Alimenti
Legge contro gusto?
La normativa europea sull'alimentazione
di Clara Albani Liberali e Enrico Maria Cotugno
15 marzo
L'Unione Europea delibera a favore della possibilità di immettere sul mercato con il nome di cioccolato prodotti contenenti fino al 5% di grassi vegetali diversi dal burro di cacao. La notizia trova grande riscontro in tutti i media e ancora una volta le norme europee sono accusate di non rispettare le tradizioni gastronomiche nazionali. Le cose non stanno tuttavia così: l'intento del legislatore europeo è quello di scongiurare turbative al libero svolgimento del mercato interno e soprattutto di salvaguardare la sicurezza alimentare, tema che ha catturato con insistenza l'attenzione dell'opinione pubblica durante l'ultimo scorcio del 20° secolo.
Primi interventi
Fin dagli anni Sessanta del 20° secolo, anche quando la tutela dei consumatori non rientrava ancora tra le competenze di una Comunità Europea che aveva prevalentemente natura economica e si mostrava poco orientata verso le istanze dei consumatori (Trattato istitutivo della CEE, 1957), al centro dell'interesse delle istituzioni europee si è posta la sicurezza degli alimenti. Questo interesse non deve stupire affatto, se solo si considera che l'Europa comunitaria rappresenta il maggior importatore-esportatore al mondo di prodotti alimentari.
I primi interventi legislativi, anche in materia di alimentazione, sono stati, tuttavia, suggeriti esclusivamente dall'esigenza di rafforzare il mercato interno. Così le disposizioni comunitarie tendevano a evitare che differenze significative nelle produzioni o nel livello di protezione dei consumatori potessero divenire strumento di discriminazione arbitraria o di restrizione occulta nel commercio tra Stati membri. Non a caso, le prime norme che furono adottate in materia vertevano essenzialmente sulla produzione e il commercio di carne, nonché sull'etichettatura e la pubblicità di prodotti alimentari destinati al consumatore finale (direttiva CEE 79/112 del 18 dicembre 1978).
Nella fase che va dall'adozione dell'Atto unico europeo (1986) fino al definitivo lancio del mercato interno (1993), tale tendenza si è rafforzata. Si è assistito, in effetti, all'emanazione da parte del Consiglio della CEE - che rappresentava i governi dei singoli Stati membri - di un numero consistente di direttive e regolamenti, tesi a disciplinare in maniera estremamente tecnica determinati settori del mercato alimentare; tali regolamenti venivano emanati sempre su proposta della Commissione, istituzione dotata invece di potere di iniziativa e di potere esecutivo. A questo periodo risalgono varie direttive, per es. sulla produzione e la messa in commercio di carne, pesce, uova, molluschi, latte ecc. Tuttavia l'ottica restava sempre quella di creare un quadro di riferimento normativo per facilitare gli scambi all'interno della Comunità e gli investimenti a lungo termine.
Una svolta nella politica alimentare
Con l'entrata in vigore del Trattato sull'Unione Europea (1993), firmato a Maastricht, si apre una fase decisamente nuova delle politiche comunitarie in materia di alimentazione. La grande novità sta nel fatto che, sulla scorta del movimento di opinione scaturito da alcune crisi internazionali (Chernobyl) e interne (vino al metanolo in Italia, primi casi di 'mucca pazza' nel Regno Unito), tra le azioni di competenza della Comunità (art. 3) vengono inserite anche quelle volte "al conseguimento di un elevato livello di protezione della salute" (lettera o) e "al rafforzamento della protezione dei consumatori" (lettera s). Ciò comporta l'ingresso a pieno titolo, tra gli obiettivi comunitari, delle azioni di integrazione e di sostegno delle politiche degli Stati membri in fatto di tutela della salute umana (art. 129) e dei consumatori (art. 129A). Altra interessante novità risiede nel nuovo ruolo assunto dal Parlamento europeo - istituzione i cui membri sono eletti a suffragio universale, e dunque maggiormente rappresentativa e più vicina agli interessi dei cittadini - quale colegislatore affiancato al Consiglio.
Un maggiore interesse per la posizione dei consumatori si delinea già alla vigilia del nuovo Trattato. Presto viene alla luce, infatti, il primo intervento di carattere generale in materia di igiene alimentare: la direttiva CEE 93/43 del 14 giugno 1993, che resta ancora oggi il fondamento di qualsiasi intervento in questo campo.
Nella prefazione della direttiva, in cui si spiegano le motivazioni del provvedimento, il raggiungimento di uno standard adeguato di igiene viene indicato come strumento necessario a creare fiducia nel livello di sicurezza dei prodotti alimentari all'interno della Comunità, e quindi destinato a favorire il completamento del mercato comunitario. Allo stesso modo, viene citata in più parti la salvaguardia della salute dei cittadini come uno degli obiettivi che si intendono perseguire in via immediata, tracciando le regole a cui gli operatori economici dei singoli Stati debbono attenersi.
La direttiva assume, dunque, valenza 'orizzontale', cioè fissa il livello minimo di misure necessarie per garantire la sicurezza e l'integrità dei prodotti alimentari (art. 1) nelle fasi successive a quella della produzione (art. 2), dalla preparazione al confezionamento fino alla distribuzione. Di fatto viene introdotto per le imprese del settore (art. 3), sulla base dei principi del sistema HACCP (Hazard analysis and critical control points), il dovere di individuare le fasi più a rischio della catena di produzione e di garantire l'applicazione delle procedure di sicurezza più idonee. Non è esclusa comunque la possibilità per ogni singolo Stato di introdurre norme ancora più rigorose, purché queste non costituiscano un ostacolo agli scambi nella Comunità (art. 7). Diversi Stati, nella fase di trasposizione nazionale, si sono avvalsi di tale facoltà, suscitando a volte reazioni decise da parte dei piccoli artigiani e produttori.
In Francia, per es., il decreto interministeriale di trasposizione del 9 maggio 1995, che ha introdotto le norme sull'igiene degli alimenti distribuiti direttamente al consumatore, ha suscitato non poche polemiche per alcune misure considerate eccessivamente rigide. E proprio l'anno 2000 ha coinciso con la scadenza (16 maggio) della proroga di cinque anni concessa agli esercenti dei mercati all'aperto per adeguarsi agli standard tecnici stabiliti dal decreto. In particolare quelli, piuttosto alti, concernenti le temperature di conservazione degli alimenti e la cosiddetta 'catena del freddo' hanno inevitabilmente sollevato accese proteste da parte degli operatori del settore.
Anche in Italia l'applicazione della direttiva 93/43 non è stata affatto indolore e ha creato qualche difficoltà per le produzioni artigianali, costrette a conciliare il rispetto degli standard comunitari con quello delle tradizioni alimentari. In verità la norma di attuazione italiana (d. legisl. 26 maggio 1997, nr. 155) non introduce sostanziali novità rispetto al tenore della direttiva europea; tuttavia, le caratteristiche igieniche richieste per i locali e i mezzi di trasporto destinati alla produzione alimentare - alle quali gli esercenti avrebbero dovuto conformarsi già entro giugno 1999 - di certo non coincidono con i metodi classici di lavorazione di alcuni prodotti tipici della tradizione agroalimentare italiana. Tanto è vero che i media, con la consueta enfasi, recitavano il de profundis per le più ricercate leccornie del Bel Paese, travolte dalla 'burocrazia comunitaria'.
In verità, la stessa direttiva 93/43 prevede la possibilità di derogare ad alcune delle disposizioni dell'allegato, nel punto in cui si dettano le regole igieniche (art. 3.3). Ogni Stato membro, infatti, tramite i propri organi competenti, può inoltrare una richiesta di deroga alla Commissione, la quale si pronuncerà dopo aver sentito il parere del Comitato permanente dei prodotti alimentari (istituito con decisione della Commissione del 23 luglio 1997).
In Italia un sistema apposito di deroghe è stato approvato dal Parlamento, dietro la spinta sia delle organizzazioni di categoria e degli ambientalisti, sia dell'opinione pubblica e dei media, ed è entrato in vigore nei primi mesi del 2000, per dare soluzione al problema della salvaguardia dei 'prodotti di nicchia', cioè di quei prodotti particolari, che richiedono lavorazioni artigianali (cottura, stagionatura, conservazione ecc.) che si situano al di fuori delle regole comunitarie. La legge comunitaria per il 1999 (l. 21 dicembre 1999, nr. 526), all'art. 10, ha introdotto così alcune modifiche al già citato d. legisl. 97/155, prevedendo due tipi di eccezioni: una per i prodotti riconosciuti come 'tipici' e un'altra per quelli venduti in ambito locale.
Questa legge, infatti, ribadisce il divieto generale di esportazione e commercializzazione di prodotti alimentari non conformi alle prescrizioni della direttiva 93/43, fatta eccezione per quelli 'tradizionali', individuati ai sensi del d. legisl. 30 aprile 1998, nr. 173 (art. 10 comma 7). Viene inoltre precisato che non va considerata come 'commercializzazione' la vendita diretta, da parte dei produttori o degli organi di promozione, degli alimenti tipici al consumatore finale, purché essa avvenga nell'ambito della provincia della zona tipica di produzione (comma 8).
L'ampiezza del numero di prodotti che fanno eccezione alle regole igieniche generali dipende, in buona parte, dal corretto e tempestivo impiego del sistema di deroga da parte degli organi a ciò preposti, che sono rappresentati dalle Regioni. Gli assessorati regionali competenti, infatti, entro il 12 aprile 2000 hanno comunicato le liste di prodotti 'tipici' da ammettere al beneficio delle deroghe - liste poi aggiornate e pubblicate nel mese di agosto sulla Gazzetta Ufficiale (nr. 194) - e numerose sono state le specialità segnalate, tra le quali anche il famoso lardo di Colonnata e il formaggio di fossa.
Un 'lieto fine', dunque, per una vicenda che sul nascere sembrava destinata a concludersi con un'ecatombe per la tradizione culinaria italiana. Tutto ciò, ancora una volta, ha dimostrato come una gestione attenta dei problemi permetta alle autorità nazionali di trovare soluzioni equilibrate, nonché come troppo spesso i rapporti con la legislazione europea trovino un'eco distorta e allarmistica negli strumenti di comunicazione.
Equivoci e allarmismi di fine millennio
In effetti l'anno 2000 è stato teatro di diversi allarmismi, più o meno consapevolmente generati dai media, circa gli effetti 'devastanti' della legislazione comunitaria in materia di alimentazione sui prodotti più rappresentativi e simbolici della cucina italiana: la pizza, la pasta fresca, la mozzarella. Ma è davvero andata così? Davvero la burocrazia di Bruxelles è insensibile di fronte alle esigenze della gastronomia e marcia decisa verso un orizzonte fatto di alimenti omogenei e insapori? La realtà è ben diversa.
Esemplare è il caso della direttiva sul cioccolato (direttiva CE 2000/36): essa non rappresenta affatto, come è stato sostenuto a gran voce dai produttori artigianali e dai media, un attentato al cioccolato di puro cacao, che al contrario potrà essere valorizzato proprio pubblicizzandone l'aspetto artigianale. Il passo successivo da parte dei produttori di cioccolato 'ortodosso' sarà quello di conquistare il riconoscimento del marchio europeo STG (Specialità tradizionale garantita) per il prodotto contenente esclusivamente burro di cacao. Basterà, dunque, fare un po' più di attenzione alle informazioni contenute sull'etichetta per scegliere liberamente il tipo di cioccolato da preferire.
Un ragionamento simile può essere applicato al caso della pasta: in Italia si utilizza il grano duro, ma non per questo si può impedire ai produttori stranieri, che usano il frumento tenero, di esportare il loro prodotto nel nostro paese; ciò che conta è che la composizione sia chiaramente specificata sull'etichetta. Un'altra norma, volta a fissare il contenuto massimo di umidità nella pasta ha destato cori di invettive contro l'Unione Europea, ritenuta colpevole di voler far scomparire la pasta fresca, senza considerare che quella norma non veniva da Bruxelles ma dal Parlamento di Roma.
Allo stesso modo è bastata la notizia di un progetto della Commissione per la creazione di un'etichetta relativa all'uso ottimale dell'energia, e quindi di una sorta di marchio di qualità per le apparecchiature che utilizzano il calore, per dare il via all'allarme giornalistico contro la scomparsa dei forni a legna (e di conseguenza della pizza napoletana), data ormai per imminente e che invece non rientra affatto tra gli obiettivi dell'esecutivo di Bruxelles.
Un ulteriore caso, risalente al marzo 2000, è quello della mozzarella, e merita approfondimento perché davvero emblematico. Con i decreti ministeriali del 18 marzo 1994 e del 19 settembre 1994 il governo italiano ha adottato il test sulla furosina (composto di natura glucosidica presente nel latte in polvere) come metodo per verificare la presenza di latte in polvere nei latticini e nel latte pastorizzato, e quindi per 'smascherare' i prodotti non genuini. Tale normativa, però, avrebbe dovuto essere notificata alla Commissione europea prima della sua emanazione, secondo la procedura prevista per tutte le norme che introducono regolamenti tecnici all'interno dei singoli Stati membri. Se il governo italiano avesse provveduto alla notifica nei tempi previsti, non solo il test sarebbe stato legittimo, ma probabilmente sarebbe stato adottato a livello europeo. L'Italia non ha invece seguito le regole e, anzi, ha ignorato i solleciti in tal senso; la Commissione è stata quindi costretta ad aprire una procedura di infrazione nei suoi confronti, spingendo il governo italiano ad abrogare quei provvedimenti con d. m. del Ministero delle politiche agricole e forestali del 13 marzo 2000, intanto che i nuovi test erano in via di approvazione. Non si è trattato, dunque, di una bocciatura nel merito dei controlli sulla qualità dei latticini operata nelle sedi comunitarie per favorire i produttori stranieri, ma semplicemente di un'applicazione delle regole procedurali; per questo motivo la campagna di stampa scatenata contro l'ennesimo 'attentato' alla qualità della produzione italiana da parte dell'Unione Europea si è rivelata completamente infondata.
La crisi del sistema di controllo
Due episodi particolarmente gravi hanno messo in luce importanti falle nella gestione, nazionale e comunitaria, delle emergenze alimentari, dimostrando in particolare che i sistemi di controllo non erano in grado di seguire tutte le fasi di produzione degli alimenti in causa: la crisi della cosiddetta 'mucca pazza', originatasi negli anni Novanta del 20° secolo nel Regno Unito, e quella del pollo alla diossina, emergenza partita dal Belgio nel 1999. Si tratta di due casi diversi che però hanno evidenziato le debolezze del sistema della sicurezza alimentare a livello sia nazionale, sia europeo: nel primo la possibile trasmissione all'uomo dell'encefalopatia spongiforme bovina attraverso l'assunzione di carne proveniente da animali ammalati, nel secondo l'impiego di mangimi per polli contenenti sostanze tossiche hanno tenuto l'intero continente in stato di allerta.
Questi episodi hanno lasciato il segno non solo per le numerose vittime che hanno provocato ma anche a livello politico. Per la crisi della mucca pazza, il Parlamento europeo ha istituito, nel settembre 1996, una commissione di inchiesta con il compito di accertare le responsabilità degli organi comunitari e quelle del governo britannico, arrivando a un passo dal votare una mozione di censura nei confronti della Commissione. Nel 2000, stabilito il ruolo causale delle farine alimentari ci si è orientati sulla soluzione di proibire questo tipo di alimentazione.
In Belgio, per lo scandalo del pollo alla diossina, diversi ministri hanno presentato le dimissioni e il governo allora in carica, considerato responsabile dell'accaduto, dopo pochi mesi ha perso le elezioni. I produttori dei paesi coinvolti, evidentemente, hanno subìto danni ingentissimi, ma anche il costo per le istituzioni, in termini di credibilità, è stato elevato e ha posto l'obiettivo di riconquistare la fiducia dei cittadini al centro della nuova politica alimentare, come si vede dalle nuove proposte attualmente in via di adozione.
Organismi geneticamente modificati: una questione ancora aperta
Il problema degli organismi geneticamente modificati (OGM) merita un cenno a parte. Già da diversi anni in alcuni paesi dell'America Settentrionale (Stati Uniti e Canada) si fa uso in agricoltura di organismi il cui DNA viene modificato in laboratorio a seconda delle esigenze delle coltivazioni; questo tipo di produzione viene permesso dalle autorità in base al principio per il quale possono essere ammessi tutti i prodotti dei quali non si accerta la pericolosità. Su tale argomento l'atteggiamento europeo è invece più rigido, se non addirittura antitetico, per cui ogni OGM non autorizzato è proibito. Tra le due posizioni è dunque in atto un confronto serrato, che vede coinvolti interessi economici enormi, che spingono nell'una o nell'altra direzione.
L'Unione Europea, sulla base della propria normativa in materia (direttiva CEE 90/220), ha concesso, finora, il permesso unicamente per la coltivazione di diciotto prodotti, sulla base di analisi approfondite volte a escluderne la pericolosità per la salute, mentre per la commercializzazione di tali prodotti è richiesto un secondo parere a livello sia europeo sia nazionale.
Anche sull'aspetto dell'etichettatura la disciplina comunitaria (direttiva CE 97/35 e regolamento 97/258) si dimostra più restrittiva e attenta alla posizione del consumatore rispetto a quella statunitense: nei paesi dell'Unione Europea per tutti i prodotti che presentano una percentuale (1%) di OGM è obbligatoria l'indicazione sull'etichetta, mentre negli Stati Uniti un prodotto autorizzato alla commercializzazione viene automaticamente considerato innocuo e dunque non necessita di alcuna etichettatura specifica.
In questo contesto le ultime polemiche in ambito nazionale ed europeo (luglio 2000) si inseriscono in un doppio scenario di procedure in corso. Da un lato le richieste di autorizzazione per altri quattordici OGM sono bloccate dall'ottobre 1998 da un'azione congiunta di alcuni paesi dell'UE (Italia, Francia, Grecia, Danimarca e Lussemburgo); dall'altro la procedura di revisione della direttiva CEE 90/220 è ormai arrivata alla fase finale. Tuttavia il nuovo testo viene considerato troppo permissivo dagli stessi Stati già citati, che si oppongono alle nuove autorizzazioni e che insieme raggiungono il quorum necessario a paralizzare il voto in seno al Consiglio.
Tra gli argomenti più dibattuti rientra sicuramente quello della responsabilità civile dei produttori di OGM per i danni eventualmente causati alla salute umana e all'ambiente; l'emendamento che avrebbe dovuto introdurre tale responsabilità, con relativo obbligo di contrarre un'assicurazione, non è stato approvato dal Parlamento europeo per mancanza della maggioranza richiesta dal Trattato e ciò ha irrigidito ulteriormente la posizione dei cinque paesi dissenzienti.
Nuovi orientamenti per il futuro
In questa atmosfera piuttosto tesa e sotto la forte pressione dell'opinione pubblica e del Parlamento europeo, la Commissione ha adottato (21 gennaio 2000) un Libro bianco sulla sicurezza alimentare. Il testo era stato annunciato dal presidente della Commissione, Romano Prodi, nel suo discorso di investitura al Parlamento europeo (settembre 1999) ed era forse uno dei documenti politici più attesi dalla nuova Commissione.
L'obiettivo principale è quello di garantire un alto livello di sicurezza alimentare e il Libro bianco traccia le strategie e le proposte legislative che l'esecutivo conta di presentare nel prossimo futuro per raggiungere tale obiettivo. Le proposte legislative sono più di ottanta e riguardano vari aspetti, spaziando dall'alimentazione degli animali ai problemi veterinari, dagli OGM ai controlli sugli additivi, dagli alimenti dietetici alle norme generali di igiene, senza ovviamente trascurare la questione dell'etichettatura e della tracciabilità (cioè della possibilità di risalire a tutte le sedi in cui il prodotto è passato durante il ciclo di produzione) per le carni bovine.
I punti centrali del nuovo corso espresso nel Libro bianco sono due. Il primo va ravvisato nell'approccio cosiddetto 'dalla fattoria alla tavola', che viene enunciato e messo in pratica per la prima volta e con il quale si intende garantire la sicurezza degli alimenti mediante il controllo di tutte le fasi della produzione e della lavorazione. Grande attenzione è dedicata al problema della tracciabilità degli alimenti e a quello dell'informazione dei consumatori; a tale proposito, in particolare, viene proposta la modifica delle norme in materia di etichettatura e quindi la soppressione della possibilità di non menzionare gli elementi degli ingredienti composti che hanno una percentuale inferiore al 25% del prodotto finale.
Il secondo punto centrale del Libro bianco è rappresentato dalla creazione dell'AESA (Autorità europea per la sicurezza alimentare). Secondo la proposta della Commissione, che probabilmente verrà modificata e arricchita dal Parlamento europeo e dal Consiglio dei ministri nell'arco della procedura legislativa in corso, questa autorità dovrà formulare pareri scientifici, gestire un sistema di allerta rapida, instaurare un dialogo preferenziale con i consumatori e creare una rete con le agenzie nazionali e con gli altri organismi scientifici e i laboratori del settore. In pratica, l'AESA fornirà alla Commissione gli elementi necessari perché quest'ultima possa rispondere in modo appropriato, in tema di alimentazione, ai problemi e alla gestione dei rischi che si presenteranno in futuro. Essenzialmente l'autorità dovrà valutare i rischi, sorvegliare l'evoluzione delle situazioni pericolose, promuovere la cooperazione tra gli enti nazionali coinvolti e fornire le informazioni necessarie ai consumatori, molto disorientati dagli ultimi eventi. Restano, invece, ancora incerti i poteri reali dell'autorità nei confronti degli Stati membri e le procedure da adottare in caso di pareri contrastanti. In discussione vi sono anche la possibilità e le procedure di ricorso all'autorità da parte di singoli consumatori o di associazioni di categoria. L'AESA dovrebbe entrare in funzione a partire dal 2002 e hanno presentato la loro candidatura a ospitare questa nuova agenzia alcune città europee, tra le quali Helsinki (Finlandia), Barcellona (Spagna) e Parma (Italia). A proposito di quest'ultima candidatura è bene ricordare che tra i criteri che guideranno la scelta finale vi è anche quello dell'equilibrio geografico (cioè di un'equa distribuzione tra gli Stati membri delle sedi istituzionali); dunque a discapito della città emiliana potrebbe giocare la presenza in Italia della Fondazione europea per la formazione a Torino, del Centro europeo di ricerca a Ispra (Varese) e dell'Istituto universitario europeo a Fiesole (Firenze).
In parallelo al grande cantiere aperto dal Libro bianco si è cercato anche di dare una risposta all'inquietudine ingenerata nei consumatori dagli scandali della mucca pazza e dei polli alla diossina. È stato infatti adottato dal Parlamento europeo e dal Consiglio un nuovo sistema di etichettatura della carne bovina, che permetterà a partire dal 1o settembre 2000 di conoscere il codice e il paese del macello e a partire dal 1o gennaio 2002 anche il paese di origine dell'animale. Si tratta, evidentemente, di norme che hanno come obiettivo principale quello di garantire la sicurezza degli alimenti e la possibilità di controllo immediato in caso di crisi.
In conclusione, l'anno 2000 può essere considerato come una tappa fondamentale per il cammino verso la sicurezza alimentare, anche se non va dimenticato che, nonostante tutti gli sforzi delle istituzioni nazionali ed europee, l'eliminazione totale dei rischi resta ancora una meta da raggiungere. Al momento sicuramente esiste in Europa un sistema piuttosto completo di norme e di controlli sull'alimentazione, basato in buona parte sulla tracciabilità degli alimenti e sull'informazione; l'efficacia di questo sistema, però, richiede anche maggiore accortezza e sensibilità da parte dei consumatori.
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La malattia della 'mucca pazza'
Viene comunemente indicata con questo nome l'encefalopatia spongiforme bovina (BSE, Bovine spongiform encephalopathy), una sindrome neurodegenerativa letale dei bovini, descritta per la prima volta negli anni Ottanta del 20° secolo. Questa sindrome appartiene al gruppo delle encefalopatie spongiformi trasmissibili o malattie da prioni (dall'inglese prion: proteinaceous infectious particle, particella infettiva proteinica), del quale fanno parte anche lo scrapie della pecora e della capra e la malattia di Creutzfeldt-Jacob dell'uomo (forma di progressiva degenerazione del sistema nervoso, che si manifesta prevalentemente in età presenile).
Le prime manifestazioni di BSE sono state registrate nel 1986 nel Regno Unito, dove già nei primi anni Novanta la malattia aveva raggiunto proporzioni epidemiche. Nel corso degli anni Novanta casi di BSE si sono verificati anche in Francia, Danimarca, Portogallo e Svizzera. In Italia non ne sono mai stati accertati casi in bovini provenienti da allevamenti nostrani; soltanto nel 1994 ne sono stati registrati due, ma si trattava di bestiame di importazione inglese. La causa della BSE è stata identificata nell'impiego di farine animali infette. L'infezione si è originata per una serie concomitante di fattori, il più importante dei quali è stato la modifica dei metodi di trattamento dei sottoprodotti della macellazione utilizzati per la produzione delle farine di carne destinate all'alimentazione animale. Infatti, l'impiego di trattamenti termici ed estrattivi meno efficaci ai fini del risanamento ha determinato la diffusione dell'agente dello scrapie ovino e il suo trasferimento ai bovini. Il riciclaggio di materiale bovino infetto ha ulteriormente accresciuto le proporzioni del fenomeno. La BSE colpisce animali di età compresa fra i 22 mesi e i 18 anni, con un picco attorno ai 4-5 anni. Il tempo di incubazione medio varia tra quattro e sei anni. La sintomatologia clinica include variazioni del comportamento degli animali, che diviene aggressivo, modificazioni della postura e della deambulazione, tremori a carico dei muscoli degli arti anteriori e cedimento degli arti posteriori, difficoltà di recuperare e mantenere la stazione quadrupedale. Le alterazioni sono esclusivamente a carico dell'encefalo, localizzate principalmente nei nuclei del mesencefalo, del ponte e del midollo allungato. Da un punto di vista biochimico la malattia è caratterizzata dalla presenza di una proteina marker, la PrPr (prion protein), che presenta alcune varianti; una di esse, la PrPrSc (proteina dello scrapie), ha azione tossica e presenta la tendenza ad aggregarsi in placche. Queste placche, che probabilmente ledono le pareti delle cavità citoplasmatiche dei neuroni nelle quali si accumulano, determinano il caratteristico aspetto spongiforme del tessuto grigio negli individui affetti. La via di infezione naturale è quella orale, ma non viene esclusa la trasmissione per via materna. La diagnosi si effettua con l'analisi istologica, attraverso l'identificazione immunochimica della PrPr e mediante un metodo rapido sul liquido cerebrospinale. All'inizio degli studi sull'agente responsabile della malattia si sono sviluppate tre ipotesi: secondo l'ipotesi dei prioni, sostanze di natura proteica con elevata capacità moltiplicativa, l'agente sarebbe una proteina in grado di autoreplicarsi; secondo l'ipotesi virale, sarebbe l'associazione della proteina caratterizzante con un piccolo acido nucleico, per quanto di questo non sia stata mai trovata traccia; infine, secondo l'ipotesi del virino, potrebbe consistere in un tratto di acido nucleico agente-specifico in grado di codificare la proteina dell'ospite. Studi recenti hanno irrefutabilmente dimostrato la trasmissibilità della malattia all'uomo e confermato l'ipotesi che i prioni siano i veri responsabili delle encefalopatie spongiformi trasmissibili. Per queste ricerche, nel 1997, il neuropatologo statunitense S.B. Prusiner ha ricevuto il premio Nobel per la medicina o la fisiologia.
La forma di encefalopatia trasmessa dagli animali affetti da BSE all'uomo è denominata 'variante della malattia di Creutzfeldt-Jacob' (vMCJ). L'infezione si verificherebbe attraverso l'ingestione di carni infette, mentre non ne è stata provata la trasmissibilità da uomo a uomo. Il meccanismo attraverso il quale la malattia attacca il cervello può essere schematizzato nel seguente modo: un prione patologico entra in contatto con una proteina sana e la altera; la proteina modificata altera le proteine vicine, innescando una reazione a catena; l'accumulo delle proteine alterate fa agglutinare il tessuto cerebrale, generando i caratteristici 'buchi' delle encefalopatie. La malattia ha esordio precoce (tutti i casi descritti hanno un'età inferiore ai 55 anni) e una durata clinica superiore a un anno. I sintomi d'esordio sono rappresentati da disturbi comportamentali, modificazioni della personalità, depressione, dolori localizzati agli arti inferiori, cui seguono incoordinazione motoria, movimenti involontari, demenza. Fino alla fine del 2000 la vMCJ è stata accertata come causa di morte per ottantaquattro persone nel Regno Unito, tre in Francia e una in Irlanda. Nessun caso è stato segnalato in Italia. Nell'autunno 2000 un nuovo allarme sulla diffusione della malattia si è registrato a livello europeo, quando si è venuti a conoscenza che in Francia i casi di BSE si sono raddoppiati nell'ultimo anno. In conseguenza si è determinata la necessità di prendere adeguate misure di difesa dei consumatori. La prima di queste consiste nell'adozione sistematica di un test di biologia molecolare messo a punto nei primi mesi del 2000 in un laboratorio svizzero e capace di evidenziare in tempi brevi, attraverso l'analisi di un frammento di cervello, se un animale è positivo o meno al prione della BSE. Questo test, considerato attualmente l'unico mezzo scientificamente sicuro per accertare l'infezione, in Italia verrà reso obbligatorio nel 2001 nei quattrocentosettantotto macelli certificati dall'UE; le analisi riguarderanno tutti i bovini al di sopra dei 20 mesi di età. Altre misure sono relative all'intensificazione dei controlli sulle carni di importazione estera e alla limitazione dell'impiego di farine di carne nell'alimentazione dei capi da allevamento. Queste farine, che costituiscono un insidioso veicolo di contagio in quanto spesso è difficile risalire alla loro origine, sono attualmente bandite in Italia soltanto per gli allevamenti bovini; si valuta l'opportunità di estendere il divieto a tutti gli allevamenti animali.
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La contaminazione alimentare da diossina
La diossina è un composto organico eterociclico contenente un anello esatomico con due doppi legami e due atomi di ossigeno; ne esistono diverse formule, che differiscono tra loro per il numero degli atomi di cloro presenti (che può variare da uno a otto) e per la loro posizione nei due anelli benzenici. Il composto più tossico è il 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina, o TCDD.
La diossina si forma in ogni combustione in cui è presente cloro, in particolare in quella di plastiche clorurate. È una sostanza insolubile in acqua, si scioglie negli oli, nei grassi e nei saponi, è molto stabile (resiste a temperature anche molto elevate), si decompone lentamente a opera di radiazioni ultraviolette e non è biodegradabile. Assunta attraverso il cibo, si concentra nel tessuto adiposo dove rimane per anni. Anche in dosi molto ridotte, risulta altamente tossica per l'organismo umano: produce diversi tipi di lesioni (cutanee, oculari, epatiche, emorragiche) ed è responsabile di tumori, aborti, teratogenesi e alterazioni cromosomiche. In particolare, nel 1997 l'International agency for research on cancer, istituzione che fa parte dell'Organizzazione mondiale della sanità, ha ufficialmente riconosciuto la diossina come agente cancerogeno umano. La principale fonte di emissione di diossina è costituita dall'incenerimento dei rifiuti. Nonostante i miglioramenti degli impianti, infatti, la quantità di diossina prodotta da questo sistema di smaltimento dei rifiuti è tutt'altro che trascurabile: anche un impianto di incenerimento dell'ultima generazione, in un anno, emette in atmosfera circa 250 mg di diossina (una quantità cento volte superiore è trattenuta dagli impianti di filtrazione). Altre fonti di inquinamento da diossina sono rappresentate dalle industrie cartarie che fanno uso di sbiancanti al cloro e dagli impianti di produzione di polivinile. La diossina si infiltra nel terreno su cui si deposita ed è trasportata dall'acqua a distanze anche notevoli. Contamina quindi la vegetazione entrando nella catena alimentare, con concentrazioni crescenti a ogni passaggio. Per l'uomo la fonte maggiore di assunzione è costituita dagli alimenti, in particolare la carne, il latte e derivati.
Lo scandalo dei 'polli alla diossina' è scoppiato in Belgio nel giugno 1999, quando l'azienda Verkest, produttrice di mangimi per animali, è stata accusata di avere commercializzato in tutta Europa mangimi in cui è stata rilevata la presenza di diossina. La causa della contaminazione non è del tutto chiara: non è stato appurato, infatti, se una partita di olio sintetico fortemente contaminato sia finita per errore nella composizione dei mangimi oppure se l'impiego di materie prime non controllate fosse una pratica abituale da parte della Verkest. Comunque, la Commissione europea ha bloccato per vari giorni l'esportazione dal Belgio di polli, uova e anche di carni bovine e suine, e la vicenda ha avuto notevoli ripercussioni sul piano sia economico sia politico.
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Gli organismi geneticamente modificati
Finora la diffusione di alimenti geneticamente modificati si è limitata soprattutto all'agricoltura, cioè alla produzione di piante transgeniche. Tale produzione è ottenuta attraverso l'introduzione di geni provenienti da altri organismi in cellule vegetali e la successiva rigenerazione di piante a partire dalle cellule trasformate; questa nuova tecnologia, ricca di grandi potenzialità, ha rivoluzionato la biologia vegetale e potrebbe avere un notevole impatto sull'agricoltura stessa. Infatti, con tali metodi, è possibile non solo studiare in che modo i diversi geni sono attivi nei vegetali, ma anche trasformare le piante in fabbriche a basso costo per produrre nuove qualità di amido, grassi, plastiche ed enzimi di impiego farmaceutico e industriale. È possibile inoltre rendere le piante resistenti agli erbicidi e agli agenti inquinanti come l'ozono e utilizzarle per l'accumulo, lo smaltimento senza pericolo e la riconversione di inquinanti di origine industriale. Le piante coltivate possono infine essere modificate in modo da incrementarne la resistenza agli stress ambientali e alle malattie o da facilitare la produzione di ibridi.
Negli anni Ottanta del 20° secolo i primi rapporti scientifici sulla produzione di piante transgeniche (processo detto anche trasformazione) hanno aperto un nuovo mondo di possibilità di ricerca per i biologi vegetali. Questo settore della biologia è stato letteralmente rivoluzionato dalla possibilità di produrre piante transgeniche, cioè di introdurre nuovi geni nel patrimonio genetico dei vegetali o di sopprimere l'espressione di geni in esso presenti. Con tale tecnologia, in particolare, è possibile acquisire nuove conoscenze sul metabolismo delle piante, sulla funzione delle diverse cellule, sullo sviluppo, sulla fisiologia e sulla risposta a stimoli ambientali come la siccità, il freddo o la salinità del suolo. Inoltre, la trasformazione delle piante coltivate può permettere una produzione più efficiente di cibo, mangime per animali, fibre e prodotti farmaceutici, a beneficio dell'intera umanità. La trasformazione delle piante richiede una serie di tecnologie che sono, al giorno d'oggi, ampiamente diffuse nelle università, nelle industrie e negli istituti di ricerca. Ma fin dall'inizio i vantaggi e i pericoli dell'ingegneria genetica delle piante, specialmente per quanto riguarda i prodotti destinati all'alimentazione, sono stati oggetto di un acceso dibattito. La discussione ha coinvolto associazioni per la difesa dei consumatori, rappresentanti dell'industria, scienziati, legislatori e studiosi di etica. Nessun'altra innovazione nella produzione di cibo è mai stata sottoposta a un'analisi critica altrettanto approfondita. Vi sono stati anche pesanti boicottaggi dei primi alimenti prodotti da piante transgeniche apparsi sul mercato e opposizioni giudiziarie come, per es., quelle al conferimento di brevetti. Vista l'esperienza, è ragionevole pensare che la messa in pratica effettiva delle grandi potenzialità della trasformazione delle piante dipenderà soprattutto da due fattori: come i governi regolamenteranno la produzione di cibo e di altri prodotti ottenibili dalle piante transgeniche e se l'opinione pubblica accetterà o meno tali prodotti.
Regolamentazione da parte dei governi
Negli Stati Uniti, tre agenzie governative regolamentano la produzione di alimenti ottenuti mediante ingegneria genetica: la FDA (Food and drug administration), l'USDA (United States department of agriculture) e l'EPA (Environmental protection agency). La FDA ha sempre sostenuto la posizione secondo cui i prodotti dell'ingegneria genetica non richiedono regolamentazione aggiuntiva rispetto a quella necessaria per ogni prodotto alimentare o medicinale. L'USDA e l'EPA hanno, invece, sostenuto sin dall'inizio che sarebbe stato necessario regolamentare la coltivazione delle nuove piante prodotte grazie alle tecniche di DNA ricombinante. Una posizione simile, in favore di nuove regole, è stata presa dall'Unione Europea. La posizione regolamentarista si basa sul concetto secondo cui le piante prodotte tramite ingegneria genetica sarebbero più pericolose e avrebbero proprietà meno prevedibili rispetto a quelle prodotte secondo le tecnologie tradizionali. Tale visione è in parziale disaccordo con quella che riscuote il consenso degli scienziati dell'industria, del mondo accademico e degli istituti di ricerca governativi. Gli scienziati sostengono che il processo di regolamentazione dovrebbe focalizzarsi sui rischi tangibili associati alla comparsa di una nuova pianta e non sul metodo utilizzato per produrla.
Una fonte di notevole preoccupazione, sia in Europa sia negli USA, riguarda il problema delle etichettature speciali. È necessario, o comunque auspicabile, marcare con etichette speciali i prodotti alimentari derivanti dalle piante transgeniche esposti sugli scaffali di negozi, mercati e supermercati? Un'etichetta speciale fornisce delle informazioni utili per permettere al consumatore di prendere una decisione con cognizione di causa, o semplicemente aumenta la paura dell'ignoto? Si sarebbero dovute in passato etichettare in modo simile le nuove varietà di piante alimentari prodotte tramite irradiazione con raggi X o coltura di tessuti? In sostanza, è più importante il metodo utilizzato per creare una nuova varietà o il rischio noto costituito dal prodotto ottenuto? La proposta di etichette speciali è stata respinta negli Stati Uniti e in altri paesi, ma in Europa la questione non è ancora stata risolta. Le nuove varietà prodotte mediante ingegneria genetica contengono un certo numero di nuovi geni e proteine, ma lo stesso vale, e in misura maggiore, per le varietà prodotte con le tecnologie tradizionali di incrocio e selezione: in realtà, mediante le tecnologie tradizionali vengono trasferite porzioni ben più grandi di DNA.
L'unico problema che può sorgere riguarda le proteine allergeniche. Molti prodotti alimentari, anche di uso estremamente comune, contengono allergeni e gli individui allergici a determinati alimenti evitano di assumerli. Per es., alcune persone sono allergiche ai prodotti a base di farina di frumento: nel caso in cui una proteina nota per essere un allergene fosse trasferita dal frumento al pomodoro sarebbe giusto etichettare quei particolari pomodori transgenici scrivendo chiaramente che essi contengono una proteina di frumento, che costituisce un potenziale agente scatenante allergie. L'enfasi, in questo caso, sarebbe posta sul pericolo potenziale e non sul metodo utilizzato per produrre la nuova varietà di pomodoro. Considerando la questione da un punto di vista genetico, non vi è alcuna valida ragione scientifica per raggruppare tutte le piante prodotte mediante ingegneria genetica sotto un'unica categoria etichettabile in modo particolare. Nuove varietà di piante già in commercio e piante completamente nuove compaiono di frequente nei negozi e nei mercati e sono acquistate dai consumatori senza alcuna necessità di etichette particolari.
Introduzione di geni nel genoma della pianta
La produzione di piante transgeniche richiede diversi passaggi. Anzitutto, è necessario un sistema di trasformazione efficiente. Quello attualmente più usato, la trasformazione mediata da agrobatterio, si basa su un meccanismo naturale di trasferimento di geni che avviene quando il batterio Agrobacterium tumefaciens, che causa nelle piante la galla o tumore del colletto, trasferisce una breve sequenza di DNA plasmidico al genoma della pianta infettata. Una scoperta fondamentale è stata che ceppi virulenti di Agrobacterium tumefaciens contengono un grande plasmide extracromosomico (cioè non facente parte del singolo cromosoma del batterio), che è stato chiamato Ti (tumor-inducing, induttore di tumore). L'evento molecolare che provoca la formazione del tumore è il trasferimento e l'integrazione stabile di un preciso frammento del plasmide Ti all'interno del genoma della pianta infettata. Il frammento, che è stato chiamato T-DNA (transferred DNA), contiene alcuni geni, tre dei quali producono enzimi coinvolti nella via biosintetica di alcuni ormoni vegetali. L'aumento di sintesi di ormoni che ne deriva determina la crescita tumorale. Dunque, la formazione di tumori dovuta a infezione da agrobatterio necessita del trasferimento di geni da un batterio a una pianta superiore e può, conseguentemente, essere considerata un esempio di ingegneria genetica naturale.
L'osservazione che grandi porzioni di T-DNA possono essere eliminate e sostituite con frammenti di DNA completamente diversi ha aperto la strada all'introduzione di qualunque gene nelle cellule vegetali. L'introduzione simultanea del gene in esame e di geni marcatori codificanti dominanti e selezionabili, l'eliminazione dal T-DNA dei geni che presiedono alla sintesi di ormoni e lo sviluppo del sistema di trasformazione che utilizza frammenti di foglie detti dischi fogliari hanno facilitato la produzione e la selezione di piante transgeniche e determinato lo sviluppo esplosivo della biologia molecolare delle piante. In ogni procedura di trasformazione solo una piccola percentuale delle cellule sottoposte al trattamento viene effettivamente trasformata; i marcatori dominanti selezionabili, come per es. la resistenza a un antibiotico, permettono la riproduzione delle cellule trasformate ma non di quelle non trasformate, che vengono uccise quando al mezzo di coltura è aggiunto l'antibiotico. L'eliminazione dei geni che presiedono alla sintesi degli ormoni fa sì che le cellule trasformate diano origine a una nuova pianta, invece che continuare ad accrescersi come callo (cioè un ammasso indifferenziato di cellule) tumorale. Sebbene il sistema di trasferimento di geni mediato dall'agrobatterio sia il più conveniente per produrre piante transgeniche, esso non può essere applicato a ogni specie vegetale: per es., non si è riusciti a trasformare con l'agrobatterio la maggior parte delle Monocotiledoni. Si stanno quindi compiendo sforzi consistenti per sviluppare sistemi di trasferimento diretto di DNA, senza l'ausilio di plasmidi e batteri. Le tecniche alternative di trasformazione comprendono il microbombardamento con particelle ricoperte di DNA, l'uso di vettori virali, la trasformazione di protoplasti tramite elettroporazione o trattamento con polietilenglicol (ambedue i procedimenti aumentano la permeabilità della membrana plasmatica e dunque facilitano l'introduzione di DNA), la microiniezione di DNA in protoplasti e la macroiniezione o l'infiltrazione di DNA in germogli vegetativi o in tessuti fiorali.
Problemi ecologici
Attenzione particolare viene riservata agli aspetti ecologici della coltivazione di piante transgeniche. Possono queste piante diventare infestanti incontrollabili? Possono i nuovi geni trasferirsi in popolazioni di piante selvatiche a causa di incroci spontanei fra la varietà coltivata e le varietà selvatiche? Quale sarà l'effetto della diffusione dell'uso di erbicidi e pesticidi sull'evoluzione di erbe e insetti infestanti?
Non vi è ragione di pensare che le piante transgeniche possano facilmente diventare infestanti incontrollabili. Molte specie vegetali esotiche che in passato hanno invaso nuovi territori sono diventate dei seri infestanti, come per es. il tumbleweed (Salsola kali), l'erba arrotolata e trasportata dal vento che è arrivata negli USA come contaminante di partite di semi provenienti dall'Europa e ha invaso le pianure dell'America Settentrionale negli anni Settanta del 19° secolo; in questo senso, però, gli organismi geneticamente modificati non devono essere considerati esotici. Essi, infatti, rappresentano piuttosto specie già presenti in una determinata zona, alle quali sono stati aggiunti uno o due nuovi geni che conferiscono alla specie in questione un vantaggio per sopravvivere in quel particolare ecosistema.
Tuttavia, nel caso in cui nella stessa area di coltivazione di una determinata pianta transgenica crescano anche piante selvatiche a essa imparentate, i geni introdotti mediante ingegneria genetica possono trasferirsi alle varietà selvatiche. Un simile evento è stato documentato in Danimarca per quanto riguarda la colza (Brassica napus) transgenica e l'infestante Brassica campestris. Lo stesso problema può presentarsi per il girasole negli USA, per il mais e i fagioli in Messico, per il pomodoro in America Meridionale e in tutti gli altri casi in cui sono presenti varietà selvatiche di specie coltivate. Non è scontato che un simile trasferimento di geni sarebbe dannoso per l'ecosistema naturale o per gli agricoltori. Questo tipo di trasferimento avviene già ora, solo che i donatori sono costituiti dalle varietà di elite prodotte mediante tecniche tradizionali. È molto improbabile che il trasferimento di geni crei dei superinfestanti, poiché i caratteri trasferiti non conferiscono alcun vantaggio selettivo in un ecosistema naturale.
Problemi etici
Un altro gruppo di questioni riguarda i problemi etici connessi alla decisione di permettere il brevetto di forme di vita e quelli del giusto compenso. Secondo le legislazioni dei paesi industrializzati, chi inventa qualcosa ha il diritto di essere protetto, in modo da poter trarre un profitto dalla propria invenzione. Il problema è se questo diritto si possa estendere alle forme viventi e, in caso affermativo, se gli agricoltori o altri debbano essere ricompensati per avere mantenuto comunità di piante in cui piante selvatiche contenenti geni utili hanno trovato rifugio. Le industrie biotecnologiche dei paesi sviluppati insistono che gli organismi viventi possano essere brevettati e che debba essere permesso trarre profitto da queste invenzioni. In genere, i governi degli stessi paesi hanno sostenuto questa posizione. Ma chi è il proprietario dei geni o delle piante da cui essi provengono? Sono questi patrimonio dell'umanità, a disposizione gratuita di chi desideri farne uso, o le specie e le varietà indigene sono, invece, risorse che appartengono a chi le mantiene? Il fatto è che la maggior parte delle piante che forniscono cibo all'umanità proviene da paesi poveri e in via di sviluppo dell'Africa, America Latina e Asia, mentre la maggior parte dell'uso commerciale di queste risorse genetiche ha luogo nei paesi sviluppati. Le grandi industrie dei paesi ricchi sarebbero felicissime di vendere a quelli poveri le versioni migliorate degli stessi semi che hanno avuto origine proprio in questi paesi. Trovare una soluzione adeguata ed equa non sarà facile.
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Nuove frontiere dell'alimentazione
I nuovi stili di vita che stanno modificando la struttura della società nei paesi occidentali comportano una diversa concezione del modo di alimentarsi. Tra i fattori che oggi influenzano in modo rilevante le scelte alimentari e le conseguenti offerte di mercato vanno annoverati la diffusa preoccupazione per la salute e l'ideale della magrezza. In effetti, le indicazioni sanitarie, pubblicizzate come mai nel passato e amplificate attraverso la stampa e la televisione, hanno fatto acquisire una nuova consapevolezza dei rapporti tra alimentazione e salute, generando la speranza che con un'alimentazione appropriata sia possibile prevenire o ritardare l'incidenza di malattie degenerative, quali il diabete, le malattie cardiovascolari e il cancro. Il messaggio principale che ha investito la popolazione è tuttavia quello che il rischio di contrarre malattie degenerative aumenta con l'aumentare del peso corporeo, per cui il nemico principale da combattere è, in realtà, l'obesità. L'ideale della magrezza è divenuto così un modello quasi ossessivo che coinvolge tutte le fasce della popolazione: quelle più mature che lo inseguono per ragioni salutistiche, quelle adolescenziali e giovanili che ne fanno una ragione estetica e di aderenza ai modelli imposti dalla moda. In questa fase, che sembra di ricerca e sperimentazione di un nuovo modo di alimentarsi, è inoltre riemerso, in versione moderna e scientifica, l'antico concetto secondo cui negli alimenti, soprattutto in quelli di origine vegetale, sono contenute sostanze che, pur non avendo carattere nutrizionale, sono tuttavia capaci di esercitare un effetto biologico benefico per la salute fisica e psichica degli individui.
A queste tendenze in atto nelle società dei paesi sviluppati, le industrie alimentari hanno risposto tempestivamente progettando e producendo nuovi alimenti da immettere sul mercato. Questi alimenti, solo parzialmente realizzati, possono essere suddivisi in due grandi gruppi: il primo è quello degli alimenti a ridotto contenuto energetico, nei quali la componente lipidica naturale viene ridotta o addirittura sostituita con formulazioni chimiche di diversa natura; il secondo è quello dei cosiddetti alimenti funzionali, pensati come alimenti in grado di esercitare uno specifico effetto benefico sulla salute, in virtù delle particolari sostanze che vengono in essi incorporate.
Alimenti a ridotto contenuto energetico
Considerato che i lipidi sono nutrienti con densità energetica più che doppia rispetto a carboidrati e proteine, il primo intervento dell'industria alimentare è stato quello di immettere sul mercato una fascia di alimenti detti leggeri o light, nei quali la riduzione del valore energetico è stata ottenuta diminuendo, mediante appropriati accorgimenti tecnologici, la componente lipidica naturale delle precedenti formulazioni. Molti di questi prodotti sono presenti sul mercato italiano, con varie denominazioni commerciali.
Gli interventi più innovativi, alcuni dei quali in fase di studio, sono però rivolti alla sostituzione integrale o parziale dei grassi naturali con sostanze di natura diversa che, pur mimando le proprietà funzionali e organolettiche dei grassi, siano strutturate chimicamente in modo da essere scarsamente o affatto digerite: il loro contributo energetico verrebbe quindi minimizzato o diventerebbe addirittura nullo. Queste sostanze vengono elaborate soprattutto in USA e sono conosciute nella letteratura scientifica di lingua inglese con i nomi di fat substitutes e fat replacers, che potrebbero essere tradotti in italiano con i termini di 'sostituti o surrogati dei grassi'.
Come esempio di sostituto dei grassi, con valore energetico nullo, può essere citato il composto Olestra, approvato dalla stanutitense FDA il 24 gennaio 1996, con alcune limitazioni d'uso. L'OlestraTM, ora chiamato OleanTM, viene sintetizzato facendo reagire il saccarosio con acidi grassi a catena lunga: si ottiene così un poliestere del saccarosio che non viene attaccato dagli enzimi digestivi e quindi non viene assorbito e non fornisce energia. Le limitazioni d'uso imposte dalla FDA prevedono che si possa usare l'Olestra solo in alimenti come crackers, patatine e altri tipi di snacks, purché questi vengano addizionati con le vitamine A, D, E e K. Uno degli aspetti negativi dell'Olestra è infatti che, essendo di natura lipofila, può solubilizzare nutrienti essenziali di natura lipidica, conglobandoli e impedendone l'assorbimento; inoltre, passando intatto nel colon, può generare disturbi di tipo gastrointestinale. La sperimentazione di questo prodotto è stata per ora effettuata solo dall'industria produttrice e nulla è noto circa gli effetti a lungo termine in persone che ne facciano un sostanziale uso giornaliero. Per avere un'idea della quantità che potrebbe essere ingerita, una confezione di 28 g (1 oncia) di patatine contiene 8 g di Olestra.
La Caprenina fa invece parte di una sottoclasse, chiamata dei 'grassi strutturati' (designer lipids), ottenuti interesterificando il glicerolo con miscele di acidi grassi selezionati con finalità specifiche, tra cui quella di essere parzialmente non assorbiti. Si tratta quindi di veri e propri trigliceridi sintetici, con le stesse proprietà funzionali dei grassi convenzionali, compresa la resistenza alla cottura. La densità calorica della Caprenina è di 5 kcal per grammo, invece delle 9 kcal dei grassi convenzionali; essa ha le stesse proprietà funzionali del burro di cacao e viene infatti già usata nella produzione di alcuni dolciumi. La Caprenina è stata brevettata e considerata GRAS (Generally recognized as safe), per determinati usi, dalla FDA.
Ogni grande industria alimentare ha prodotto un certo numero di queste sostanze sintetiche, per ragioni concorrenziali e di brevettabilità. Quelle che abbiamo citato a titolo di esempio sono sufficienti per farsi un'idea del tipo di ingredienti che potrebbero essere ingeriti, qualora anche in Europa venisse approvato il loro uso negli alimenti prodotti industrialmente. La legislazione europea, tuttavia, è abbastanza restrittiva al riguardo.
Nel gruppo dei sostituti dei grassi esistono anche prodotti di origine protidica o glucidica. Tra i primi sono molto note le proteine microparticolate (MPP), che vengono ottenute da proteine dell'albume d'uovo o del siero di latte, trattate tecnologicamente in modo da coagulare in minutissime particelle sferoidali di 0,1-2,0 µm di diametro. La lingua umana non è in grado di distinguere particelle così minute come singole entità, ma le percepisce invece come un fluido cremoso che tende a rivestire le papille gustative, come fanno i grassi. Questo è importante dal punto di vista sensoriale, anche perché permette agli eventuali aromi o sapori veicolati dall'alimento di raggiungere lentamente e gradualmente i recettori dell'olfatto o del gusto. Dal punto di vista nutrizionale le MPP vengono digerite e assorbite come qualsiasi altra proteina e vengono quindi classificate come GRAS dalla FDA. Il loro valore energetico (4,0 kcal/g) è meno della metà di quello dei grassi: si ottiene così una riduzione del valore energetico dell'alimento in cui esse hanno sostituito i grassi.
Le proprietà funzionali dei grassi possono essere mimate anche da sostanze di natura glucidica, quali l'amido, le maltodestrine, il polidestrosio, la cellulosa, le quali, opportunamente modificate fisicamente o chimicamente, possono stabilizzare all'interno dell'alimento una quantità sostanziale di acqua, formando una specie di matrice gelatinosa con proprietà fisiche simili a quelle dei grassi. Le sostanze mimetiche a base di carboidrati hanno però alcune limitazioni d'uso: non possono essere impiegate per friggere e l'alto contenuto d'acqua ne abbrevia la durata di conservazione. Il loro uso è quindi limitato a prodotti quali condimenti da insalata, salse, dessert freddi. Gli amidi modificati e le maltodestrine sono prodotti da varie industrie nordamericane.
Privo di valore energetico è invece il gel di cellulosa, noto anche come cellulosa microcristallina o MCC. Viene preparato sottoponendo la polpa di cellulosa a idrolisi acida e poi a forte attrito meccanico; la struttura fibrosa si frammenta così in aggregati cristallini di natura colloidale, con aspetto di gel, che vengono essiccati insieme a carbossimetilcellulosa o altri composti funzionali, come la gomma di guar. Gli ingredienti funzionali formano un reticolo che serve a trattenere i microcristalli di cellulosa e a facilitarne la dispersione in acqua. Questo reticolo fornisce al gel di cellulosa le proprietà funzionali richieste per sostituire i grassi, come la sensazione cremosa in bocca e una determinata consistenza del prodotto alimentare.
Alimenti funzionali
Premesso che, a rigor di termini, tutti gli alimenti possono essere definiti 'funzionali' dato che a essi viene attribuita la funzione primaria di assicurare all'organismo energia e nutrienti specifici, la novità emergente rappresentata da questi alimenti è che a essi si vorrebbero attribuire speciali funzioni salutari, in virtù di particolari sostanze naturali in essi contenute. Questa nuova linea di tendenza dell'industria alimentare trova origine nello spostamento d'interesse che si è verificato nel mondo della ricerca verso le numerose sostanze non nutrizionali contenute negli alimenti. Queste sostanze, generalmente chiamate sostanze fitochimiche, pur non avendo uno status nutrizionale riconosciuto, vengono considerate dotate di un'attività biologica propria che a volte può essere protettiva o curativa per l'organismo. Un esempio è costituito dai bioflavonoidi o in genere dalle sostanze di natura fenolica di cui sono ricchi molti vegetali, erbe aromatiche e spezie, o prodotti da essi derivati come il vino rosso: queste sostanze vengono in effetti ritenute capaci di proteggere l'organismo dagli stress ossidativi, considerati causa o concausa di molte malattie degenerative e dello stesso invecchiamento. Gli esempi più noti delle centinaia di diversi composti fenolici presenti nei vegetali sono costituiti dalla quercetina, abbondante nelle cipolle, dalle epicatechine ed epigallocatechine, presenti sia nel tè verde sia in quello nero, dall'acido caffeico, presente in mirtilli, prugne e uva, dal resveratrolo, presente nel vino rosso, dalla curcumina, presente nella senape ecc.
Nella letteratura scientifica di lingua inglese gli alimenti funzionali, tuttora vagamente definiti e in parte sovrapponibili con altri tipi di alimenti già presenti sul mercato, sono anche indicati con termini come pharmafoods e nutraceuticals. Questa commistione di termini farmaceutici, medici e nutrizionali è appunto coniata in modo da suggerire al consumatore un effetto di tali alimenti sullo stato di salute, che potrebbe attraverso la loro assunzione essere protetto, minimizzando la necessità di cure mediche costose per la comunità.
Particolarmente studiati e già presenti sul mercato italiano, anche se non con il nome di alimenti funzionali, sono inoltre alcuni latti fermentati aventi l'aspetto e la consistenza dello yogurt (la legislazione corrente non permette di chiamarli yogurt, denominazione riservata a latti in cui la fermentazione è ottenuta esclusivamente con Lactobacillus bulgaricus e con Streptococcus thermophilus). Questi latti fermentati, a seconda della loro formulazione e dell'ipotizzato meccanismo d'azione, possono essere suddivisi nelle categorie degli alimenti prebiotici e probiotici. Sia gli uni sia gli altri hanno la finalità di influenzare positivamente la fisiologia del tratto intestinale.
Gli alimenti prebiotici sono così denominati perché contengono sostanze, quali gli oligosaccaridi, che non venendo digerite dagli enzimi presenti nell'intestino umano passano intatte nel colon dove diventano un substrato fermentativo preferenziale e selettivo per un determinato biota batterico: quello dei bifidobatteri normalmente residenti nel colon. La proliferazione dei bifidobatteri nell'ultima parte dell'intestino, come conseguenza dell'ingestione degli oligosaccaridi, è ritenuta positiva per la salute, perché in tal modo si terrebbe sotto controllo o addirittura si impedirebbe la colonizzazione del colon da parte di altre specie batteriche poco favorevoli per l'ospite umano, sia perché putrefattive, sia perché potenzialmente patogene. Gli oligosaccaridi più usati nella formulazione dei latti fermentati sono i frutto-oligosaccaridi, zuccheri meno dolci del saccarosio, costituiti da una molecola di saccarosio cui sono legate da una a quattro molecole di fruttosio. Essi sono naturalmente presenti in molti alimenti come banane, aglio, cipolle, pomodori, asparagi e miele e possono quindi essere normalmente ingeriti in quantità che si approssimano al grammo, qualora questi alimenti facciano parte dell'alimentazione abituale. Commercialmente vengono prodotti da varie industrie nordamericane e giapponesi e possono essere incorporati in alimenti come yogurt, bevande analcoliche, biscotti, dolciumi, cereali da prima colazione. Essi sono già usati nella formulazione di alcuni latti fermentati commercializzati in Italia.
Gli alimenti probiotici contengono invece particolari ceppi di batteri lattici vivi, che si ritiene siano in grado di sopravvivere al transito nello stomaco dove l'acidità del succo gastrico esercita normalmente un'azione battericida. Questi batteri lattici vengono considerati capaci di interagire con la mucosa intestinale migliorandone la funzione di difesa immunitaria e prevenendo possibili infezioni intestinali. Il presupposto perché ciò avvenga è che essi abbiano proprietà adesive, per non essere dilavati al passaggio del materiale alimentare in corso di digestione nell'intestino tenue; l'altro presupposto è che essi vengano introdotti in modo continuativo, affinché l'effetto non sia transitorio.
Il mercato degli alimenti funzionali ha avuto origine in Giappone, unico paese che li ha finora sottoposti a regolamentazione permettendo alle industrie alimentari di designarli ufficialmente come FOSHU (Foods for specified health use) qualora superino determinati controlli di efficacia clinica e sicurezza d'uso. Due alimenti approvati come FOSHU sono il riso ipoallergenico, ritenuto atto a prevenire le dermatiti atopiche associate al consumo di riso, e il latte a basso contenuto di fosforo per persone affette da malattie renali. In Giappone lo sviluppo degli alimenti funzionali, anche se non etichettati come FOSHU, è stato favorito dalle autorità governative a sostegno delle industrie alimentari e ha trovato enorme espansione e favore da parte del consumatore, anche in virtù dell'antica tradizione culturale di questa e altre popolazioni orientali che considerano i cibi anche come medicine. La gamma di alimenti funzionali presenti sul mercato giapponese è molto vasta e si estende da quelli suggeriti durante la gravidanza a quelli atti a migliorare la fitness sportiva o addirittura lo stato d'animo.
In USA e in Europa regna al momento notevole incertezza in merito a possibili regolamentazioni specifiche, anche perché non è ben chiaro se gli ingredienti che potrebbero essere aggiunti agli alimenti per renderli funzionali debbano essere studiati e regolamentati come additivi o come farmaci, o se siano gli alimenti stessi, nella loro interezza, a dover essere sottoposti a studio e regolamentazione.
Allo stato attuale delle cose il consiglio migliore da dare al consumatore è quello di assicurarsi l'introito di sostanze nutrienti e non nutrienti aventi possibili effetti salutari, consumando una dieta variata in cui siano largamente presenti frutta e vegetali. Le tradizionali pratiche culinarie italiane che prevedono l'uso di ingredienti come aglio, cipolla, erbe aromatiche e spezie, contenenti sostanze fisiologicamente attive, vanno altresì conservate, tenendo però presente che, se si superano i livelli abituali di consumo consolidati dalla tradizione e dall'esperienza empirica, molte di queste sostanze diventano tossiche per l'organismo: può essere quindi pericoloso ingerirle sotto forma di concentrati.