DE SANCTIS, Alfredo
Nacque a Brindisi il 7 ott. 1866 da una famiglia di comici girovaghi. Il padre Pio, un mediocre attore che sosteneva ruoli da caratterista ed era particolarmente abile nel personaggio di Pulcinella, dirigeva una modestissima compagnia, composta quasi esclusivamente dai suoi parenti più stretti, la moglie, i fratelli, i figli e i nipoti. Per la sua vivace intelligenza il D. venne avviato agli studi e affidato ad uno zio materno perché provvedesse alla sua educazione, ma, dopo aver frequentato irregolarmente la scuola tecnica, il ginnasio e aver seguito, con scarsi risultati, alcuni corsi di medicina, tornò nel 1882 in famiglia per sostituire il suggeritore che aveva improvvisamente disertato la compagnia. Alla scuola del padre ebbe modo di imparare tutti i mestieri del teatro. Fu, infatti, a seconda delle necessità, suggeritore, primo attore, bigliettaio, caratterista, amministratore, ed ebbe modo di formare il suo gusto di interprete, eclettico ed efficace, nel confronto con un repertorio eterogeneo, che prevedeva accanto ad opere classiche, farse, commedie moderne e sacre rappresentazioni, a contatto con un pubblico impreparato ed occasionale che si lasciava sedurre da caratteri ben marcati e da situazioni sensazionali. Nella "passione" La nascita del Verbo umanato, lo vide Enrico Duse, zio di Eleonora, che indusse il D. ad abbandonare la compagnia paterna per cercare altrove fortuna.
Fu quindi chiamato da A. Lambertini per sostituire un attore nella compagnia Diligenti e debuttò a Bologna nel 1885 con una particina di sfondo; chiamato da C. Rossi per parti di "generico" nella quaresima del 1886, lasciò ben presto la compagnia, anche per dissapori con il capocomico che mal tollerava la cadenza dialettale dell'attore, e seguì L. Roncoroni in una tournée in Sudamerica come primo attor giovane. Durante questo viaggio ebbe modo di migliorare la sua dizione e di raffinare le sue qualità di interprete e lo stesso Rossi, che lo vide in una rappresentazione americana de Ilpadrone delle ferriere di G. Ohnet, si complimentò per la sua inaspettata metamorfosi. Il D. riscosse dalla critica locale consensi calorosi e unanimi, imponendosi soprattutto in La signora dalle camelie di A. Dumas figlio, con il ruolo di Armando, per il fuoco della passione e per la naturalezza espressiva.
Tornato in patria nel 1891, fu scritturato come primo attor giovane nella compagnia Di Lorenzo-Calamai e quindi Paladini-Talli; divenne infine "primo attore" nel 1894 nella formazione di F. Garzes. Solo l'anno successivo, grazie anche ai consigli del suo nuovo capocomico, G. Emanuel, il D. si affermò come uno degli interpreti più intelligenti e capaci del teatro naturalista.
Presentando Spettri di H. Ibsen nei maggiori teatri italiani, prima a Bologna e quindi a Venezia, Torino, Milano e Roma, il D. superò il confronto con l'interpretazione, già leggendaria, di E. Zacconi di Osvaldo, proponendo un personaggio più ambiguo e problematico di quello del maestro, ma soprattutto più verosimile e convincente. Grazie alle nozioni di medicina apprese in gioventù, il D. ricostruisce le varie fasi della malattia e impernia l'azione sul crescendo fisico, e insieme psicologico, del male. Appena intuibile nelle prime scene, la malattia si manifesta gradualmente per esplodere solo alla fine con drammatica evidenza e lascia adito a dubbi e speranze, suscitando nello spettatore un'incertezza che avvince e commuove. Già in questa prima interpretazione appare evidente l'interesse del D. per le opere moderne e per personaggi facilmente caratterizzabili; sia pure con il rischio di semplificare l'intreccio drammaturgico, egli mira a una tipizzazione del protagonista che metta in evidenza solo i tratti salienti della personalità e permetta all'attore un gioco scenico elementare, basato sull'alternanza di due o tre atteggiamenti diversi tra loro e sempre ricorrenti. La cura del dettaglio, la precisione dei particolari, l'attenzione per le situazioni patologiche e per le "deformazioni dell'animo" (Levi, p. 248) donano al personaggio quella vitalità e quell'efficacia spettacolare che sono alla base del successo dell'attore e della sua originalità nel panorama teatrale del tempo: "Il tipo è sempre visto con genialità: le sue caratteristiche peculiari sono intuite con ingegno acuto e penetrante" (ibid.).
Considerato il successore di Zacconi, il D. venne salutato dalla critica come il massimo interprete del dramma moderno e come esponente di quei riformatori che tentavano di liberare i palcoscenici dal dramma borghese e dalla pochade: "Come attore egli è moderno nel vero senso della parola: rivive intiero il personaggio in scena e penetra in esso. Nulla in lui è artificioso o voluto ... sente la passione e la rende tale quale: sulla scena non è lui, ma il personaggio creato e veduto dall'autore: egli lo rivive intiero; e ottiene con la semplicità e la verità quel grado di manifestazione che altri può conseguire invece col gesto esagerato, la voce garzata, la caricatura e l'abuso degli effetti scenici" (Antona Traversi, p. 11). In realtà dietro l'accentuazione delle truccature, dietro le sue creazioni fin troppo marcate, dietro la predilezione per i tic e le manie, non si nasconde tanto l'attore verista, quanto, come nota D'Amico, l'erede di una tradizione teatrale ingenua e popolare che vuole soprattutto sbalordire, commuovere, sorprendere, anche a scapito del comune senso della misura, e che trova nella moda del naturalismo una imprevedibile confluenza di gusti e di interessi.
Primo attore nella compagnia di Eleonora Duse, il D. seguì l'attrice in una tournée all'estero, riportando un lusinghiero successo al Drury Lane di Londra nell'interpretazione di Armando e di Turiddu nella Cavalleria rusticana di G. Verga ("Alfredo De Sanctis - commentò il critico del quotidiano The Evening News il 4 giugno 1895 - is one of the finest, if not the finest Armando that has been seen on the stage in England"). Passato nella compagnia di Italia Vitaliani nel 1896, si impose nel personaggio di Moretti ne Idisonesti di G. Rovetta e "si rivelò qui ancor meglio che in altre produzioni" (Suppl. al Caffaro di Genova del 19 apr. 1896). Con questa interpretazione, che divenne ben presto il suo cavallo di battaglia, ottenne unanimi consensi anche in Sudamerica, dove si recò nella stagione 1896-97. Nella compagnia Della Guardia dal 1897 al 1898, arricchì il suo repertorio con nuovi personaggi tratti sia dal teatro moderno (il ministro Prina in Principio di secolo di Rovetta, Corrado ne La morte civile di P. Giacometti, Piero in Il povero Piero di F. Cavallotti) sia da quello classico (De Walter in Amore e raggiro di F. Schiller), raggiungendo la maturità artistica ed espressiva: "Egli ha conquistato in questi ultimi tempi un grado di evidenza e di espressione tale da dover essere posto non solo tra i pochissimi buoni, ma a pari, il più delle volte, dei rarissimi eccellenti, se non vogliamo dire meglio, del solo eccellente, lo Zacconi" (Lanza, A. D., in La Stampa, 5 luglio 1897). Il realismo delle sue creazioni e lo studio attento, "scientifico", dei personaggi, valsero al D. la fama di riformatore e gli conquistarono le simpatie di critici e intellettuali come Vittorio Bersezio, Domenico Lanza, Camillo Sacerdote, che lo chiamarono, nel 1898, a dirigere il Teatro d'arte di Torino. Nel corso della breve esperienza torinese - l'iniziativa ebbe infatti solo pochi mesi di vita - il D. propose al pubblico un repertorio impegnativo che comprendeva Casa di bambola, Spettri e Le colonne della società di H. Ibsen, IDanicheff di A. Dumas figlio, Il pane altrui di I. S. Turgenev, Tristi amori di G. Giacosa, Il ridicolo e Cause ed effetti di P. Ferrari, con allestimenti curati fin nei minimi particolari.
In netto contrasto con gli altri capocomici italiani, il D. impose ai suoi attori, tra i quali G. Pezzana, C. Dondini, T. Teldi, F. Valente, un lavoro di prove attento e rigoroso: senza mai negare la genialità dell'attore e il suo diritto alla "creazione" drammaturgica, il D. fu un fautore dell'organizzazione moderna del teatro che non lasciava spazio all'improvvisazione o all'estro degli interpreti; per lui lo spettacolo si svolgeva su di "una specie di scacchiera su cui ogni personaggio, in quel dato momento, deve fare quella data mossa; se manca ne risulta scompigliato tutto il resto del gioco" (A. De Sanctis, Caleidoscopio glorioso, Firenze 1946, p. 209). Nella sua attività di capocomico, iniziata nel 1899, il D. tenne fede a questi principi e affidò la riuscita delle sue messe in scena più che al talento dei singoli attori o alle suggestioni dell'allestimento, modesti e l'uno e le altre, ad un intreccio ben delineato di atteggiamenti, tonalità, movimenti e ritmi che assicuravano l'armonia della rappresentazione e consentivano al primo attore di dominare incontrastato il palcoscenico.
Fino allo scoppio della prima guerra mondiale, il D. continuò a proporre un repertorio di impegno, incentrato sulla produzione di autori come Ibsen, Gorkij, Brieux e Tolstoj, nonostante la crisi del naturalismo e il mutamento nei gusti del pubblico che alla denuncia sociale preferiva le suggestioni del teatro d'avanguardia o del dramma psicologico. Sono di questi anni le interpretazioni di Quando noi morti ci destiamo, La commedia dell'amore, Gian Gabriele Borkman di Ibsen Piccoli borghesi di M. Gorkij, Il cadavere vivente di L. Tolstoi, Il dio della vendetta di S. Asch, I corvi di H. Becque, Gli avariati di E. Brieux (che il D. rappresentò per anni gratuitamente nelle mattine dei giorni festivi, convinto che l'opera contenesse insegnamenti di grande utilità per i giovani), Lucifero di E. A. Butti, che lo vedono impegnato insieme alla moglie Alda Borelli, sposata nel 1902, da cui si separò dopo alcuni anni.
Fu infine costretto a trasformare il suo stile e a cimentarsi in commedie spesso mediocri ma di sicuro successo, nelle quali seppe tuttavia creare caratteri efficaci e interessanti, come quello del colonnello Bridau nell'omonima commedia di E. Fabre, del veterano Flambeau ne L'Aiglon di E. Rostand, dell'abate Griffard ne Ilprocesso dei veleni di V. Sardou, di Alessandro Fara in Alleluja! di M. Praga. La capacità di adattarsi alle mode teatrali e di alternare nel suo repertorio opere classiche a commedie di intreccio, mettono in evidenza il grande mestiere del D., la duttilità della sua recitazione agile, varia ed espressiva e, soprattutto, la sua vera vocazione di attore di carattere che predilige "il teatro tipo Sardou, Scribe e, s'è finalmente scoperto, Dennery" (D'Amico, p. 96) e che, più che alla qualità del testo, bada al numero delle scene nelle quali il primo attore è presente. Attore instancabile, il D. recitò con compagnie spesso al di sotto della mediocrità, raccogliendo veterani delle scene e attori alle prime armi (tra questi, anche alcuni giovani destinati a diventare famosi come Elsa Merlini, Paola Borboni, Corrado Racca e Giuditta Rissone) e supplì alle carenze dell'apparato scenico con la forza della sua dialettica sostenendo degnamente il confronto con formazioni di maggiore prestigio. Con gli anni '20 il pubblico iniziò però ad abbandonare il D. che decise di accettare una serie di proposte dall'estero: nel 1921 fu a Parigi con alcune delle sue più riuscite interpretazioni (Ildio della vendetta, Uno degli onesti e Sperduti nel buio di R. Bracco, La maschera e il volto di L. Chiarelli, Lucifero) e nel 1922 a Marsiglia e a Barcellona. Tornato in Italia propose nel 1923 un repertorio shakespeariano con Riccardo III, La tempesta e Amleto (quest'ultima opera tradotta dallo stesso D.), per ritornare nella stagione successiva a spettacoli di richiamo (L'intruso di P. Wolff, Quel bel tipo di Pigorelli di G. Carcano, Mia moglie ... mia figlia di A. Barde, In Vandea di T. Murri, Il mio curato tra i ricchi di A. Delorde, Il volto dell'amore di R. La Valle). Nel 1932 diresse il primo Carro di Tespi, che presentò in oltre quaranta Comuni del Lazio Villafranca di G. Forzano; lasciò infine il teatro "stroncato dalla lotta sleale tra la sua ostinata buona fede e tutto il groviglio di assurdità, di snervanti tirannie burocratiche" (A. De Sanctis, Caleidoscopio..., p. 62) nel 1933. Riapparve saltuariamente sulle scene nel 1934 (Ipescecani di D. Niccodemi, Amici come prima di C. Colbert), nel 1936 (Ilcolore dell'anima di R. Alessi), nel 1939 (Giulio Cesare di G. Forzano), nel 1942 (L'Arlesiana di A. Daudet). Nel 1953 ripresentò, con una compagnia propria, le interpretazioni più significative del passato (Un curioso accidente di C. Goldoni, Lucifero e Piccoli borghesi), suscitando nel pubblico una viva simpatia. Di scarso rilievo l'attività cinematografica (Fanny del 1933, Troppo tardi t'ho conosciuta del 1939, Processo e morte di Socrate del 1940) e di autore drammatico (Senza testa, commedia in un atto mai rappresentata e La lotta per l'onore, rappresentata con scarso successo dalla compagnia Calamai nel 1892).
Il D. morì a Firenze il 30 genn. 1954.
Fonti e Bibl.: C. Antona Traversi, L'artista A.D., Genova 1896; L. Rasi, I comici ital., I, Firenze 1897, pp. 758 s.; A.D., Cremona 1899; G. Cauda, Chiaroscurali di palcoscenico, Savigliano 1910, pp. 179 ss.; Id., Nel regno dei comici, Chieri 1912, pp. 116-121; Id., A velario aperto e chiuso, Chieri 1920, pp. 176 s.; A. Brisson, A.D., in Temps (Parigi), 28 nov. 1921; A.D., in Annuario del teatro ital., II, Milano 1923, pp. 301-304; C. Levi, D., in Le scimmie e lo specchio, II, 10 nov. 1924, pp. 246-257; N. Leonelli, Viaggio intorno al mio camerino, Bologna 1928, pp. 24-30; S. D'Amico, Il tramonto del grande attore, Milano 1929, pp. 96-99; E. Roma, A.D. e il teatro umiliato, in Comoedia, XII (1930), 8, pp. 31 s.; M. Corsi, Il teatro all'aperto in Italia, Milano-Roma 1939, pp. 28, 278; N. Leonelli, Attori tragici, attori comici, I, Milano 1940, pp. 298 ss.; R. Simoni, Trentanni di critica drammatica, I, Torino 1951, pp. 71, 118-121, 125 s., 273 s., 337, 384, 386 s., 393 s.; II, ibid. 1954, pp. 214 ss., 220-224; 227 s., 325 ss., 338; III, ibid. 1955, pp. 139, 318 s., 474, 477 ss., 481 ss.; IV, ibid. 1958, pp. 158 ss., 298 s., 454 s., 563; L. Ridenti, D., in Il Dramma, XXX, 199, 15 febbr. 1954, pp. 49 s.; E. Possenti, ibid., pp. 50-52; Enc. d. spett., IV, coll. 511 ss.; Enciclopedia Italiana, XII, p. 657; Filmlexicon degli autori e delle opere, II, coll. 243 s.