PICCOLOMINI, Alfonso
PICCOLOMINI (Piccolomini Todeschini), Alfonso. – Figlio primogenito di Giacomo, del ramo Piccolomini Todeschini, e di Isabella Orsini di Niccolò, conte di Pitigliano, nacque ad Acquapendente nel 1558.
Oltre al feudo di Camporsevoli nella Val d’Orcia, ereditò quello di Montemarciano, situato nella Marca di Ancona. Nel 1464, papa Pio II lo aveva concesso in vicariato perpetuo ai nipoti Giacomo e Andrea a condizione che, in caso di caducità, ricadesse alla Repubblica di Siena dietro pagamento di un censo alla Camera apostolica.
Il carattere inquieto e violento di Piccolomini non tardò a manifestarsi soprattutto in frequenti conflitti con esponenti della famiglia Baglioni di Perugia. Il 18 febbraio 1576, sotto la protezione del duca di Urbino Francesco Maria II della Rovere, fu stipulato il contratto di matrimonio con Ippolita Pico della Mirandola, figlia di Ludovico. La dote, che su richiesta di Ippolita ebbe come curatore Roberto Monaldi, designato dal podestà di Pesaro, ammontava a 39.000 scudi d’oro in oro. Piccolomini aveva già contratto numerosi debiti e il denaro sarebbe servito solo in parte a sanarli nel corso degli anni successivi. Il matrimonio fu per il momento rinviato.
Nel frattempo il feudo di Montemarciano era divenuto un ricettacolo per i banditi che infestavano lo Stato Pontificio: Gregorio XIII diffidò Piccolomini dall’ospitare ricercati nei suoi possessi, ma, incurante delle disposizioni pontificie, egli si recò in Toscana. Il papa aveva cercato di persuadere il granduca Francesco I di consegnargli Piccolomini e inviarlo a Roma, ma la protezione del granduca si mantenne, in questo periodo, salda, anche per il timore nutrito dai Medici che i numerosi e profondi legami che Piccolomini aveva con la nobiltà senese, per lo più ancora restia ad accettare il dominio fiorentino, potessero causare disordini.
I timori medicei non erano infondati: nel 1577, quando si presentò a Siena, il governatore Federico da Montauto lo fece carcerare per alcuni mesi. Liberato dietro pagamento di una sicurtà di 4000 scudi e a condizione che non rientrasse nei territori pontifici, Piccolomini si recò a Pienza, dove fu accolto trionfalmente. Poteva vantare legami di parentela e di protezione anche con famiglie del baronaggio romano, soprattutto con i Colonna e gli Orsini di Pitigliano, al cui ramo apparteneva la madre, e che, ancora in quegli anni, rappresentavano una minaccia sia per il granduca di Toscana sia per il papa.
Ripresero intanto le trattative per il suo matrimonio con Isabella Pico e il 29 settembre 1577 a Pesaro fu redatta un’obbligazione, alla quale ne seguì un’altra stipulata nel febbraio 1578, quando finalmente il matrimonio fu celebrato a Pesaro alla presenza di Scipione Piccolomini, zio e tutore di Piccolomini, e del duca di Urbino Francesco Maria II della Rovere, che, pressato dalla necessità di denaro, subinfeudò le comunità di Tomba, Ripa e Monterado (29 agosto 1578).
Piccolomini intessé in questi anni rapporti con Petrino da Spoleto, altro temibile «bandito famosissimo dello Stato della Chiesa» (De’ Ricci, 1972, p. 360) che imperversava nelle campagne umbre e sul confine con la Marca. Alla sua morte, a opera secondo alcuni di un sicario di Piccolomini, questi divenne padrone incontrastato dei territori pontifici. Recatosi alla Mirandola «per vendicare torti» e compiere azioni punitive ai danni di «nemici» – fra i quali Pier Conte Gabuzio, reo di averlo screditato davanti al papa – saccheggiò la comunità di Montalboddo (oggi Ostra), massacrandone gli abitanti. La risposta pontificia fu decisa: Piccolomini fu bandito dallo Stato Pontificio, scomunicato e colpito da una taglia di 4000 scudi; inoltre Gregorio XIII procedette al sequestro di Montemarciano e alla distruzione della rocca (novembre 1578).
Secondo osservatori coevi sarebbe stata questa la causa della ribellione di Piccolomini al papa. Con i suoi uomini, il cui numero oscillava intorno alle 200 unità, egli si muoveva in continuazione da un luogo all’altro, protetto da amici e dal timore di vendette. Da Cortona si portò nel suo feudo di Camporsevoli, passando poi nel territorio della Repubblica di Venezia nel 1580. Questa inafferrabile mobilità lo rendeva pericoloso, ma lo circondava agli occhi dei suoi seguaci e delle popolazioni anche di un alone di mistero e di gloria. Ricomparso nella Marca nel maggio 1581, come scriveva preoccupato il governatore Fabio Mirto Frangipani, all’inizio dell’estate saccheggiò Ascoli, dove fu ucciso il governatore Orazio Marziari. Dopo uno scontro con gli uomini di Latino Orsini, dette l’assalto al convento francescano di Brogliano a Colfiorito: Piccolomini intendeva tornare a Montemarciano per controllare la mietitura e dar fuoco al raccolto, se il papa l’avesse sequestrato, come riferiscono alcuni testimoni in un processo (Archivio di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi sec. XVI, n. 173, ins. 15). Il 29 luglio 1581 dette l’assalto alle allumiere di Tolfa rimanendo poi, nel mese successivo, in quei monti per rifornire i suoi circa 300 uomini e per attaccare le terre di Latino Orsini, comandante delle truppe pontificie.
Piccolomini poteva contare ancora sull’aiuto di Francesco I de’ Medici, che si servì di Antonio Serguidi, suo agente a Roma, per trattare con Giacomo Boncompagni ed evitare il sequestro dei beni del bandito, persuaso che bisognasse «andare con molta circospetione con questi giovani principali della città di Siena imparentati come erano con tutte le principali famiglie di essa da potersi partorire alterationi se si gettasse al disperato» (Grottanelli, 1892, p. 61). I contemporanei vedevano nelle azioni di Alfonso Piccolomini la naturale vendetta per le offese recategli dal pontefice e ne giustificavano la violenza. Tuttavia, attorno al conflitto fra il papa e il bandito si evidenziarono sia le rivalità nobiliari e la disordinata resistenza nei confronti della politica di controllo del territorio perseguita dai pontefici sia i più complessi equilibri fra il Papato, i Medici e la Spagna. Il cardinale Ferdinando de’ Medici si serviva di Piccolomini per premere su Gregorio XIII, che accettò di trattare con il bandito.
Questi, nel settembre 1581, presentò una supplica al papa per ottenere il perdono e soprattutto per rientrare in possesso del suo feudo. Intanto risiedeva a Firenze con la moglie. Il papa, che voleva allontanarlo dai suoi Stati, nel gennaio 1583, fece recapitare al cardinale de’ Medici, attraverso Carlo Borromeo, l’ordine per il bandito di recarsi a Roma. Anche il cardinale Niccolò Sfondrati lo convinse a presentarsi per ottenere il perdono dal papa, la solenne benedizione a condizione di allontanarsi dai territori pontifici e andare in Francia a combattere in difesa della Lega cattolica. All’inizio di aprile 1583, Piccolomini era a Roma con un salvacondotto, alloggiato presso il cardinale Medici: gli fu offerto il generalato dello stato di Avignone, una delle più importanti cariche militari pontificie, insieme con la revoca della scomunica e della condanna. La decisione pontificia destò stupore – «il mondo e la gente assai si meraviglia, perché si dice che ha fatti molti mali contro la sedia apostolica», scriveva Lelio Della Valle (Gatta, 1982, p. 239).
Dopo una permanenza in Francia dal novembre 1584 all’inizio di agosto 1585 (Benadusi, 1977, p. 101 n. 48), Piccolomini tornò a Firenze e poi a Montemarciano, che, intanto, era stata devastata dai soldati pontifici. Chiese così al duca di Urbino di poter dimorare nella rocca di Pesaro, ma Francesco Maria della Rovere non si mostrò disponibile ad accoglierlo, temendo rappresaglie da parte pontificia. Tornato in Francia, fu nominato luogotenente nel marchesato di Saluzzo, ricevette dal re 12.000 scudi e una pensione annua di 3000 ducati. Il duca Enrico di Guisa lo introdusse nella corte di Caterina de’ Medici, con la quale si lamentò dei torti subiti da Anne d’Arques, duca di Joyeuse. Da Caterina ricevette l’incarico di reclutare truppe in Italia. Durante i suoi frequenti soggiorni a Pienza, per ordine di Francesco I impiegò i suoi uomini per combattere i banditi che infestavano il Senese (maggio 1586). Sisto V, con la bolla del 7 ottobre 1586, lo assolse e liberò i suoi beni dalla confisca.
Alla morte di Francesco I de’ Medici (19 ottobre 1587) la situazione divenne più difficile per Piccolomini, che non poté più contare sulla protezione medicea. Divenuto granduca, Ferdinando de’ Medici si rese conto ben presto che il potere di Piccolomini e i favori di cui godeva presso la nobiltà senese rappresentavano un pericolo, acuito dall’aumento del banditismo nei suoi territori. La rottura avvenne nella primavera del 1589 e Piccolomini divenne il nemico da sconfiggere, in un quadro politico di tensione alimentata dalla Spagna. Nell’aprile 1590 la pressione delle bande si fece più forte soprattutto nella Marca, ad Ascoli, dove la Spagna contribuì a fomentare i disordini, come riferiva Giovanni Niccolini, ambasciatore fiorentino a Roma, al granduca. I territori pontifici, e in specie la Marca, erano provati in questi anni da cattivi raccolti e da carestie che rendevano precaria la situazione nelle campagne, dove imperversavano numerose bande di fuoriusciti. Piccolomini, impegnato a far leva di soldati sia nel Milanese sia a Mirandola, destinati in Francia, ma che in realtà servivano ad alimentare le sue schiere, era adoperato dalla Spagna per fare pressione su Sisto V.
Fu avviata intanto una trattativa fra Ferdinando de’ Medici e il papa per collaborare alla cattura di Piccolomini: Niccolini chiese che i soldati granducali potessero entrare nello Stato Pontificio per arrestarlo o ucciderlo, mentre anche altri sovrani assicuravano il loro aiuto. Venezia aveva posto su di lui una taglia di 10.000 ducati, assicurando anche la remissione del bando per cinque fuoriusciti e, nel timore che si unisse con la compagine di Marco Sciarra, anche la Repubblica aveva fatto accordi con il papa per estradarlo qualora fosse stato catturato nel suo territorio.
Il 16 giugno 1590 Piccolomini si trovava nel Pistoiese, intenzionato a dirigersi poi verso Siena, ma si ritirò invece in Romagna dopo aver saccheggiato Pietramala e Firenzuola. Il 27 giugno fu messa dal granduca una taglia di 20.000 scudi sulla testa del ricercato, se fosse stato catturato vivo, di 10.000 se fosse stato ucciso. Il 9 luglio 1590 terminò a Firenze il processo che, per volere di Ferdinando I, era stato iniziato dagli Otto di guardia nel giugno precedente con la citazione di testimoni. Fu emanata la sentenza capitale in contumacia. Durante il conclave del 1590 la Spagna si servì ancora di Piccolomini, che si trovava nel Piacentino, poi a Montemarciano e nel Regno di Napoli, per fare pressione sul Sacro Collegio. Intenzione della Spagna era infatti di «travagliare il Granduca nello Stato di Siena e il Papa» (Grottanelli, 1892, p. 145). Piccolomini poté entrare a Roma in carrozza, protetto dai Colonna e l’ambasciatore spagnolo don Enrique secondo conte di Olivares lo ospitò nel suo palazzo, offrendogli una credenziale di 12.000 scudi da esigere presso banchieri a Venezia.
Ormai avvezzo a usare travestimenti per spostarsi e non essere riconosciuto, poté tornare ancora una volta a Montemarciano. Come mostra la fitta corrispondenza fra la Curia e i legati e i governatori di Romagna, della Marca e di diverse città (Archivio segreto Vaticano, Arm. XIL, 37, passim), il timore per le incontrollabili azioni di Piccolomini si univa a quello per le sollevazioni delle popolazioni locali duramente provate dalla carestia, nonché dalla possibile unione delle bande di Piccolomini con quelle, altrettanto numerose e temibili, di Sciarra e di Battistello da Fermo, con il pericolo del loro convergere su Roma nei periodi di sede vacante. Nell’agosto del 1590 la moglie Ippolita, che si trovava a Firenze, aveva lamentato ai Capitani di parte guelfa la sua precaria condizione finanziaria, deterioratasi dopo aver consegnato al consorte la dote di 39.000 scudi d’oro.
Nell’autunno 1590 Piccolomini trovò spesso rifugio a Pitigliano, dove Alessandro Orsini, dichiaratosi fino ad allora suo nemico, impressionato dall’avanzare di truppe granducali al comando di Camillo Bourbon Del Monte nel suo territorio, prestò aiuto a Piccolomini, proseguendo l’ambiguo rapporto degli anni precedenti. Il 6 dicembre 1590 le truppe comandate da Del Monte e da Virginio Orsini si scontrarono a Monterosi con gli uomini di Piccolomini, che riuscì a fuggire. Usò ancora il travestimento per mettersi in salvo, ma il 5 gennaio 1591, dopo uno scontro nei pressi di Cesena con i soldati del granduca capeggiati da Desiderio Bisaccioni di Jesi, fu catturato, riconosciuto e imprigionato nelle carceri di Forlì.
Il governatore della città, Pompeo Sperelli, reclamò invano il diritto di tenere il prigioniero, catturato in territorio pontificio, ma Bisaccioni fece partire Piccolomini alla volta di Firenze. Fino ad allora erano state forti le pressioni spagnole perché egli non finisse nelle mani del granduca di Toscana, ma, con l’elezione di Gregorio XIV al soglio pontificio (5 dicembre 1590), era venuto meno il sostegno della monarchia cattolica che aveva ottenuto finalmente un pontefice filospagnolo. Il nuovo papa promise a Ferdinando I di aiutarlo a catturare Piccolomini, ma, di fatto, non si impegnò, cosicché il granduca di Toscana affrontò la lotta «quasi si trattasse di una questione privata» (Benadusi, 1977, p. 115). La lotta di Ferdinando I contro Piccolomini si inseriva nel quadro di «ostilità non dichiarate e di crescente tensione fra il sovrano spagnolo e il granduca» (Fasano Guarini, 1996, p. 267). Dal processo celebrato dagli Otto di guardia erano emersi i rapporti di Piccolomini con membri del Sacro Collegio e con la Spagna, che aveva esercitato pressioni per ottenere un pontefice favorevole alla politica di Filippo II, ma anche i precedenti maneggi di Ferdinando I con la Spagna. Così Piccolomini era diventato un pericolo per il granduca, al quale Niccolini riferiva le parole di Olivares: la soluzione migliore sarebbe stata «che questo cagnuolo o bracco fusse fatto fuggire e messo in silenzio» (Benadusi, 1977, p. 117).
Dopo un processo rigorosamente segreto, il 9 luglio 1590 gli Otto emisero la sentenza e Piccolomini fu impiccato alla torre del Bargello a Firenze il 16 marzo 1591. Fu sepolto nella chiesa dei Neri a Borgo la Croce, fuori porta S. Francesco, distrutta nel Settecento. Alla morte di Piccolomini il feudo di Montemarciano fu incorporato alla Camera Apostolica e il titolo ducale tornò in possesso di Gregorio XIV, che il 3 maggio 1591 ne investì il nipote Ercole Sfondrato.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi sec. XVI, 173, ins. 15, fasc. 1-2; 241, ins. 27, cc. 1110r-1117v; 252, ins. 25, cc. 872r-887v; Archivio segreto Vaticano, Misc. Arm. XLV, 37, passim; Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat., 1058, 1059; G. Maffei, Degli Annali di Gregorio XIII, Roma 1752, ad ind.; R. Galluzzi, Istoria del Granducato di Toscana, III-IV, Firenze 1781, ad indices; G. de’ Ricci, Cronaca (1532-1606), a cura di G. Sapori, Milano-Napoli 1972, ad ind.; B. Gatta, Il Diario di Lelio della Valle (1581-1586), in Archivio della Società romana di storia patria, CV (1982), pp. 237-259.
L. Grottanelli, A. P. Storia del XVI secolo, Firenze 1892; L. von Pastor, Storia dei papi, IX, Roma 1955, pp. 773, 778-783; X, Roma 1955, pp. 65, 68, 544; V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, V, Milano 1955, p. 328; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini 1585-1647, Bari 1976, pp. 60, 89; P. Benadusi, A. P., duca e bandito del secolo XVI, in Ricerche storiche, VII (1977), pp. 93-118; I. Fosi, La società violenta. Il banditismo dello Stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma 1985, pp. 167-185; E. Fasano Guarini, Ferdinando I de’ Medici, granduca di Toscana, in Dizionario biografico degli Italiani, XLVI, Roma 1996, p. 267; G. Brunelli, Nobili soldati e giustizia nello Stato della Chiesa (1560-1605), in Roma moderna e contemporanea, V (1997), pp. 97-116; Id., Soldati del papa. Politica militare e nobiltà nello stato della Chiesa (1560-1644), Roma 2003, pp. 43, 98 n. 131; P. Litta, Famiglie celebri italiane, V, Milano s.d., p. 561 (non sempre attendibile).