OTTAVIANI, Alfredo
OTTAVIANI, Alfredo. ‒ Nacque a Roma, nel popolare quartiere di Trastevere, il 29 ottobre 1890, penultimo dei dodici figli di Enrico, fornaio, e di Palmira Catalini.
Cresciuto in una famiglia solidamente cattolica, la sua formazione spirituale si giovò anche della frequenza delle classi primarie presso i Fratelli delle Scuole cristiane, attivi nel suo quartiere, dove la pratica religiosa doveva far fronte a un marcato anticlericalismo, espresso talvolta con la contestazione delle cerimonie religiose pubbliche (Riccardi, 1982, p. 435). Nel contesto della sua parrocchia iniziò a dedicarsi all’attività giornalistica, tenendosi però distante da questioni di natura politica.
Si distinse come un ottimo studente, dotato di una memoria prodigiosa; dal punto di vista spirituale palesò da subito un profilo che avrebbe mantenuto per il resto della sua vita: semplice, distante da particolarismi, impiantato sui più classici canoni postridentini, a cui si associavano le pratiche devozionali più ordinarie e tipiche della sua città d’origine; allo stesso tempo rivelò una solida intransigenza, che lo condusse, in anni in cui si avvertivano ancora le conseguenze della campagna antimodernistica, a tenersi distante da tutto ciò che sembrava contraddire i capisaldi della propria spiritualità. Simpatizzò con alcune iniziative che, negli anni del massimo consenso goduto dal regime fascista, esaltavano il concetto di romanità intrecciandolo alla storia e ai fasti della Roma ecclesiastica.
Compì gli studi superiori nel seminario romano dell’Apollinare, retto da Domenico Spolverini, in cui operavano Luigi Oreste Borgia e Francesco Pitocchi, determinati a plasmare un profilo ‘romano’ ‒ dunque anzitutto ossequiente nei confronti della Sede apostolica ‒ nei loro chierici. Negli anni della frequenza seminaristica, nel corso della quale conseguì le lauree in teologia, filosofia e utroque iure, sviluppò un interesse per le discipline giuridiche; del resto svariati docenti dell’Apollinare erano coinvolti nella redazione del Codex iuris canonici che, promossa da Pio X, giunse a compimento appunto in quegli anni. Al seminario romano strinse anche amicizie di lungo corso, come quella con Pietro Parente, di cui avrebbe favorito più tardi la chiamata in Curia, e fece la conoscenza, tra gli altri, di Domenico Tardini, Francesco Borgongini Duca e Paolo Marella. Il 18 marzo 1916 venne ordinato sacerdote; fu quindi nominato canonico della basilica di S. Maria in Cosmedin e venne subito destinato all’insegnamento, tenendo il corso di diritto pubblico ecclesiastico nell’ateneo giuridico dell’Apollinare e quello di filosofia presso il Pontificio Collegio urbaniano di Propaganda Fide.
Dal suo impegno didattico scaturì nel 1925 la prima edizione del fortunato manuale Institutiones iuris publici ecclesiastici, esemplare per la fermezza con cui argomentava il concetto di Chiesa come societas perfecta, rimarcandone la superiorità rispetto a ogni altro ordinamento: un vero e proprio manifesto della scuola teologica romana.
Grazie al rapporto stabilito con il Collegio urbaniano nel 1919 fece il suo ingresso in Curia con la qualifica di minutante presso la congregazione di Propaganda Fide; nel 1921 passò alla segreteria di Stato come officiale presso la congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari. A queste mansioni affiancò l’impegno pastorale rivolto ai giovani del quartiere Aurelio che frequentavano il Pontificio oratorio di S. Pietro; più tardi si fece promotore e sostenitore dell’Oasi di S. Rita a Frascati, un istituto dedicato ad accogliere e dare istruzione a bambine indigenti.
Soprattutto in queste mansioni non ufficiali era possibile apprezzare i contorni della sua personalità, necessariamente più sfuggente nelle sue funzioni d’ufficio: quelle cioè di chi, pure introdotto nella curia papale, non dissimulò mai le personali origini popolari, facendone anzi una orgogliosa esibizione; in ogni caso un suo tratto distintivo tanto in pubblico quanto in privato fu costituito dalla solerte e piena disponibilità alle direttive superiori.
Non gli mancarono reiterati segnali di apprezzamento da parte sia del papa sia del segretario di Stato, Eugenio Pacelli. Nel 1926 giunse la sua designazione a rettore del Pontificio Collegio nepomuceno, carica che mantenne sino al 1928, quando Pio XI lo nominò sottosegretario della congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari. Dal 1927 ebbe modo di seguire da vicino le trattative in corso tra la S. Sede e il regime fascista in ordine alla risoluzione della Questione romana e all’indomani della stipula dei Patti lateranensi papa Ratti lo promosse sostituto della segreteria di Stato. Nel 1931 ricevette la nomina a protonotario apostolico e sempre Pio XI lo designò nel dicembre 1935 assessore del S. Uffizio, introducendolo in quel dicastero con cui si identificò sino alla fine della sua vita e nel quale, più che negli uffici precedenti, gli fu possibile definire una linea di governo che non era solo la mera esecuzione del volere pontificio, ma anche il prodotto di una visione ecclesiologica che poneva al vertice di tutto l’idea di monoliticità del cattolicesimo, da difendere contro ogni ‘eversione’ interna o aggressione esterna.
In qualità di assessore del S. Uffizio trasmise nel marzo 1939 alla segreteria di Stato le riserve espresse dai membri della congregazione circa i contenuti della rivista italiana La difesa della razza e contribuì alla stesura del Decretum del 1940 che condannava la soppressione dei malati psichici in Germania (Cavaterra, 1990, pp. 11-12); durante la seconda guerra mondiale, in modo analogo ad altri membri di curia, ebbe modo di dare rifugio nel suo stesso appartamento a ebrei in fuga dalla persecuzione nazifascista.
Gli anni del conflitto, segnati anche dal passaggio di pontificato da Ratti a Pacelli, furono anche quelli in cui il S. Uffizio contribuì in modo fondamentale alla definizione delle posizioni della S. Sede rispetto tanto alle importanti evoluzioni del dibattito teologico in atto (enciclica Mystici corporis, 1943), quanto al delicato nodo dello sviluppo degli studi esegetici (enciclica Divino Afflante Spiritu, 1943). In entrambi i casi è evidente la preoccupazione di fondo che ispirò i pronunciamenti papali: quella cioè di ribadire l’assoluta primazia della sede romana nel definire la gerarchia delle priorità, ma anche gli strumenti e le strategie per risolvere le questioni più urgenti. Anche per questa ragione Ottaviani si mostrò ostile all’esperienza dei preti-operai promossa dall’arcivescovo di Parigi Emmanuel Suhard.
Con la fine della guerra il coinvolgimento politico di Ottaviani aumentò di pari passo con la ricostruzione democratica dell’Italia. Le modalità concrete di impegno politico dei cattolici furono oggetto di attenta considerazione del S. Uffizio, anche perché la sconfitta dei regimi fascista e nazista imponeva alle autorità vaticane la delicata scelta della strategia da porre in essere per contrastare l’azione dei partiti di ispirazione marxista. Differentemente da monsignor Montini, strenuo sostenitore di un impegno unitario dei cattolici nella neonata Democrazia cristiana, Ottaviani parteggiò per la nascita di un secondo partito cattolico: non tanto perché favorevole alla possibilità di un impegno diversificato, ma affinché esso fungesse da recinto per l’elettorato minoritario cattolico più vicino alle sinistre, spingendo al contempo il grosso a impegnarsi in un partito nettamente ostile a indulgere oltremodo nell’esperienza dei governi ciellenisti e dunque alla collaborazione con il Partito comunista e quello socialista.
In questo senso occorre rilevare come i suoi contatti con i cattolici comunisti furono certamente equivocati nelle loro intenzioni più profonde da coloro che tracciarono i primi profili di Ottaviani: ne sono riprova anche il pieno e convinto sostegno a tutte quelle iniziative e attività promosse in seno agli ambienti ecclesiastici romani rivolte a rafforzare l’anticomunismo della DC e, di conseguenza, il suo rapporto con le destre; così come va ricordato il ruolo di primo piano svolto dal S. Uffizio nell’elaborazione del decreto di scomunica del 1° luglio 1949, ancorché attenuato nella sua attuazione pratica; Ottaviani fu anche «uno dei più decisi animatori» della solidarietà con le comunità cattoliche d’Oltrecortina, considerando pure l’organizzazione di strutture cattoliche clandestine (Riccardi, 1982, p. 437).
Nel marzo 1948 Ottaviani fu incaricato da Pio XII, con il quale si stabilì una crescente consonanza di vedute, di promuovere la costituzione di una commissione preparatoria che esaminasse le materie da discutere nell’eventualità di una ripresa e conclusione del Concilio Vaticano, progetto infine accantonato da papa Pacelli nel gennaio 1951. In questa occasione Ottaviani segnalò l’urgenza di rimediare alla diffusione degli ‘errori’ che si andavano diffondendo in campo teologico, morale e sociale, così come occorreva fronteggiare i problemi posti dalla diffusione del comunismo nonché considerare le implicazioni poste dall’impiego delle nuove armi nucleari nell’eventualità di un nuovo conflitto. Collaborò quindi attivamente alla stesura dell’istruzione Ecclesia Catholica (1949), primo importante segnale di attenuazione dell’intransigenza cattolico-romana rispetto al movimento ecumenico, che già da decenni aveva conosciuto un’importante diffusione. Fu quindi membro della Commissione di studio istituita per pervenire alla proclamazione del dogma dell’assunzione di Maria (1950) ‒ una delle questioni che immaginò potesse essere sciolta dall’eventuale concilio di Pio XII ‒ e presidente della Commissione spirituale del Comitato centrale per l’Anno Santo 1950.
Nel concistoro del 1953 fu creato cardinale e allo stesso tempo il papa lo nominò prosegretario del S. Uffizio; un anno più tardi giunse anche la nomina a camerlengo, funzione che ricoprì sino al giugno 1958 e, successivamente, dal 1970 al 1973.
A partire dalla prima metà degli anni Cinquanta, nel momento in cui le condizioni di salute del papa andarono aggravandosi, crebbe visibilmente l’interventismo di Ottaviani nell’ambito politico italiano, al punto che fu frequentemente identificato come uno dei ‘consoli’ che tenevano materialmente le redini del governo ecclesiastico. Emerse in tutta evidenza la sua fedeltà personale a un progetto di rifondazione cristiana della società che, se aveva trovato una parziale soddisfazione durante il ventennio fascista, sarebbe stato irrealizzabile in uno Stato che aveva scelto la via della democrazia parlamentare se non mediante interventi di indirizzo dall’esterno. Nel marzo 1953 tenne così una conferenza in cui indicò nella Spagna franchista il modello di Stato cattolico e fu lo stesso Pio XII a dover correggere in pochi mesi queste affermazioni con un’allocuzione rivolta ai giuristi cattolici italiani che rimarcava invece il valore della tolleranza. Fu altrettanto netto nel condannare ‒ anche mediante pressioni e moniti del S. Uffizio ‒ il processo politico di apertura a sinistra che si avviò in Italia a metà degli anni Cinquanta, giudicando l’accantonamento della formula centrista un ulteriore allontanamento da quel progetto statuale imperniato sul concetto di civiltà cristiana che solo un’opposizione frontale della DC alle sinistre poteva garantire. Questa linea non mutò con il passaggio del pontificato da Pio XII a Giovanni XXIII e Ottaviani fu protagonista di una clamorosa contestazione pubblica al presidente della Repubblica Gronchi in occasione del viaggio compiuto da quest’ultimo in Unione Sovietica (1960), perché giudicato colpevole ‒ tanto più come cattolico ed esponente della Democrazia cristiana ‒ di cercare un confronto con i persecutori del cristianesimo d’Oltrecortina.
L’elezione di Roncalli al papato nell’ottobre 1958, a cui Ottaviani diede un contributo non marginale, determinò un fondamentale ridimensionamento del suo spazio d’azione: sia per la volontà del nuovo papa di ripristinare il controllo del funzionamento della Curia romana, sia per il più profondo mutamento di clima, dal punto di vista tanto ecclesiale quanto politico, che era intervenuto con la morte di Pio XII. Nel novembre 1959 Ottaviani ascese al vertice del S. Uffizio con la nomina a proprefetto, perfezionata il 19 aprile 1962 dalla consacrazione episcopale che Giovanni XXIII volle stabilire per tutti coloro che erano insigniti della porpora cardinalizia (motu proprio Cum gravissima, 1962). Da questa nuova posizione operò per mantenere inalterata quella linea di condotta intransigente che ormai lo caratterizzava pubblicamente.
A dispetto della volontà espressa dal nuovo pontefice di un disimpegno della Curia romana rispetto alle vicende politiche italiane proseguirono i suoi tentativi di ostacolare in ogni modo la realizzazione dell’apertura a sinistra, anche mediante pressioni dirette sul presidente della Repubblica Antonio Segni. Nel maggio 1960 apparve quindi su L’Osservatore Romano una nota intitolata Punti fermi, non firmata ma facilmente riconducibile al S. Uffizio, che mediante un collage di affermazioni compiute dall’allora cardinale Roncalli rinnovava il veto a una collaborazione con i socialisti. Ottaviani perseguì questo obiettivo anche mediante la costituzione, nel 1960, dell’istituto S. Pio V, un’organizzazione ufficialmente dedita ad attività caritative ma in realtà finalizzata a procacciare finanziamenti per strutture politiche o organi di informazione ostili a una evoluzione del quadro politico. Non meno coerente con la stagione precedente fu la linea di intervento teologico del S. Uffizio, che nel 1959 ribadì la validità del decreto di scomunica emanato nel 1949 e che nel 1962 emanò un Monitum per rilevare le «ambiguità» e i «gravi errori» contenuti nelle opere di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), qualificato da Ottaviani più come un «poeta che fa teologia e talvolta un panteista» (Cavaterra, 1990, p. 55).
Tutto questo dovette tuttavia commisurarsi con la decisione assunta da Giovanni XXIII poco dopo la sua elezione di indire un nuovo concilio, che non sarebbe stato però la ripresa del Vaticano primo. Come presidente della Commissione teologica preparatoria, Ottaviani, di concerto con il gesuita Sebastian Tromp (già estensore di alcune encicliche di Pio XII), progettò un concilio che solennizzasse la linea teologica della scuola romana, di cui era stato il più autorevole portavoce negli ultimi due decenni. Il suo progetto di una preparazione lunga e meticolosa che avrebbe dovuto concludersi non prima del 1967 si scontrò con la determinazione del papa a procedere con maggiore celerità e già con l’allocuzione inaugurale dell’11 ottobre 1962, con la quale si qualificava il Vaticano secondo come concilio ‘pastorale’ e si respingeva l’ipotesi di sancire nuove condanne, Giovanni XXIII decretò il rigetto delle istanze avanzate dal S. Uffizio.
Ottaviani, che aveva immaginato come massimo responsabile del S. Uffizio di poter essere il dominus dell’assemblea conciliare, si trovò invece da subito a dover giocare in difesa: tanto degli schemi preparatori predisposti dalla Commissione teologica quanto dello stesso S. Uffizio, che soprattutto a partire dal secondo periodo di lavori del concilio (1963) fu oggetto di critiche e di richieste di riforma. I dibattimenti conciliari misero in evidenza la sua impreparazione teologica e culturale ‒ nonché l’indisponibilità personale a rimediarvi ‒ rispetto alle profonde evoluzioni intervenute nel cattolicesimo negli ultimi decenni, tanto sul fronte esegetico quanto su quello liturgico ed ecumenico; ancora più tenace fu la sua opposizione al riconoscimento della libertà religiosa, che nella sua ottica avrebbe fatto decadere automaticamente i concordati con cui la Chiesa cattolica aveva regolato i rapporti con alcuni Stati.
Partecipò nel giugno 1963 al secondo e ultimo conclave della sua vita, che elesse papa Paolo VI, il quale ribadì immediatamente l’intenzione di proseguire il concilio sulla rotta di apertura e di dialogo con il mondo moderno tracciata da Giovanni XXIII. Ottaviani rimase fedele alla linea teologica da sempre seguita e ai criteri pratici che ne avevano dato applicazione sino a quel momento. Reagì quindi difendendo a oltranza le tesi che avevano ispirato il lavoro della Commissione teologica preparatoria, lasciando anzi intendere in più occasioni che a dispetto delle critiche ricevute riteneva ancora la Commissione teologica conciliare più autorevole non solo delle altre Commissioni, ma del concilio stesso. Soffrì per la costituzione della Commissione teologica internazionale, perché la considerava un ulteriore segnale della progressiva spogliazione di autorità che il S. Uffizio, nel dicembre 1965 ridenominato congregazione per la Dottrina della fede, aveva patito a partire dal concilio.
Così come fu uno dei leader della minoranza conciliare, Ottaviani rimase uno dei punti di riferimento di quegli ambienti che, nel postconcilio, si opposero al processo di ricezione del Vaticano secondo. Immaginò dunque di dover assolvere al compito di tamponare gli errori di un ipotetico fronte progressista responsabile della perdita di quella compattezza del cattolicesimo che era stato il suo assillo per tutta la vita, arrivando però a contestare apertamente quelle che erano le decisioni ufficiali della S. Sede. Così giudicò il novus ordo liturgico un allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa e perorò il mantenimento della liturgia tridentina; nel 1972 incoraggiò l’arcivescovo francese Marcel Lefebvre, tra i più tenaci oppositori delle decisioni conciliari, a istituire un centro di azione anche a Roma; si pronunciò ripetutamente contro il dialogo ecumenico così come contro l’Ostpolitik vaticana; viceversa appoggiò totalmente le decisioni assunte dal papa in merito alla contraccezione con l’enciclica Humanae vitae (1968).
Nel gennaio 1968, con la nomina a prefetto emerito della congregazione per la Dottrina della fede, si concluse il suo lungo periodo di servizio in curia, ma non venne meno la sua determinazione a intervenire sulle questioni che erano state oggetto del suo lavoro per decenni. In tal senso Paolo VI tentò in più occasioni di compensarne l’irritazione per le dimissioni, espressa anche mediante vari interventi pubblici che causarono un certo imbarazzo alla S. Sede, dandogli ripetutamente segnali di attenzione personale.
Morì a Roma il 3 agosto 1979 e fu sepolto nella cappella di S. Salvatore in ossibus nella Città del Vaticano.
Tra i suoi scritti vanno ricordati: Institutiones iuris publici ecclesiastici, I-II, Roma 1926; Compendium iuris publici ecclesiastici, ibid. 1936; Luce di Roma cristiana nel diritto, Città del Vaticano 1943; Doveri dello Stato cattolico verso la religione, Roma 1953; Pio XI e i suoi segretari di Stato, in Pio XI nel trentesimo della morte (1939-1969). Raccolta di studi e di memorie, a cura dell’Ufficio studi arcivescovile di Milano, Milano 1969, pp. 491-507, Breve esame critico del Novus Ordo Missae, con A. Bacci, Roma 1969; alcune conferenze e articoli sono stati raccolti in Il baluardo, Roma 1961.
Fonti e Bibl.: C. Falconi, Il pentagono Vaticano, Roma-Bari 1958, ad ind.; G. Damizia, Card. A. O., in La Pontificia Università lateranense. Profilo della sua storia, dei suoi maestri, e dei suoi discepoli, Roma 1963, pp. 230 s.; P. Lesourd - J.M. Ramiz, A. Cardinal O., Notre Dame (Indiana) 1964; A. Riccardi, O., A., in Dizionario storico del movimento cattolicoin Italia, 1860-1980, II, Casale Monferrato 1982, pp. 435-439; E. Cavaterra, Il prefetto del Sant’Offizio. Le opere e i giorni del cardinale O., Milano 1990 (prezioso soprattutto per il ricorso ai diari inediti di Ottaviani); J. Grootaers, Protagonisti del Concilio, in Storia della Chiesa, XXV, 1, a cura di M. Guasco - E. Guerriero - F. Traniello, Cinisello Balsamo 1994, pp. 474-480; P. Vian, «Quest’occhio di amicizia che tu, Tardini e Ottaviani posate su di me». Don Giuseppe De Luca e la curia romana del suo tempo. I rapporti con Tardini, Montini e Ottaviani, in Don Giuseppe De Luca e la cultura italiana del Novecento, a cura di P. Vian, Roma 2001, pp. 87-142; F. Leoni, Il cardinale A. O., carabiniere della Chiesa, Roma 2002. Si vedano anche: A. Indelicato, Difendere la dottrina o annunciare l’evangelo. Il dibattito nella Commissione centrale preparatoria del Vaticano II, Genova 1992, ad ind.; A. Riccardi, Il potere del papa. Da Pio XII a Giovanni Paolo II, Roma-Bari 1993, ad ind.; Storia del concilio Vaticano II, I-V, Bologna 1995-2001, ad ind.; N. Buonasorte, Tra Roma e Lefebvre. Il tradizionalismo cattolico italiano e il Concilio vaticano II, Roma 2003, ad ind.; Ph. Chenaux, Pie XII. Diplomateet pasteur, Parigi 2003, ad ind.; M. Velati, Giovanni XXIII e la curia romana: stato delle conoscenze e prospettive di ricerca, in Cristianesimo nella Storia, XXV (2004), pp. 659-693; A. Riccardi, Il «partito romano». Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, II ed., Brescia 2007, ad indicem.