PETRUCCI, Alfonso
PETRUCCI, Alfonso. – Nacque a Siena nel 1492, da Pandolfo Petrucci e Aurelia Borghesi (o Borghese). Rampollo di una delle famiglie più influenti della città, ricevette un’educazione di stampo umanistico sotto la guida del colto benedettino Severo Varini. Gli anni della sua adolescenza coincisero con l’apice dell’ascesa del padre ai vertici della Repubblica di Siena e dello scenario politico italiano, nel quale l’ambizioso Petrucci fu all’inizio del Cinquecento uno dei principali protagonisti, riuscendo con abilità a difendere l’autonomia senese dalle mire dei Medici e di Cesare Borgia. Ritiratosi dalla vita politica attiva nel 1512, l’anno della sua morte, Pandolfo indicò nel figlio Borghese il proprio erede alla guida della Balìa senese, mentre il minore Alfonso, seppur privo di vocazione per la vita religiosa, venne indirizzato alla carriera ecclesiastica, della quale raggiunse rapidamente i massimi gradi grazie agli ingenti investimenti economici della famiglia.
Già ordinato vescovo di Sovana (1510) e poi di Massa Marittima (1511), il 10 marzo 1511, a diciannove anni, venne creato cardinale di S. Teodoro dal pontefice Giulio II. Tra i suoi benefici, inoltre, il giovane porporato poteva annoverare la commenda dell’abbazia di S. Leonardo della Macina, nella diocesi pugliese di Siponto. Grazie alle ampie disponibilità economiche, al pari di molti altri principi della Chiesa del suo tempo condusse in questi anni una vita particolarmente mondana, cercando anche attraverso tale via di consolidare la propria posizione all’interno della corte romana. Un passo significativo in questa direzione sembrò essere il sostegno accordato alla candidatura di Giovanni de’ Medici nel conclave del marzo 1513. Ponendosi tra i principali artefici dell’elezione del futuro Leone X, Petrucci mirava non solo all’ottenimento di benefici personali, ma anche a garantire l’integrità della Repubblica di Siena e il rispetto da parte del nuovo pontefice del governo del fratello Borghese, al quale era legato da un rapporto talora conflittuale, ma nutrito da un forte sentimento di solidarietà familiare. Tuttavia, una volta insediatosi sul soglio di Pietro, Leone X si mostrò assai meno riconoscente di quanto Petrucci avesse sperato. Mosso dalla necessità di assicurarsi il controllo quantomeno indiretto di Siena, il cui territorio permetteva il collegamento tra Roma e la Toscana medicea, nel marzo 1516 il pontefice giunse anzi ad avallare la rimozione di Borghese Petrucci e la sua sostituzione con il cugino Raffaele, alleato fedele dei Medici.
Il colpo di Stato determinò il bando da Siena e la confisca dei beni di tutti i figli di Pandolfo Petrucci, compreso Alfonso che visse la vicenda come un atto di enorme ingratitudine e un affronto imperdonabile da parte di Leone X. Ritiratosi in luglio a Genazzano, feudo della famiglia Colonna, nei mesi seguenti Alfonso si recò più volte a Napoli, dove il fratello Borghese si era rifugiato. Qui l’ex moderatore della Repubblica senese aveva beneficiato dell’accoglienza degli Aragona, con i quali il padre Pandolfo aveva siglato nel 1511 un trattato che prevedeva la fedeltà di Siena alla Corona spagnola e l’impegno da parte di questa a garantire la supremazia di Petrucci e dei suoi discendenti nel governo della Repubblica. Le trattative per un piano di rientro di Alfonso e Borghese Petrucci a Siena con l’appoggio di aragonesi e colonnesi si protrassero fino all’inizio del 1517. Sembra che, per assicurarsi il loro sostegno, Alfonso fosse pronto a versare agli spagnoli fino a 40.000 ducati. Tuttavia, a parte una sortita di Muzio Colonna che nell’ottobre 1516 prese Fermo, l’iniziativa non si concretizzò. Nel frattempo Alfonso aveva lavorato per via diplomatica al fine di collegare la causa dei Petrucci fuoriusciti a quella dello spodestato duca di Urbino Francesco Maria della Rovere, anch’egli vittima alla fine del 1516 dell’ambizione di Leone X di dar vita a un’ampia regione filomedicea nell’Italia centrale. Temendo una simile intesa e volendo tenere il Senese sotto controllo, nel febbraio 1517 il pontefice offrì ad Alfonso un salvacondotto che gli avrebbe permesso di rientrare a Roma, cosa che Petrucci effettivamente fece l’11 febbraio avendo ricevuto, evidentemente, anche altre garanzie e promesse da parte di Leone X. Poco meno di un mese dopo, tuttavia, Alfonso lasciava nuovamente Roma e senza licenza papale, adducendo quale causa la propria situazione finanziaria, faceva ritorno a Genazzano con Prospero Colonna. La precipitosa partenza del cardinale senese suscitò non pochi sospetti presso le corti medicee di Firenze e di Roma. Si temeva in particolare che Petrucci fosse vicino a un accordo con il duca di Urbino per estendere la guerra anche a Siena. Leone X inviò allora al cardinale un breve con il quale gli ordinava perentoriamente di rinunciare a ogni piano riguardante la sua città natale. A far recedere Petrucci dai suoi piani, tuttavia, non valsero nemmeno le offerte di risarcimento economico che nel mese di aprile Leone X gli fece pervenire tramite i cardinali Marco Corner e Bandinello Sauli.
Dinanzi a tale insubordinazione, nel Concistoro del 20 aprile, il pontefice paventò la possibilità di procedere contro Petrucci per via giudiziaria. Al fine di raccogliere prove per l’istruttoria di un possibile processo, intorno alla metà di aprile furono disposti gli arresti di alcuni familiari di Petrucci rimasti a Roma: il canonico Marco Antonio Nini, suo maestro di casa, il giurista Scipione Petrucci, suo cugino, il chierico toletano Lorenzo Suares, incaricato d’affari del cardinale, e il palafreniere papale Niccolò da Romena. I processi ai primi tre, avviati il 16 aprile, vennero condotti da un tribunale speciale composto da due giudici, l’uditore criminale del governatore di Roma, Giangiacopo Gamborana, e il vicecastellano di Castel S. Angelo, Domenico Coletta, vicino a Raffaele Petrucci e notoriamente ostile al cugino di questi, Alfonso. A essi, per particolare disposizione dello stesso Leone X, venne affiancato il procuratore fiscale Mario Peruschi. Dalle indagini emersero pesanti responsabilità del cardinal Petrucci, reo secondo l’accusa non solo di essersi accordato con gli spagnoli, con alcuni importanti concittadini (su tutti Giulio e Guido Bellanti), con Giovan Paolo e Orazio Baglioni, con i Colonna e con il duca di Urbino per rovesciare il regime filomediceo di Siena, ma addirittura di aver tentato nei mesi precedenti, quando Leone X era stato gravemente malato, di far avvelenare il pontefice dal medico Battista da Vercelli, che gli avrebbe dovuto curare una fistola. Della cospirazione sarebbero stati informati anche i cardinali Corner, Sauli, Francesco Soderini, Adriano Castellesi e Raffaele Riario, destinato nelle intenzioni dei complici a diventare presto papa al posto di Leone X. L’accusa, molto probabilmente infondata, venne sollevata sulla base di una deposizione estorta a Nini con la tortura. Essa fu tuttavia sufficiente a Leone X per procedere contro Petrucci, che però si trovava al riparo nei feudi colonnesi.
Per indurre il cardinale a rientrare a Roma, il pontefice mantenne segreti i risultati delle indagini e si spinse invece a proporre a Petrucci una convenzione in base alla quale, in cambio della fedeltà ai Medici e del versamento di 25.000 ducati, Alfonso e il fratello Fabio sarebbero stati reinsediati in Siena entro quindici giorni. L’accordo, redatto nella forma di atto notarile a Roma il 15 maggio 1517, alla presenza del pontefice e dei cardinali Corner e Sauli, intervenuti quali procuratori di Petrucci, venne da questi sottoscritto il giorno seguente a Genazzano. Provvisto da Leone X di salvacondotto, il 17 maggio Petrucci rientrò a Roma e si recò presso il palazzo apostolico, dove tuttavia prima di poter incontrare il pontefice venne sorprendentemente arrestato insieme a Sauli e rinchiuso in Castel S. Angelo con l’accusa di aver congiurato contro la vita del pontefice. Ai ceppi finirono anche due membri del seguito di Petrucci, il capitano Pochintesta de’ Pochintesti e Paolo Agostini. Dinanzi alle accuse dell’ambasciatore spagnolo e di altri di aver tradito l’intesa con Petrucci, Leone X si difese svelando la trama della presunta congiura ai propri danni, la cui gravità era tale da permettergli di procedere in deroga a ogni precedente accordo. Con motu proprio del 21 maggio, affidò inoltre agli stessi giudici che avevano istruito i precedenti processi l’incarico di occuparsi anche di quello dei cardinali arrestati. In un caotico susseguirsi di eventi, il 29 maggio pure Riario venne tradotto in prigione, mentre gli altri due sospettati, Castellesi e Soderini, riuscirono a fuggire da Roma.
Nel successivo tesissimo Concistoro del 22 giugno, Petrucci, Riario e Sauli si videro privati dei benefici ecclesiastici. Venne inoltre votata la decadenza dei loro titoli cardinalizi e la consegna dei rei al braccio secolare. Tre giorni dopo, il 25 giugno, si diede pubblica lettura agli ambasciatori stranieri delle confessioni dei tre porporati e degli atti riguardanti il loro processo. Lo stesso giorno, furono giustiziati il medico Battista da Vercelli e il servitore di Petrucci, Marco Antonio Nini. Medesima sorte aveva conosciuto Pochintesti il 16 giugno. Dei cardinali condannati, l’unico a non ottenere la grazia e a pagare dunque con la vita fu proprio Petrucci, l’avversario più irriducibile di papa Medici: il 4 luglio 1517, appena venticinquenne, venne infatti strangolato in gran segreto in Castel S. Angelo, concludendo la propria esistenza come vittima insigne di quella che passerà alla storia come la congiura dei cardinali contro Leone X, ma fu piuttosto un’abile macchinazione del pontefice per eliminare dei pericolosi rivali, rimpinguare le casse papali e preparare il terreno a un rinnovo del Concistoro favorevole agli interessi medicei.
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