Alle origini della polis: narrazione ed autorappresentazione nell'arte geometrica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le prime scene figurate complesse dell’arte greca si fanno spazio, a partire dal secondo quarto dell’VIII secolo a.C., nella serrata trama degli eleganti motivi ornamentali che ricoprono le pareti di vasi dipinti in stile geometrico; i soggetti prescelti, relativi soprattutto ai diversi momenti del rituale funerario e al tema della guerra, resi in uno stile di maestosa e solenne essenzialità, rimandano ai valori e agli ideali di una élite aristocratica emergente nel tessuto sociale della polis in via di formazione.
L’espressione “arte geometrica” abbraccia l’intera produzione artistica greca del periodo compreso tra 900 e 700 a.C. ca., ma deriva in particolare dal peculiare stile decorativo che caratterizza la ceramica dipinta, un prodotto che riveste un ruolo di assoluta preminenza nel complesso della cultura materiale della Grecia di questo periodo. È la ceramografia, in questo momento della storia greca, ad esercitare l’influenza più profonda e vivificatrice sulle altre arti visive, e sono i pittori di vasi la vera avanguardia artistica; anche per questo, la ceramica di età geometrica costituisce una fonte preziosissima per la conoscenza degli aspetti sociali, culturali ed antropologici di questa fase, così povera di testimonianze di altra natura, e così importante per la comprensione dei successivi sviluppi della civiltà greca. Nella ceramica dipinta di età geometrica giungono a completa maturazione le tendenze già espresse nella produzione vascolare del periodo precedente, che viene definito “protogeometrico” (metà XI - fine X sec. a.C.): la superficie dei vasi è quasi completamente occupata dalla fittissima stesura, in una vernice nera lucida distribuita su fondi a risparmio, di motivi geometrici ripartiti in fasce: meandri; catene di denti di lupo, di rombi, di zig zag, di rosette stilizzate; zone campite a scacchiera o a reticolo, la cui sapiente distribuzione enfatizza i profili curati e audaci di forme vascolari prodotte in atelier ceramici che già possono vantare un elevato grado di specializzazione. Tali motivi richiamano probabilmente le trame di preziosi tessuti, dei quali nulla è rimasto, importati dal Vicino Oriente, con cui i contatti commerciali riprendono sin dagli inizi del IX secolo a.C.; ma anche gli intrecci di canestri e contenitori realizzati con fibre vegetali, probabilmente assai diffusi.
I migliori atelier ceramici, già dall’età protogeometrica, hanno sede ad Atene, la città che in questo momento presenta il profilo artistico e culturale più definito, e che esercita sugli altri principali centri della Grecia una evidente influenza. È appunto ad Atene che, negli anni intorno al 770 a.C., con l’introduzione nella ceramica dipinta di scene figurate complesse, ha luogo una vera e propria rivoluzione che pone termine ad una fase – definita the long pictureless hiatus da uno dei più autorevoli conoscitori della Grecia di età geometrica ed arcaica, Anthony M. Snodgrass (1934-) – che aveva avuto inizio con il crollo dei regni micenei. Adesso, per la prima volta, si delineano quella abilità compositiva e quella tendenza alla narrazione destinate a costituire le fondamenta di un linguaggio visivo determinante per i successivi sviluppi delle arti figurative nel mondo greco e in quello romano, nonché, in ultima analisi, in buona parte del mondo occidentale fino ai nostri giorni. Rare, evanescenti figurine umane o animali compaiono episodicamente già nella ceramica prodotta prima del secondo quarto dell’VIII secolo a.C., ma come schiacciate ed emarginate in spazi periferici dalla dominante, rigorosa decorazione geometrica, o tradotte in elemento ornamentale che si adegua all’articolata razionalità della composizione, come le ritmiche teorie di cervi pascenti e di uccelli acquatici che talvolta si inseriscono tra le fasce di elementi geometrici.
Nell’astrazione rigorosa, quasi intellettualistica, di queste partiture ornamentali, che mostrano l’abilità e la fantasia dei pittori vascolari nella varietà dei motivi e nell’acribia minuziosa con cui sono riprodotti e alternati, la rappresentazione figurata per lungo tempo stenta a trovare il proprio posto; ma quando l’arte rappresentativa riesce finalmente a conquistarsi uno spazio, si tratta di un vero e proprio spazio pittorico: riquadri metopali e fasce che si configurano come finestre che si aprono su luoghi e momenti “altri” rispetto alla rarefatta concretezza della sintassi ornamentale geometrica. Per essere inserite armoniosamente nella simmetrica trama dei motivi geometrici, anche le figure umane ed animali subiscono un processo di geometrizzazione, che conferisce forma triangolare ai torsi e sviluppo filiforme alle membra; una geometrizzazione, tuttavia, che sa rispettare, e anzi esaltare, peculiarità e potenzialità del corpo umano e di quello animale, e suggerirne la mobilità raffigurando gli uomini in atto di camminare, e i cavalli che sollevano sulle punte le zampe posteriori, come se fossero prossimi a slanciarsi al galoppo: una caratterizzazione funzionale, dunque, che sa dar ragione del modo in cui questi corpi agiscono, e che ha ben poco a che vedere con il disegno infantile, con cui la pittura geometrica è pure stata frequentemente accostata.
Il repertorio iconografico delle scene figurate della ceramica tardogeometrica, concentrato sui momenti del rituale funerario e sulla guerra, si presenta, fin dalle prime apparizioni, straordinariamente ricco e dotato di notevole coerenza interna, costituito da temi che conosceranno un’inesausta fortuna fino alla fine dell’VIII secolo a.C.
È stato giustamente osservato dall’archeologo italiano Bruno d’Agostino (1936-) in un suo recente saggio (Alba della città, alba delle immagini? in “Tripodes. Quaderni della Scuola Archeologica Italiana di Atene”, 7, 2008) che la poetica dell’arte geometrica “nasce già matura, come Atena dalla testa di Zeus”; essa non è tanto il frutto dell’autonoma ricerca creativa di ceramografi stanchi del repertorio ornamentale geometrico, quanto delle esigenze autorappresentative della committenza, identificabile in una élite aristocratica emergente nella polis in formazione.
Una élite che ribadisce le proprie prerogative, i propri modelli comportamentali e le proprie norme sociali nel rituale funerario, nella tomba e nella composizione del corredo funebre, elementi compresi nel concetto omerico di geras thanonton, ovvero “ciò che è dovuto ai morti”: la celebrazione del rito e l’esaltazione dell’areté del defunto serviranno a definire quell’immagine del morto che diventerà patrimonio della memoria collettiva. Le prime scene figurate campeggiano soprattutto su vasi monumentali, alti anche più di 1,5 metri, utilizzati come segnacoli tombali, con la base rotta per accogliere le offerte liquide destinate al defunto e per consentire lo scolo delle acque piovane, ma anche per sottrarre simbolicamente questi contenitori all’uso terreno. Per le sepolture maschili, sono usati crateri (vasi da simposio da cui si attinge il vino diluito con acqua) che rimandano al ruolo dell’uomo nei riti sociali della classe aristocratica, o anfore con anse al collo, che nelle linee vagamente antropomorfe restituiscono al defunto quella corporeità che la morte gli ha rapito; anfore con anse al ventre, allusive ai compiti della donna nell’economia domestica, vengono utilizzate per segnalare le sepolture femminili.
Si tratta di opere dotate di un forte carattere di esclusività, appannaggio di un gruppo sociale ristretto, che le commissiona ad un numero altrettanto ristretto di ceramisti e ceramografi: se è vero che oltre il 90 percento dei vasi figurati con scene complesse di età geometrica sono di produzione attica, è altresì vero che buona parte di essi sono attribuibili all’attività del primo pittore vascolare di cui è possibile delineare la personalità artistica, il cosiddetto Maestro del Dipylon, degli artisti della sua cerchia e dei loro immediati successori. Il Maestro del Dipylon deve il nome convenzionale con cui è conosciuto nella letteratura archeologica ad una splendida anfora, alta 1,55 metri, rinvenuta nella necropoli nei pressi della “doppia porta” (Dipylon) di Atene: in essa, la serrata scansione ritmica dei raffinatissimi fregi con ornamentazione geometrica fa spazio ad una più ampia fascia tra le anse, in cui si svolge una scena di prothesis, cioè di esposizione del corpo della defunta sul letto funebre. Il dolore dei presenti si sublima nella ritualità del compianto funebre, che moltiplica il gesto di portarsi le mani alla testa in un ritmo ossessivo che si interrompe in corrispondenza di una figura più piccola (un bambino?) che accarezza teneramente il capo della defunta. Le scene di prothesis sono le più frequenti nella ceramica tardogeometrica figurata; distribuite in un arco cronologico più ampio rispetto alle scene di battaglia, sono tuttavia caratterizzate da una notevole uniformità compositiva, che presenta poche varianti, relative principalmente agli attributi che possono caratterizzare la figura del defunto, che di frequente, nel caso di individui maschi, è connotato come guerriero in virtù della presenza delle armi o di un picchetto d’onore di armati che partecipano alla cerimonia.
L’esposizione del defunto al cordoglio della comunità e al lamento funebre delle donne (threnos) è elemento fondamentale del rituale funerario eroico che compare più volte descritto nei poemi omerici. A questo momento segue il trasporto del defunto sul carro (ekphora) fino al luogo della cremazione e della sepoltura: e scene di ekphora compaiono sulla ceramica tardogeometrica, spesso in combinazione con quelle di prothesis, a dimostrare che quanto si ritiene necessario a garantire al morto onore e fama imperituri è stato compiuto. Il rito funerario di tipo “omerico” sembra dominare l’immaginario collettivo della élite aristocratica, che ostenta un legame preferenziale con quella lontana, favolosa “età degli eroi”, al punto da riservare a se stessa l’antico rito dell’incinerazione quando è ormai prevalente nelle necropoli greche il rito inumatorio, comparso a partire dagli inizi del IX secolo a.C.; e, soprattutto, al punto da riservare, dalla metà dell’VIII secolo a.C., agli antichi tumuli funerari di età micenea (che dovevano certo punteggiare in modo impressionante il paesaggio dell’Attica, dell’Argolide, della Messenia) un culto eroico che ne fa anche il fulcro di grandi santuari in formazione, come ad Olimpia, e addirittura di vere e proprie entità politiche.
In un contesto simile, è lecito domandarsi se certe scene riproducano eventi che hanno effettivamente avuto luogo, o se funzionino piuttosto quali sostituti simbolici, proiettando nel passato eroico l’episodio luttuoso che ha colpito il genos. Nella ceramografia tardogeometrica compaiono di frequente sfilate di carri che recano uomini armati, nelle quali è possibile riconoscere un richiamo ai giochi funebri che costituiscono un altro momento caratterizzante del funerale eroico, e che più volte compaiono nei poemi omerici. Non è possibile sapere se davvero nell’Atene dell’VIII secolo a.C. competizioni sportive accompagnino la sepoltura di personaggi illustri, ma queste immagini fanno piuttosto pensare a situazioni ideali, proiettate in un mitico e nebuloso passato anche grazie alla presenza di elementi che potremmo addirittura definire “antiquariali”. Tra questi, quello sicuramente più noto è lo scudo detto del Dipylon: un grande scudo bilobato, che non trova rispondenza nella panoplia ormai in uso nell’VIII secolo a.C. (quando sembra affermarsi lo scudo rotondo, elemento essenziale dell’armamento oplitico), ma che è probabilmente la reminiscenza di un prototipo in uso in età micenea.
Scudi del Dipylon compaiono frequentemente sia nelle già citate sfilate di carri (come nel celebre cratere monumentale, oggi conservato a New York, attribuito al Pittore di Hirschfeld, collaboratore o allievo del Maestro del Dipylon) sia in scene di battaglia per terra e per mare, in cui caratterizza una delle due fazioni in lotta. Altro elemento “arcaizzante” è il carro da guerra su cui troneggia il guerriero, armato di tutto punto, spesso guidato da un auriga, come in uno splendido cratere oggi al Louvre; ed è interessante a tale proposito ricordare che il carro da guerra, imprescindibile elemento della tattica militare di età micenea non più utilizzato nella Grecia di età geometrica, costituisce una delle più evidenti inserzioni antiquariali nell’Iliade, dove è continuamente citato senza però che il poeta sembri conoscere il suo effettivo uso in battaglia: i guerrieri omerici infatti se ne servono “come di un taxi” (come ha detto il filologo britannico John Chadwick) per raggiungere il campo di battaglia, ma per combattere scendono dal carro e si affrontano generalmente appiedati.
Compare frequentemente nel repertorio iconografico dell’VIII secolo a.C., e non solo in quello attico, una immagine costituita da due guerrieri che, nella maggior parte dei casi, sembrano affiancati e protetti da uno stesso, grande scudo (di forma rettangolare), ma che talvolta sembrano fondere le proprie membra in un unico corpo, come appare evidente nel frammento di un cratere di produzione argiva, in cui da un ampio torso, costituito da due triangoli uniti per i vertici, spuntano due teste, due paia di braccia e due paia di gambe.
Sono i cosiddetti Siamese twins, in cui si sono voluti riconoscere i due fratelli Molioni, formidabili guerrieri, che compaiono in due luoghi dell’Iliade, ricordati in entrambi i casi dal vecchio Nestore, che racconta fatti della sua giovinezza (Iliade XI, 709-752; XXIII, 629-643). Nei versi omerici essi sono connotati semplicemente come gemelli, ma un passo di Esiodo (Fr. 17A Merkelbach-West) fa esplicito riferimento alla loro deformità: si tratta di gemelli siamesi che hanno natura sia umana che divina, essendo stati generati sia da Attore, re di Orcomeno in Beozia, che da Poseidone (il duplice concepimento è una categoria concettuale spesso utilizzata nel mondo classico per spiegare la nascita di gemelli). Esiodo è originario della Beozia, ed è probabile che nella sua terra circolassero delle leggende relative a questa coppia così singolare, come dimostra anche una fibula in bronzo, di produzione sicuramente beotica e databile intorno al 700 a.C., in cui i nostri gemelli siamesi compaiono, con una struttura corporea che non lascia dubbi circa la loro natura, mentre combattono contro un guerriero armato di arco, forse Eracle.
Non tutti gli studiosi, tuttavia, concordano nel riconoscere nei Siamese twins i gemelli Molioni, giacché lo spazio piuttosto limitato che l’Iliade riserva loro non sembrerebbe giustificare la frequenza delle loro apparizioni nella ceramica geometrica. Si tratta di un esempio emblematico delle difficoltà che si incontrano quando si tenta di riconoscere scene e personaggi dell’epica omerica (o delle leggende alla base dei poemi omerici) nell’arte geometrica, nella quale non si sono ancora affermati né l’abitudine di designare i personaggi con delle iscrizioni né l’uso di una iconografia stabile che consenta il riconoscimento di ogni figura tramite il ricorso a specifici attributi. Sono numerosi (ma qui verranno ricordati solo pochi esempi) i vasi di età geometrica che hanno subito tentativi di interpretatio Homerica: ad esempio, la scena di naufragio su una celebre oinochoe (“brocca per il vino”) oggi a Monaco, in cui compare un personaggio che sembra seduto sullo scafo rovesciato della nave, è stata ricondotta al naufragio della nave di Odisseo successivo all’episodio delle vacche del Sole (Odissea XII, 403 ss.), dal quale soltanto l’eroe si salva; ma, a ben guardare, sull’oinochoe non solo il personaggio al centro, ma tutti i marinai tra le onde sembrano in qualche modo in contatto con lo scafo, come se il pittore avesse inteso concedere loro una possibilità di salvezza. Su un cratere da Tebe, poi, un uomo che sta per salire su una nave pronta a salpare, con tutti i rematori seduti ai loro posti, si volge verso una donna alla quale stringe il polso, come se volesse forzarla a seguirlo. Il gesto di prendere una persona per il polso (cheir epi karpo) indica una presa di possesso; per l’interpretazione di questa scena si è pensato, naturalmente, a Paride ed Elena, o ad Ettore e Andromaca, ma anche a Teseo e Arianna e a Giasone e Medea. In verità niente impedisce di pensare che l’immagine faccia riferimento ad un episodio di vita reale, magari finalizzato ad ammantare di un alone in qualche modo leggendario, a scopo di legittimazione, il ratto di una sposa.
Interpretare in senso epico o mitico le scene della ceramica geometrica è problematico, anche perché sono sicuramente molte le leggende che non hanno conosciuto una forma di codificazione che le trasmettesse fino a noi; magari storie familiari, narrate dalle nonne ai nipoti, intessute di episodi reali e di eventi fantastici e popolate da figure d’eccezione. Storie che sono l’orgoglio del genos che ad esse si richiama e che guarda al passato come ad un mondo in cui dominano i valori e gli ideali a cui si ispirano le élite emergenti di età geometrica. Le storie narrate per immagini sulla ceramica geometrica non hanno dunque soltanto un ruolo politico ed autorappresentativo legato agli interessi della committenza, ma anche un forte carattere normativo, rivolto in primo luogo alle giovani generazioni. In un mondo ancora così povero di immagini, i vasi monumentali che dominano il panorama delle necropoli ateniesi raccontano visivamente le imprese con cui si conquista la gloria e i riti funerari che rendono quella gloria immortale.