ORIANI, Alfredo
ORIANI, Alfredo (Mario, Francesco, Pellegrino, Clemente). – Terzogenito di Luigi, avvocato possidente, e di Clementina Bertoni, appartenente a famiglia altoborghese con presunzioni aristocratiche, nacque a Faenza il 22 agosto 1852, dopo Ercole (1849-1859) ed Enrichetta (1851-1940).
Dopo aver frequentato le classi elementari in una scuola privata, nel novembre 1862 fu promosso direttamente alla seconda ginnasiale nel rinomato collegio S. Luigi di Bologna, dove superò con ottimi voti le tre annualità successive; tuttavia, probabilmente in crisi per la morte della madre (giugno 1865), all’esame di licenza fu rimandato e decise di abbandonare la scuola: decisione che il padre non osteggiò, anche perché, ormai vedovo e in difficoltà economiche, preferì trasferirsi al Cardello, presso Càsola Valsenio, in un edificio modestamente turrito e deteriorato dal tempo, dove Alfredo trascorse tutta la vita, scendendo però quasi ogni giorno verso Faenza o Bologna in biroccia e, dal 1894, in bicicletta.
Gli anni di collegio fomentarono nel giovane Oriani un innato egocentrismo, rendendogli difficile lo stringere amicizie. Oltre che con lo studio e le accanite letture, reagiva all’isolamento dedicandosi alla scrittura, come testimoniano due quaderni di versi intrisi di reminiscenze scolastiche e il primo capitolo di un romanzo, Otello il moro, ovvero Amore e Vendetta.
Superata da privatista la licenza liceale, nel 1868 si iscrisse alla Sapienza di Roma, laureandosi in giurisprudenza a Napoli quattro anni dopo. Tornato al Cardello, entrò come apprendista nell’importante studio bolognese dell’avvocato Oreste Regnoli, già segretario e amico di Mazzini, deputato e docente di diritto civile nell’Università; ma dopo qualche mese lasciò lo studio legale, non intendendo rinunciare alla preminente vocazione letteraria.
In poco tempo scrisse infatti tre impegnativi e voluminosi romanzi, pubblicati sotto lo pseudonimo Ottone di Banzole: Memorie inutili (1873-75: I-II, Milano 1876), Al di là (primo titolo, Uomo o donna?,1874-75; ibid. 1877) e No (1876-79, ma già completato nel 1877; ibid. 1881); una silloge poetica, Monotonie (Bologna 1878), in cui spiccava l’ode provocatoria A Giosuè Carducci (Risposta di un Barbaro); due raccolte di racconti, Gramigne (Milano 1879), completato nel 1875, ma con recuperi di brani più antichi; e Quartetto (ibid. 1883), quattro storie intitolate ad altrettanti strumenti (Violino e Viola, 1875-76; Violoncello, forse 1877; Contrabbasso, 1878-80), precedute da un personalissimo panorama della cultura postunitaria, Diapason, datato 17 dicembre 1881.
Memorie inutili inaugurò la serie di testi che marchiò per sempre Oriani della nomea di scrittore ‘osceno’. Se in questa prima prova narrativa stilisticamente e strutturalmente convulsa, linguisticamente eclettica, poco sorvegliata anche nella misura (più di 660 pagine), le situazioni ‘audaci’ sono rare, ben altro impatto dovettero produrre Al di là, il romanzo breve Sullo scoglio e lo sconcertante No: al centro del primo, un amore lesbico; del secondo, l’infatuazione incestuosa di un giovane per la bellissima madre; dell’ultimo, l’emancipazione sociale di una giovane donna di modeste origini che non si ferma di fronte a nulla, calpestando principi morali e cancellando qualsiasi idealità pur di raggiungere una posizione sociale elevata. Sarebbe però ingeneroso giudicare queste pagine giovanili fermandosi al loro aspetto più artificioso e occasionale, anziché riconoscervi «i principii della sua opera; c’è tutta la sua personalità letteraria, in una prima, tumultuosa affermazione», i cui punti di forza sono «un realismo fatto di indipendenza e quasi di rancore contro uomini e cose; un lirismo, nato nello squallore e nell’abbandono amaro di sé»: qualità che, per quanto un po’ inquinate dalla smania di dire tutto, subito e a voce alta, «si ritroveranno sempre più schiettamente nelle opere successive» (Serra, 1938, pp. 275-277). E infatti già No e Quartetto dimostrano un maggior autocontrollo nello stile e nell’assetto strutturale. Da ridimensionare è inoltre l’accusa di scorrettezza formale dei testi di Oriani: parzialmente imputabile agli stampatori, di cui egli stesso si lamentò più volte, la si può leggere come un personale tentativo di filtrare autonomamente letture, impressioni e modelli europei, sforzandosi di elaborare e assimilare la langue per arrivare a una personale parole.
L’aspettativa di creare scandalo con trame provocatorie, peraltro mai morbose, e con atteggiamenti improntati a scetticismo esistenziale fu però affatto delusa: il silenzio quasi totale della stampa e l’insuccesso di pubblico e critica innescarono in Oriani la presunzione, che sarebbe divenuta monomaniacale, di essere vittima di un complotto dell’establishment culturale, invidioso della sua ‘unicità’ d’artista.
Per reagire a queste prime delusioni, abbandonò temporaneamente la narrativa per cimentarsi nella saggistica. Il primo spunto gli fu offerto da un tema di vibrante attualità, suscitato, oltre che dal saggio La question du divorce di Alexandre Dumas figlio, pubblicato in Francia nel 1880, dalle reiterate proposte di legge per l’istituzione del divorzio presentate nel Parlamento italiano, e regolarmente bocciate, fra il 1880 e il 1883. Ma anche il ponderoso Matrimonio e divorzio (Firenze 1886) cadde nella più completa indifferenza: ebbe un’unica recensione e se ne vendettero pochissime copie.
Le 446 pagine del volume costarono molta fatica a Oriani che, indebolito oltretutto da una infezione polmonare durata alcuni mesi, vi si dedicò dalla fine del 1882 al 26 febbraio 1885. Il sostanziale conservatorismo lo portò ad articolare un’accanita requisitoria contro qualunque forma di divorzio, in quanto violazione di una regola ancestrale, base della società umana e del suo sviluppo nel tempo; istituire il divorzio, come sosteneva Dumas, sarebbe stato perciò un «retrocedere dalla monogamia alla poligamia temperata. Venticinque secoli di storia perderebbero ogni significato: il progresso umano verrebbe scisso nella sua unità» (p. 305). La logica stringente delle argomentazioni antidivorziste, una maggiore sorveglianza lessicale e una strutturazione discorsiva più serrata sono i segni indicativi di una nuova stagione della scrittura orianiana; e alcune riflessioni sulla famiglia e sulle conseguenze di una separazione possono far riflettere ancora oggi.
Consigliere comunale a Càsola dal 1882 (vi restò fino al 1890), fu anche consigliere provinciale a Ravenna (1885-89) e Faenza (1890-97). I suoi discorsi mantenevano sonorità oratorie anche quando trattavano di minime questioni locali; nella seduta dell’8 giugno 1885 fu tanto efficace da convincere il consiglio provinciale a stanziare 50 lire in aggiunta alle 100 già proposte per erigere a Roma il monumento a Giordano Bruno.
I cinque saggi composti nel biennio 1885-87 e raccolti in Fino a Dogali (Milano 1889, primo titolo Soliloquio) furono stesi nei mesi di forzata inazione imposta dalle conseguenze di una rovinosa caduta dal biroccio, avvenuta il 3 dicembre 1885 sulla via di Modigliana, dove era stato invitato a commemorare don Giovanni Verità, il salvatore di Garibaldi profugo in Romagna, che gli causò notevoli sofferenze per il resto della vita.
Il libro si apre con un saggio – fra i migliori di Oriani – su don Verità; misurato appare Via Emilia, un excursus storico-sociale sulla strada consolare; e qualche originalità presenta il profilo di Machiavelli, considerato non già il teorico della politica proposto da Pasquale Villari, ma il letterato della politica, veramente grande per la straordinaria novità e potenza della prosa e per la rappresentazione realistica del secolo in cui visse. Molto importante per definire la posizione apertamente colonialista e il convinto nazionalismo dello scrittore è Dogali, sulla strage dei 430 uomini della colonna italiana per opera dell’esercito abissino di ras Alula: Leitmotive della saggistica di Oriani, nazionalismo e colonialismo furono i punti fondamentali sui quali Mussolini avrebbe fondato l’arbitraria assunzione dello scrittore a ‘precursore’ dell’ideologia fascista.
Nei lunghi giorni di forzata immobilità Oriani lesse inoltre molti testi di storia e di politica, fra i quali l’Histoire des révolutions d’Italie (1856-58) di Giuseppe Ferrari, che gli suggerì l’idea dell’ampio affresco storico La lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale (476-1887), iniziato il 2 giugno 1888 e terminato il 29 settembre 1890 (pubbl., Torino 1892). Pieno di speranza, contattò alcuni noti editori, fra i quali Emilio Treves, che però gli impose modifiche che lo scrittore non accettò; pur di stampare il libro, si piegò allora all’esosa richiesta di 10.000 lire fattagli da un altro noto editore, il piemontese Roux. Con trenta copie del voluminoso libro (1129 pagine), dal gennaio al maggio 1892 Oriani si stabilì a Roma per promuovere personalmente l’opera presso giornalisti, docenti, soprattutto deputati. Giovanni Bovio, Felice Cavallotti, Ruggero Bonghi neppure gli risposero: amareggiato dall’ambiente romano, riuscì a ottenere un colloquio con Francesco Crispi, che però lo deluse come statista e come uomo (Lettere, 1953, pp. 78-95).
Neppure l’impegnativo saggio, decisamente più maturo e originale nell’ordito se non nei particolari, e comunque nuovo per il prevalere di una rimeditazione e di un disegno ideologico, riuscì a infrangere il ‘muro di ghiaccio’ che sembrava condannare al monologo lo scrittore, il quale però neppure in questa occasione si rese conto della complessità e della forma anomala di un libro che, pur ripercorrendo 14 secoli di storia italiana, non possedeva le caratteristiche di una ricostruzione storiografica delle vicende del paese, offrendo invece un’esposizione di idee personali su un problema etico-politico: definire alla luce del passato quali fossero le cause della caduta della tensione rivoluzionaria, degli ideali e degli entusiasmi innovatori del Risorgimento, dissoltisi all’indomani dell’Unità. Per Oriani la via per recuperare quei valori e rimediare alla rivoluzione ‘tradita’ dallo scontro fra lo spirito rivoluzionario progressista di stampo mazziniano e la scelta erronea di una forma statale autoritaria ed elitaria incline ai trasformismi non poteva essere altro che una decisa presa di coscienza e una conseguente iniziativa dell’avanguardia intellettuale, che sola avrebbe potuto restituire all’Italia la consapevolezza della sua ‘missione’ nel mondo.
Libro di polemica e di riflessione, l’opera ha una indubbia importanza nella storia dell’autore e nell’ambito della storiografia del tempo. Di là dalle indubbie manchevolezze e dalla clamorosa questione dei numerosi ‘plagi’ dal trattato di Ferrari – tanto smaccati, però, da smentire la malafede – è indubbio che questa defatigante cavalcata trasmette una suggestione particolare, dovuta in massima parte all’entusiasmo e all’afflato di certi brani che rivelano lo scrittore dietro e anche sopra lo storico. I suoi saggi politici, è stato detto, e in primis i due maggiori, La lotta politica e La rivolta ideale, avvincono più che convincere; e La lotta politica in particolare è una «storia da filosofo e da artista insieme», come lo definì Croce, aggiungendo che «sarebbe stato ottimo punto di partenza pei critici, che avessero voluto prendere a riesaminare tutti i problemi storici che vi si proponevano, e le soluzioni che se ne tentavano.[…] Cosicché, dopo circa vent’anni, si può ora darne notizia […] quasi di libro nuovo, e raccomandarne la lettura» (1964, pp. 256 s.). Ed è significativo che personalità e studiosi della statura di Gobetti, Amendola, Gramsci, Borgese, Ghisalberti, Spadolini, Salvatorelli e non pochi altri abbiano ascoltato l’esortazione di Croce, rileggendo e giudicando più equamente l’opera e l’autore.
Rientrato al Cardello, Oriani reagì all’ennesima e più acuta delusione immergendosi nuovamente nella vita provinciale, dove almeno poteva contare su amici che, pur avendolo ribattezzato con affettuoso dileggio ‘el matt de Cardell’, ascoltavano e ammiravano i suoi interminabili e appassionati monologhi sui più diversi argomenti. Nell’ottobre 1892 un gruppo di faentini d’orientamento conservatore lo indusse a candidarsi in vista delle elezioni; ma anche in questa occasione lo scrittore non smentì il proprio carattere orgogliosamente irragionevole, rifiutandosi di tenere comizi, di promuovere un qualsiasi programma personale, ricusando perfino di stilare proclami, di diffondere qualche manifesto, replicando che non ne rilevava alcun bisogno: sarebbero bastati, diceva, i libri che aveva scritto, dimenticando che ben pochi li avevano letti. Il periodico faentino Il Lamone ebbe quindi buon gioco a satireggiarne l’inconsistenza politica, definendolo «candidato trino»: socialista in economia, politicamente mazziniano, opportunisticamente monarchico. Il responso delle urne fu un’ennesima sconfitta: allo spoglio ottenne solo 343 voti, contro i 1113 dell’avversario Clemente Caldesi.
La situazione familiare si era nel frattempo complicata: il 13 febbraio 1881 era nato a Faenza Aldo Ugo, frutto della relazione fra lo scrittore e Giacomina Cavallari, detta Mina, una ventiquattrenne assunta tempo prima al Cardello per assistere il vecchio Luigi Oriani. Suggestionato anche da chiacchiere paesane, non volle riconoscere il figlio, cosa che fece solo nel 1897. Problemi e preoccupazioni sembrarono però essergli di stimolo: in un quadriennio scrisse infatti quattro romanzi. Dal Nord, iniziato nel 1891, interrotto per portare a termine La lotta politica, ripreso alla fine del 1892 e terminato il 27 febbraio dell’anno successivo, fu pubblicato a Milano nel 1894 col titolo Il nemico: lunga narrazione ambientata nella Russia degli zar e del nichilismo, la cui ossatura è per la prima volta concretamente storica, mentre il manierismo orianiano forza stile e personaggi nelle consuete pose oratorie e nelle tirate ideologiche, obbedendo inoltre la trama a una tesi prefissata e più volte ribadita: il cedimento all’amore e alla donna è la rovina dell’uomo eletto a una missione. Di ben diversa concezione e riuscita furono i tre romanzi successivi: Gelosia, scritto in un solo mese (17 settembre -17 ottobre 1893; ibid. 1894); La disfatta (primo titolo Purità; ibid. 1896), steso in meno di sei mesi (15 gennaio - 3 luglio 1894); e Vortice (inizialmente Vertigine, ibid. 1899), che conobbe alcune stesure tra novembre 1895 e settembre 1896.
Deciso e quasi inaspettato punto di svolta, Gelosia è finalmente un racconto di personaggi e di passioni, ove i fatti e le psicologie riescono a occultare l’autore, presenza di solito ingombrante nei testi precedenti. L’attenzione con la quale è rappresentato l’ambiente borghese, la sorprendente verità psicologica dei protagonisti, la trama complessa ma dipanata in sviluppo lineare (un adulterio dagli insoliti risvolti: la gelosia è dell’amante nei confronti del marito, cui la protagonista ritornerà), sono elementi che attestano nello scrittore una disposizione nuova e vincente sul piano dell’arte, ulteriormente confermata da La disfatta, «forse il più ricco d’idee che abbia la contemporanea letteratura italiana» (cfr. Croce, 1964, p. 261): ricchezza che, pur appesantendo il racconto con teorizzazioni, con qualche eccesso di disquisizioni allotrie e con alcune intrusioni di personaggi superflui, è riscattata da una sincerità di fondo. Nella ‘disfatta’ del protagonista – il filosofo De Nittis, modellato sull’amico fisiologo Angelo Camillo De Meis – è per la prima volta rappresentato sub specie narrativa il fallimento della cultura positivistica di fronte alle domande ultime dell’uomo, di cui, come s’è visto, Oriani avvertiva da tempo i segni nella crisi dei valori patriottici e morali dell’Italia postunitaria. Con Vortice e il successivo Olocausto (Milano-Palermo 1902), La disfatta va a formare una sorta di trilogia dei ‘vinti’: se infatti in De Meis Oriani aveva esemplato il fallimento delle aspirazioni più alte, uccise dalla materialità della vita, i protagonisti degli altri due romanzi soccombono a drammatiche contingenze socio-economiche (Olocausto) o a contingenti avversità legate a precise responsabilità personali (Vortice). Quest’ultimo rappresenta, anche a giudizio della critica odierna, il traguardo assoluto dell’arte narrativa di Oriani, a partire dalla fedeltà topografica a una Faenza mai nominata – forse per fare della vicenda individuale un exemplum – e però riconoscibilissima nei suoi monumenti, nelle sue strade, nelle tipologie dei personaggi e dell’ambiente provinciale. La giovane Tina di Olocausto è invece una vittima senza colpe, una piccola martire, come ‘vinta’ dall’indigenza di una vita miserabile che non ha però intaccato una sua connaturata purezza. Come tutti i romanzi di Oriani, anche questo – il suo ultimo: il Sì, un progettato contraltare di No, restò un abbozzo pubblicato postumo (Imola 1923) – è improntato alle tematiche e ai moduli caratteristici del feuilleton, innestati sulle analisi della vita sociale dell’adorato Balzac e sullo psicologismo del primo Bourget, riferimenti ispiratori di quasi tutta la narrativa di Oriani; ma a differenza della maggior parte dei precedenti, la sua propensione verso la rappresentazione della realtà prosciuga lo stile e la pietà umana inibisce la facile condanna moralistica dei protagonisti, appartenenti a un sottobosco umano diseredato e sofferente.
Ma anche questi titoli, per qualità non inferiori alla media produzione letteraria del periodo, affondarono nell’indifferenza del pubblico e nel silenzio della critica. Alle amare delusioni letterarie, alla sempre più difficile situazione finanziaria, all’umiliazione di dover sostenere le spese di pubblicazione di quasi tutti i propri libri e all’acutizzarsi delle sofferenze fisiche, si erano oltretutto aggiunte nuove e amare questioni di famiglia. Nel 1897 Oriani aveva legittimato il figlio, ormai sedicenne, accogliendolo al Cardello con la madre Mina; ma si trattò di una breve parentesi di vita famigliare: dopo poco più di un anno la comprovata infedeltà della donna indusse lo scrittore a scacciarla di casa, trattenendo però il ragazzo con sé.
Fra il 1897 e il 1899 aveva completato vari altri titoli: La bicicletta, un elogio del neonato mezzo di locomozione, scritto fra l’agosto e l’ottobre 1897; i tre racconti titolari di Oro incenso mirra, composti dal gennaio all’ottobre dell’anno successivo (mentre quelli aggiunti risalivano al 1883-84 e al 1889-91); fra l’ottobre del 1898 e l’estate 1899 i saggi di Lettere senza risposta, che divenne Ombre di occaso (Bologna 1901); e Olocausto, scritto di getto nel 1900 (Milano-palermo 1902). Ma ancora una volta quasi tutti gli editori cui si rivolse esigevano il pagamento delle spese di stampa; unica eccezione, Zanichelli, che accettò La bicicletta, versando a compenso la somma forfettaria, invero umiliante, di 100 lire.
Riuniti sotto il titolo Il gruppo drammatico, i quattro racconti che costituiscono la parte centrale del volume non aggiungono quasi nulla all’Oriani narratore, che ripete in variatio tematiche e figure già praticate, offrendo invece una sorprendente prova di rigore formale e di spontaneità narrativa nella sezione finale del libro, Sul pedale, godibile resoconto di un viaggio solitario di due settimane compiuto in bicicletta nell’agosto 1897 (circa 1000 km fra Emilia-Romagna e Toscana) in cui affiora una immediatezza descrittiva sorretta da una disinvolta freschezza di stile, che pone nel massimo rilievo il suo eccezionale spirito d’osservazione. Ma anche questo libro fu un fiasco editoriale: la novità dell’argomento, che l’autore riteneva la carta vincente, non suscitò l’interesse che pure avrebbe dovuto stimolare.
Anche nel successivo Oro incenso mirra (Roma 1904) le novità non sono avvertibili, fatta eccezione per una certa delicatezza nel trattare la figura del giovane malato e visionario di Incenso; per l’audace salto di registro e di soggetto in Mirra, dove il verismo acceso connota efficacemente l’ambientazione popolare e il fitto dialogato paradialettale; ma soprattutto in Notte di Natale, per un quadro coniugale per una volta positivo, delineato con mano leggerissima e una sorprendente delicatezza di toni e di atmosfere.
Alla fine del 1902, dopo una lite più accesa delle consuete, la sorella Enrichetta abbandonò il Cardello e andò a vivere per sempre con Mina, prima a Imola e poi a Bologna. Restato solo col figlio, Oriani scoprì di trovarsi in dissesto finanziario quasi totale. Un gruppo di giovani giornalisti che lo ammiravano – fra questi Floriano Del Secolo, Giulio De Frenzi (anagramma-pseudonimo di Luigi Federzoni), Antonio Cervi e soprattutto Mario Missiroli – pensarono di aiutarlo, proponendogli collaborazioni al Resto del Carlino e ad altre testate; ma la stanchezza fisica e interiore, la lesione al ginocchio, i disturbi circolatori, più l’immedicabile presunzione e un vittimismo ormai patologico, condizionarono pesantemente i suoi rapporti anche con chi gli offriva aiuto: protestava per il più piccolo taglio fatto a un articolo, per la sostituzione di un termine, per il minimo ritardo nei pagamenti.
Ma ancora una volta i dispiaceri e i dolori dell’uomo non debilitarono la tenacia dello scrittore: fra maggio e settembre 1906 stese La rivolta ideale (Napoli 1908), l’opera che egli stesso definì «il mio testamento di pensatore» e «forse il più bello, il più nobile dei miei libri» (Lettere, 1953: rispettivamente pp. 360, 341).
Il corposo saggio riprende tematiche e modulazioni di La lotta politica, componendo un’«autobiografia ed evangelo ad alta ed esclusiva densità idealistica» (Biondi, 2011, p. 34). Di là dai contenuti troppo spesso offuscati da un eccessivo (e a volte caliginoso) procedere per metafore, ciò che più affascina in questo libro è l’elemento visionario, che riscatta la spesso avventata apoditticità dell’esposizione storica e dilata gli orizzonti dell’idea-guida: il secolo XIX, secondo lo scrittore il più grande dall’inizio dei tempi, deve perseguire e realizzare un progetto di società la cui vera ‘aristocrazia’ consista in «una superiorità dello spirito organizzata dalla volontà del comando», autorità che, imponendo i valori dello spirito e della cultura e superando particolarismi e individualismi, potrebbe finalmente succedere alla vecchia, la cui «opera è ormai consunta» (pp. 30, 43). L’Italia, che avrebbe potuto invece affermarsi come il migliore fra i nuovi popoli d’Europa e proporsi ad esempio e guida della «rivolta ideale», fu «tradita» dalla classe dirigente postunitaria, che ne conculcò le legittime aspettative di rinnovamento. Ritrovare l’orgoglio del proprio passato e riorganizzarsi in Stato forte e nazionalisticamente coeso: questo, per Oriani, il solo modo per riscattare un presente rinunciatario e indegno della grandezza passata.
Anche le quattro raccolte postume di pubblicistica Fuochi di Bivacco (1913), Punte secche (1921), Sotto il fuoco (1931) e Ultima carica (1933) attestano che l’attività dello scrittore, pur se rallentata, si mantenne in questi anni più che fervida. Oriani aveva compreso che la collaborazione a giornali e riviste poteva essere, oltre che un mezzo di sussistenza, un modo più diretto ed efficace per raggiungere un pubblico di lettori più vario e soprattutto più vasto; e la stessa motivazione lo indusse a dedicarsi anche al teatro: «Desidero la prova della ribalta come un esperimento sul pubblico stesso per vederlo una volta in faccia a qualche cosa di semplice e di vero» (Lettere, 1953, p. 140). Una sorta di esordio drammatico può essere considerato il monologo Il marito che uccide, risalente alla fine del 1898 (pubbl. in Ombre di occaso, Bologna 1901, pp. 227-241), che probabilmente, mantenendo le modalità di un racconto in prima persona, gli prospettò un altro modo più diretto di proporsi al pubblico. Nel giro di tre anni scrisse infatti ben sette drammi: La logica della vita (1899), Ultimo atto e La figlia di Gianni (1901), L’invincibile (1902), Momo, L’abisso e Gli ultimi barbari (1903), cui seguirono Dina (1905) e la trilogia formata da Sul limite, Incredulità e dalla solo progettata Guccia (1909).
Sei di queste opere andarono in scena: ma, eccetto L’invincibile – unico dramma pubblicato vivente l’autore (in Nuova Antologia, 1° maggio 1904, pp. 3-26; 16 maggio 1904, pp. 279-295) – non ebbero successo di pubblico e tanto meno di critica; e non poteva accadere diversamente, in quanto più che di teatro si trattava di saggistica dialogata dove, appena più misurati, resistevano i consueti manierismi retorici e le asserzioni categoriche; senza dire che molte delle trame risultavano visibilmente modellate su classici della drammaturgia. Il suo fu comunque uno dei pochi tentativi di conferire dignità al teatro borghese del tempo con l’immettervi idee e problematiche anche scomode; e il suo valore letterario risiede comunque nell’essere parte di «un tutto perfettamente unitario», di «un continuum tematico che sarebbe impensabile leggere separatamente» dal resto della sua produzione (Debenedetti, 2008, p. 162).
Morì il 18 ottobre 1909.
Il 19 aprile 1924 le sue spoglie vennero traslate dal cimitero di Valsenio al Cardello e collocate nel sarcofago dominante il mausoleo voluto da Mussolini e da lui inaugurato il 27 aprile successivo, con la coreografica ‘marcia’ che consacrò l’indebita assunzione del «Solitario del Cardello» a «precursore» del fascismo, costata nel secondo dopoguerra allo scrittore faentino l’ennesima, ingiusta e acritica ghettizzazione.
Opere: Sono stati pubblicati postumi: Fuochi di bivacco, Bari 1913; Teatro (I), ibid. 1920; Punte secche, ibid. 1921; Sì, Imola 1923; Teatro (II), Bologna 1927; Sotto il fuoco, ibid. 1931; Ultima carica, ibid. 1933. Alcune opere sono state riproposte in edizioni più recenti: La lotta politica in Italia, a cura di A.M. Ghisalberti, Bologna 1956; I racconti, a cura di E. Ragni, I-II, Roma 1977 (con un regesto completo delle edizioni successive alla prima, I, pp. XXXVIII-XL); Gelosia, premessa di A. Arslan, introd. di E. Mandruzzato, Milano 1993; La disfatta, con una nota di M. Boni, Bologna 1989; La bicicletta, introd. e cura di E. Dirani, Ravenna 2002; Vortice, introd. e prefaz. di E. Paccagnini, Milano 2003; Vortice, saggio introduttivo, biobibliografia, annotazioni e commento di U. Perolino, Bologna 2007; Vortice, a cura di E. Ragni, Atripalda 2008.
Fonti e Bibl.: Gran parte dei manoscritti (opere, corrispondenza, documenti vari) è andata distrutta o perduta nel corso delle spoliazioni perpetrate nella villa durante l’inverno 1944-45 e nei mesi successivi alla Liberazione. I materiali autografi superstiti sono raccolti in quattro faldoni conservati nell’Archivio Oriani presso la Fondazione Casa di Oriani a Ravenna. Il primo regesto di G. Mendogni Zama (L’archivio privato della famiglia Oriani al Cardello, in Studi romagnoli, XIV [1960], pp. 59-68) deve essere aggiornato con la nota di E. Dirani, Recuperati dopo 48 anni i manoscritti autografi di sei libri di A. O. (in I quaderni del Cardello, IV [1993], pp. 193-195) e con la puntuale descrizione datane da M. Debenedetti in A. O. (v. oltre). Un autografo integrale di Uomo o donna? (= Al di là), posseduto da Mussolini fin dal 1924, è pervenuto dopo varie peripezie all’Archivio di Stato di Roma (Carte Hartford, ff. 8-9). Per il carteggio: A. Oriani, Le lettere, a cura di P. Zama, Bologna 1953. Un consistente fondo di lettere e cartoline postali autografe appartenuto a Mario Missiroli e ceduto alla Fondazione Spadolini-Nuova Antologia di Firenze, è stato pubblicato in parte (S. Forasiepi, L’ultimo O. Il carteggio inedito con Mario Missiroli, in Nuova Antologia, CXXXV [2000], pp. 5-38, 269-295). Tuttora inedite restano le lettere del biennio 1907-09 all’editore Ricciardi conservate alla Biblioteca nazionale di Napoli (Mss., Archivio R. Ricciardi, O.III.1-23); ne ha riportato alcuni stralci U. Perolino, in O. e la narrazione della nuova Italia (pp. 111-118: v. oltre). Le lettere all’impresario Edoardo Boutet conservate presso la Biblioteca e raccolta teatrale del Burcardo di Roma sono state pubblicate da G. A[rtom], “Dina” di A. O. in un carteggio inedito, in Riv. italiana del dramma, IV (1940), pp. 257-271. Alcune notizie arieggianti il pettegolezzo offre una memoria autografa dell’amico Alberto Alberani datata 29 dicembre 1935, conservata nella Biblioteca comunale di Forlì (Raccolta Piancastelli, Carte Romagna, 341.20) e pubbl. da R. Pasi nell’articolo Un nuovo fondamentale documento su A. O., in Boll. economico della Camera di commercio di Ravenna, III (1989), pp. 45-56. Particolare rilevanza esegetica e documentaria rivestono il profilo bio-critico di P. Cortesi, Il letterato del villaggio. Vita di A. O., Cesena 2001; il volume di M. Debenedetti, A. O. Romanzi e teatro, Cesena 2008; e lo studio di U. Perolino, O. e la narrazione della nuova Italia, Massa 2011. Imprescindibili restano naturalmente le pagine di B. Croce (A. O. [1908], in Id., Letteratura della nuova Italia, VI ed., III, Bari 1964, pp. 234-267; O. postumo [1935], ibid., IV ed., VI, 1957, pp. 278-288); e soprattutto quelle di R. Serra (Romanzi di O. Juvenilia [1913], in Id., Scritti, II, Firenze 1938, pp. 273-288; Abbozzo di un saggio su A. O., in collab. con A. Ambrosini, ibid., pp. 289-372). Di particolare rilievo le pagine di A. Gramsci in Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino 2007, ad ind. (in partic. pp. 512 s., 1040, 1152 ss., 1974 ss.). Fra le numerose monografie pubblicate nel ventennio fascista meritano tuttora attenzione: L. Pentimalli, A. O. Studio critico, Firenze 1921; G. Cenni, Il dramma di O. Vita di un precursore, Ravenna 1935; V. Titone, Retorica e antiretorica nell’opera di A. O., Roma 1933; A. Giorgi, O., Firenze 1933; e soprattutto G.B. Bianchi, A. O. La vita, Messina-Milano 1938 (rist., con presentazione di G. Franceschini e una Appendice bibliografica curata da E. Santarelli, Urbino 1965). Su O. saggista e storico: P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla politica in Italia, Bologna 1924, passim; W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento [1956-57], Torino 1963, pp. 377-399; O., a cura di G. Spadolini, Faenza 1960; A. O. e la cultura del suo tempo, Atti del convegno «Orianesimo e ‘Stato nazionale’ nel primo ’900», a cura di E. Dirani, Ravenna 1985; M. Baioni, Il fascismo e A. O. Il Mito del precursore, Ravenna 1988; E. Dirani, I cento anni della «Lotta politica in Italia» di A. O., in Quaderni del Cardello, III (1992), pp. 17-103; V. Pesante, Il problema O. Il pensiero storico-politico. Le interpretazioni storiografiche, Milano 1996; M. Biondi, La forza del destino. L’Italia di O., in L’eredità di A. O. Nel centenario della morte, a cura di D. Bolognesi, in Quaderni del Cardello, XIX (2011), pp. 7-142; R. Sideri, La rivoluzione ideale di A. O., Roma 2011. Su O. narratore: A. Borlenghi, in Narratori dell’Ottocento e del primo Novecento, III, Milano-Napoli, 1963, pp. 903-919; E. Caccia, in Diz. storico-critico della letteratura italiana (UTET), a cura di V. Branca, II ed., III, Torino 1986, pp. 297-300; G. Debenedetti, Serra e i romanzi di O. [1965-66], in Id., Il romanzo del Novecento, Milano 1971, pp. 675-687; F. Portinari, I piaceri dello scandalo(I modi borghesi dell’antiborghesia), in Id., Le parabole del reale, Torino 1976, pp. 143-161; E. Ragni, A. O.: un doveroso recupero, in Studi in onore di Mario Marti, II, Lecce 1981, pp. 211-225;G. De Rienzo, L’uomo senza qualità di O., in Id., Il poeta fuori gioco: nostalgia, mitografia e cronaca dell’Ottocento minore, Roma 1985; V. Licata, Lo specchio e il precipizio: saggi sulla narrativa di A. O., Caltanissetta-Roma 1994; M. Verdenelli, A. O.: dalla «Disfatta» alla scrittura ritrovata, in Quaderni del Cardello, II (1991), pp. 29-41; R. Scrivano, Letteratura e colonialismo, in Riscontri, 1993, 1-2, pp. 9-34; S. Corrias, La scrittura critico-filosofica di A. O., in Quaderni del Cardello, X (2000), pp. 141-173; E. Dirani, I 150 anni di O. (1852-2002): l’ombra sua torna?, ibid., XI (2001), pp. 11-31; O. Barbella, Il romanzo della negazione vendicativa, ibid., pp. 33-102; M. Biondi, «La disfatta». Teoria e romanzo della degenerazione, ibid., XVII (2008), pp. 9-33; M. Veronesi, Oriani e la solitudine della scrittura, ibid., pp. 37-50; Enc. Italiana, XXV, pp. 534-536.