ALIDOSI, Francesco, detto il Cardinal di Pavia
Nacque in Castel del Rio, presso Imola, intorno al 1455. Terzo dei sei figli maschi di Giovanni, signore di Castel del Rio e Massa Alidosio, fu avviato alla carriera ecclesiastica e frequentò i corsi di teologia presso lo Studio di Bologna. Giovanissimo, forse per l'intercessione di Girolamo Riario, signore di Imola, entrò nella corte di Sisto IV, dal quale fu nominato, in data imprecisata, "scriptor apostolicus". A Roma l'A. ebbe grande dimestichezza col nipote del pontefice, Giuliano della Rovere, allora cardinale di S. Pietro in Vincoli: questa amicizia, nata probabilmente sulla base dei comuni interessi umanistici, dette luogo alle più turpi denigrazioni, mai però in alcun modo provate. Nel 1490, ottenne, dopo la morte del padre, la signoria di Castel del Rio e Massa Alidosio, in comune con i cinque fratelli. Per impedire che gli abitanti si sottraessero alla signoria degli Alidosi, di cui mal sopportavano la pesante pressione tributaria, e che passassero sotto il dominio della Repubblica di Firenze, che ne aveva accettato la dedizione, l'A. ottenne l'intervento del suo protettore presso i Priori di libertà: il governo fiorentino finì per inchinarsi al desiderio del potentissimo cardinale e i territori tornarono alla famiglia degli Alidosi il 9 genn. 1494.
Il della Rovere, nel frattempo, aveva dovuto abbandonare Roma, in seguito al-l'elezione al pontificato del cardinale Rodrigo Borgia, suo rivale; l'A. non lo seguì e rimase alla corte del papa, il quale gli elargì nel 1493 la rendita di un "segretariato medio".Ritenendo di essersi in tal modo guadagnato i suoi servigi, Alessandro VI tentò di indurlo ad avvelenare il della Rovere, ma l'A. si affrettò ad avvertire l'amico, inducendolo a rifugiarsi in Francia, dove subito lo raggiunse e rimase per tutto il periodo dell'esilio di lui. Tornato il della Rovere in Italia nel 1503 ed eletto papa, nominò l'A. suo cameriere segreto, poi protonotario apostolico, dando così inizio a una carriera ecclesiastica eccezionalmente rapida: al principio del 1504 l'A. sostituì il vescovo di Massa, Ventura Benassai, nell'ufficio di tesoriere pontificio; il 7 marzo dello stesso anno fu creato vescovo di Mileto; il 30 maggio 1505 successe ad Ascanio Sforza nella diocesi di Pavia e infine, il 7 dic. 1505, Giulio II lo creò cardinale del titolo dei SS. Nereo e Achilleo, e successivamente di Santa Cedilia, nonostante la lunga opposizione del concistoro, in parte avverso al-l'allargamento del Sacro Collegio, in parte ostile a una carriera di così inusitata rapidità. Carriera che, del resto, non fu determinata soltanto dalle ragioni dell'amicizia, ma dalla grande fiducia che Giulio II riponeva nelle doti politiche dell'A., che fu il più energico e accorto collaboratore del pontefice nei suoi piani politici.
Sin dal 1504 il papa incaricò l'A. di delicate missioni: dapprima dei negoziati con Cesare Borgia per la consegna delle piazzeforti di Imola, Cesena e Bertinoro, quindi della sorveglianza dello stesso duca Valentino, poi, nel 1505, di una ambasceria al re di Francia Luigi XII e nel giugno 1507, secondo il Nardi, della rappresentanza del pontefice al convegno di Savona tra il re di Francia e il re di Spagna Ferdinando II.
Al prestigio conseguito con questa sua attività, alla autorità che gli derivava dall'essere il consigliere più ascoltato e l'esecutore più accorto della politica del pontefice, l'A. aggiungeva le ingenti ricchezze che gli venivano dalle sue cariche: questa sua potenza dedicò alla protezione di artisti e letterati e all'ingrandimento della propria famiglia. Fu amico e protettore di Michelangelo e s'interpose frequentemente nelle dispute fra questi e il pontefice; stimò grandemente il Bramante, da cui fece disegnare il palazzo della sua famiglia a Castel del Rio; ospitò Erasmo quando questi venne in Italia (1507); diresse i lavori di restauro e di decorazione della Villa Magliana in Roma (1507) e del Palazzo comunale di Bologna (1509). Dedicò ogni possibile sforzo a ristabilire gli Alidosi nel vicariato di Imola, che essi avevano perduto nel 1424, ma non gli fu consentito da Giulio II, la cui politica in Romagna tendeva ad eliminare tutte le signorie particolari; tuttavia, arricchì la famiglia con le rendite dei propri benefici, ottenne dal papa per il fratello Obizzo la signoria di Gaggio e Fornione in Vai di Santerno (1507), assunse ad importanti cariche i congiunti: nominato egli stesso legato di Viterbo nel marzo 1507, vi inviò come vicario il fratello Bertrando; al fratello Obizzo affidò, nel 1509, il governo delle città di Ravenna, Cervia, Cesena e Bertinoro e al fratello Rizzardo e ai cognati Guido Vaini e Giovanni Sassatelli importanti posti di comando nell'esercito pontificio.
Il 19 maggio 1508Giulio II nominò l'A. legato di Bologna, dove gli intrighi dei Bentivoglio, favoriti da un forte partito cittadino, mettevano in pericolo il dominio pontificio, sostituendolo al cardinale di S. Vitale Antonio Ferreri. L'A. prese possesso della legazione il 9 giugno e agì con grande risolutezza, facendo mettere a morte il 26 giugno alcuni esponenti del partito dei Bentivoglio, i senatori Sallustio Guidotti, Innocenzo Ringhieri, Alberto Castelli e il nobile Bartolomeo Magnani. Comminò in seguito altre numerose condanne a morte e impose alla cittadinanza un forte contributo per la ricostruzione delle case della famiglia Marescotti, distrutte dai partigiani dei Bentivoglio. Provvedimenti, che fecero temporaneamente cessare i tentativi dei fuorusciti e dei loro sostenitori, ma procurarono all'A. il risentimento della cittadinanza e accuse di inutile crudeltà, riprese anche dai maggiori storici del tempo: è indubbio, però, che l'A. eseguì inflessibilmente ordini precisi di Giulio II, come dimostra l'inutilità delle proteste che i Bolognesi elevarono ripetutamente al papa contro di lui.
Intanto l'A. andava ammassando in Bologna armi ed armati per la guerra contro Venezia, che appariva inevitabile, e faceva fortificare il castello di Porta Galliera. Nel novembre 1508 il papa lo chiamò a Roma per consultarlo sulla partecipazione alla lega che Luigi XII e l'imperatore Massimiliano stipulavano a Cambrai. L'A. si fece sostituire a Bologna dal vescovo di Tivoli, A. Leonini, suo vice-legato, ma, cominciate le ostilità, il 1 apr. 1509 ritornò come legato di Bologna e di Romagna e come tale diresse le operazioni dei due eserciti pontifici, che, al comando del duca d'Urbino Francesco Maria della Rovere e di Lodovico della Mirandola, avanzavano contro i Veneziani. Dopo aver conquistato Brisighella (29 aprile), i due eserciti si congiunsero e l'A. convocò il 5 maggio a Castel Bolognese il consiglio di guerra che decise la loro fusione sotto il comando del della Rovere, affiancato dall'A. come legato apostolico. Quindi, mentre l'esercito pontificio marciava su Ravenna, l'A. condusse le trattative con i rappresentanti di Faenza per ricondurre quella città al dominio della Chiesa. Dopo la battaglia di Agnadello (14 maggio) ricevette il rappresentante veneziano Gian Giacomo Caroldo, che gli consegnò tutte le terre di Romagna sin lì occupate dalla Repubblica. Si incontrò poi a Biagrassa con Luigi XII, che si accingeva a ritornare in Francia, e in nome del pontefice rinnovò col re gli impegni di mutua assistenza; pare che l'A. facesse anche concessioni in materia di giurisdizione ecclesiastica, che Giulio II poi non approvò, dando origine alle successive contese con Luigi XII. L'A. riassunse infine direttamente il governo di Bologna, che tenne sino al 5 genn. 1510, quando Giulio II lo chiamò nuovamente a Roma per consultarlo in merito ai negoziati di pace con Venezia e alla nuova situazione creata dai contrasti con Luigi XII. I Bolognesi inviarono a Roma in questa occasione Alberto Albergati per presentare al papa una serie di circostanziate accuse contro la dura politica dell'A. in Bologna, e analogo incarico fu affidato all'ambasciatore bolognese presso la Santa Sede Bartolomeo Zambeccari: ma Giulio II respinse le proteste e, approvandone l'operato, rimandò l'A. a Bologna l'8 marzo 1510.
Iniziata la guerra contro i Francesi e il duca di Ferrara Alfonso I, l'A. a capo dell'esercito pontificio si accampò a Castelfranco e avviò trattative con i modenesi Gherardo e Francesco Maria Rangoni, che, in odio all'Este, gli consegnarono Modena. Giunto Giulio II a Bologna e convocato il consiglio di guerra, l'A. propose di attaccare Mirandola, ma si scontrò violentemente col duca d'Urbino, che voleva invece marciare su Ferrara. Prevalse il parere dell'A.; ne nacque, però, un odio insanabile del della Rovere verso di lui: sicché quando l'A. raggiunse nuovamente l'esercito a Modena il duca lo fece arrestare (7 ott. 1510) e lo rimandò a Bologna a Giulio II, sotto l'accusa di aver avuto contatti con i nemici nell'intento di ottenere la restaurazione della signoria degli Alidosi su Imola, che gli era negata dal papa. Questa accusa, nata dall'animosità del della Rovere, fu raccolta poi da molti storici e persino dal Muratori nei suoi Annali d'Italia, ma di essa non risultò mai alcuna prova. Del resto lo stesso Giulio II non solo riconobbe l'innocenza dell'A., ma lo creò vescovo di Bologna (18 ottobre). Non era più possibile, tuttavia, la collaborazione tra il della Rovere e l'A., che Giulio II sostituì col cardinale Marco Vigerio nell'ufficio di legato presso l'esercito. Durante il resto della guerra l'A. rimase in Bologna, in una situazione molto difficile. Quando, nel maggio 1511, i due eserciti combattenti si avvicinarono al territorio bolognese, i cittadini si rifiutarono di ammettere in città gli uomini del capitano Ramazzotto, con i quali l'A. intendeva provvedere alla difesa di Bologna: era, evidentemente, l'inizio della rivolta, ma l'A. non volle, per la rivalità con il della Rovere, prendere tempestive misure in accordo con l'esercito pontificio; preferì rifugiarsi dapprima nel castello di Porta Galliera e poi abbandonare la città per Castel del Rio (21 maggio 1511). Fuggito il legato, i Bolognesi aprirono le porte della città ai Bentivoglio, e il della Rovere, preso tra la città ribelle e l'esercito del Trivulzio, non seppe fronteggiare la situazione e abbandonò il campo con gravi perdite. Recatisi l'A. e il della Rovere quasi contemporaneamente a Ravenna per discolparsi con Giulio II, questi accettò le spiegazioni dell'A., ma si rifiutò di ascoltare il duca, il quale, ritenendo l'A. responsabile del contegno del pontefice e esasperato per i vecchi rancori, affrontò il cardinale in una strada di Ravenna e lo uccise il 24 maggio 1511.
Di lui si conosce un ritratto attribuito a Raffaello, Museo del Prado, Madrid, e un medaglione in bronzo, scuola del Francia, Museo di Brera, Milano.
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