto, per averne tali rimandi, A. Ebert, Histoire générale de la littérature du Moyen-Age (traduz. francese), Parigi 1883-1889; M. Manitius, Geschichte der lateinishen Literatur des Mittelalters, I-II, Monaco 1911 e 1923; A. Michel, Histoire de l'Art, Parigi 1905-1927 (collaborazione di varî); F. Novati: Freschi e minii del Dugento; con l'aggiunta di un capitolo inedito su l'origine e sviluppo dei temi iconografici nell'alto Medioevo, 2ª ediz., Milano 1925; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, Milano 1901, segg.; P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I, Il Medioevo, Torino 1927; E. Mâle, L'art religieux du XIII siècle en France, Parigi 1898; J. Sauer, Simbolik des Kichengebäudes, 2ª ed., Friburgo in B. 1924; P. D'Ancona: L'uomo e le sue opere nelle figurazioni italiane del Medioevo, Firenze 1923; ecc. E pel teatro italiano antico, in quanto comprendeva scenografia, arredi, letteeratura, cfr. E. Furno, Il dramma allegorico nelle origini del Teatro italiano, Arpino 1915.