LONGO, Alfonso
Nacque a Pescate, nelle vicinanze di Lecco, il 12 ott. 1738, dal marchese Antonio e da Caterina Ghislanzoni (fede di battesimo in Arch. di Stato di Milano, Autografi, 138, f. 9). Sebbene di antica nobiltà, la famiglia era in ristrettezze, come risulta anche da una richiesta (4 ag. 1755) di proroga di un indulto sulla celebrazione di messe concesso cinque anni prima ad "Alfonso Longo, chierico nobile milanese e possessore di una cappellania di suo patronato di rendita di scudi 52, per trovarsi la sua casa in stato miserabile". Fu questa la probabile ragione che spinse il L., benché unico figlio maschio, ad abbracciare la carriera ecclesiastica, via d'accesso all'istruzione superiore e all'ascesa sociale per giovani privi di risorse.
Nulla sappiamo degli studi, né è noto quando si trasferì a Milano; P. Verri lo dice recente acquisto dell'Accademia dei Pugni in una lettera a G.B. Biffi del 26 giugno 1763. Dell'estate 1763 è anche la prima prova letteraria nota, la descrizione di un viaggio nei baliaggi italiani dei Cantoni svizzeri compiuto in compagnia di Giacomo Lecchi; la curiosità per leggi, ordinamenti e costumi dei luoghi, l'alternanza tra toni ironici e sentimentali (come nei riferimenti all'"adorabile Verri" e al "carissimo Beccaria"), la passione umanitaria, laica e civile, evidente nella riprovazione del numero eccessivo di chiese nel Comasco o nelle espressioni di orrore di fronte a un episodio di tortura, riportano al nascente illuminismo milanese e apparentano la descrizione alle successive lettere romane.
Al Caffè, la rivista pubblicata da Verri e soci tra 1764 e 1766, il L. collaborò con due articoli nella prima annata. Il secondo, Dissertazione sugli orologi, è in gran parte uno sfoggio di erudizione storico-antiquaria; solo il finale, sulla opportunità di sostituire il computo francese delle ore del giorno a quello italiano, si allinea alla battaglia del periodico per il progresso scientifico e civile. Invece il primo, Osservazioni sui fedecommessi, tocca un punto nevralgico di un assetto sociale fondato sul privilegio e l'ereditarietà dei ranghi.
Posto che "l'unico scopo del legislatore vuol essere la felicità del pubblico" - anzi, secondo la formula di F. Hutcheson che era un po' lo slogan dell'Accademia dei Pugni, "la maggior felicità possibile […] distribuita colla maggior egualità possibile" -, ne veniva l'inammissibilità di fedecommessi, sostituzioni, primogeniture; non solo per la disuguaglianza che determinano tra i figli di uno stesso padre o per i pretesti offerti ai detentori di beni vincolati per sottrarsi alle richieste dei creditori, ma proprio per le ragioni che le raccomandavano agli occhi dei tradizionalisti e che Montesquieu adduceva nell'Esprit des lois, cioè in quanto strumenti per mantenere uniti i patrimoni delle famiglie nobili e perpetuarne il primato economico-sociale: "Ma qual mai si è lo scopo de' fedecommessi, delle primogeniture, de' maiorascati? Quello, dirammisi, di conservar ricca e illustre una famiglia […]. Ma poco importa alla pubblica felicità che tal famiglia conservisi eternamente ricca, anzi molto importa che le ricchezze […] circolino […] e siano il premio dell'industria d'un negoziante, più utile alla società di mille nobili sfaccendati" (Il Caffè, p. 119). A differenza di altri collaboratori del Caffè, inclusi i Verri, il L. condanna il principio stesso di una nobiltà ereditaria: "adunque non pare indispensabile che vi sia uno stato di persone distinto dal popolo […]. Il solo merito dovrebbe […] elevare gli uomini all'amministrazione della giustizia ed alle cariche […]. Ma dato ancora che sia necessario ammettere una classe di persone distinte con privilegi […], che formino una specie di scala dalla plebe al sovrano, non vedo […] come convenga rendere ereditario il diritto di tali persone a certe prerogative […]. Non basterebbe […] un dato numero di nobili, in maniera che la nobiltà potessesi e perdere coll'ozio ed acquistarsi colla virtù?" (ibid., p. 124). E addirittura mette in discussione la facoltà di disporre delle proprie sostanze dopo la morte, e con essa la naturalità del diritto di proprietà: "Grozio […] ed altri s'ingannarono quando asserirono essere di diritto naturale la podestà di fare testamento; poiché non può esservi testamento dove non v'è proprietà, e 'l diritto di proprietà […] è derivato non già dalla legge naturale, ma sì bene dal gius delle genti. Direi che può sussistere una società civile senza diritto di proprietà; che, ammesso ancora il diritto di proprietà, non ne deriva che chi […] ha posseduto vivendo possa comandare dopo che ha cessato di essere […]. Direi con Bynkershoek che la terra è destinata all'uso degli uomini di tutt'i secoli e che ciascuna delle generazioni che si succedono […] deve avere libero il godimento de' suoi beni" (ibid., p. 130).
Di pari interesse è un altro saggio di tono satirico, Del diritto naturale dei cani, non pubblicato nel Caffè perché troppo ardito. Come ha scritto G. Francioni che lo ha rinvenuto, "un attacco così esplicito alle teorie del diritto naturale e ai più diffusi topoi del pensiero gius-politico […] non si ritrova in nessuno degli articoli apparsi sul Caffè" (ibid., p. CXXXIX). Oltre l'aperta irrisione delle gerarchie sociali e delle forme giuridiche che mascherano il primato della forza, la radicalità del saggio consiste anche nello sfondo edonistico e materialistico di alcune delle norme deliberate dall'"assemblea cagnesca". Era facile estendere al di là del regno animale prescrizioni come queste: "La buona costituzione che dalla natura dovevasi alla nobiltà cagnesca, il moto che noi faciamo e l'ignoranza dell'arte medica ci rende bensì forti e sani per tutta la nostra vita; ma non impedisce che la macchina nostra al fine si sciolga e la materia […] compaia sotto diverse forme ed aspetti. Ma sicome nulla ha questa trasmutazione di doloroso o funesto, né devesi la presente felicità disturbare con un irragionevole timore, però s'ammoniscono i cani a non pensare alla morte né amareggiare gli ultimi momenti della vita d'altri cani con […] stolide consolazioni e noiosi discorsi, ma di lasciarli soli in una profonda quiete" (Il Caffè, p. 835).
Il L. stesso, nelle lettere da Roma, accosterà il proprio pessimismo antropologico alla vena amara di taluni contributi al Caffè di Alessandro Verri, contrapponendolo all'atteggiamento più ottimistico di P. Verri e di C. Beccaria. A Roma egli soggiornò dall'ottobre 1765 al luglio 1767, nella vana ricerca di un beneficio o incarico. Le ventitré lunghe missive in francese agli amici milanesi sono un vivacissimo reportage su una società ecclesiastica e laica al tempo stesso corrotta ("le bordel du genre humain", esclamava il 2 ag. 1766: Ed. naz.… di C. Beccaria, IV, p. 362) e dominata da pregiudizi e da un gretto conservatorismo. Esempio dell'ironica compunzione del L. è un commento sulla moltitudine di chiese e conventi a Roma: "Il est vrai que la campagne est deserte, que sa sterilité rend l'air en été très malsain, qu'on manque absolument de cultivateurs, de marchands etc.; mais il est bien plus prudent de peupler le ciel que ce grain de sable où nous sommes autant de passagers" (ibid., p. 137). Tanti gli accenni alla debolezza della carne: "les Romaines sont plus chastes de corps qu'on ne le pense, quoiqu'il n'y doive avoir point de femmes au monde, hors les victimes de la jalouse brutalité d'un sultain, qui aient des desirs si vifs. Mais par bonheur les sentimens de religion, dont l'impression se repete si souvent, les empechent de réaliser ce qu'elles ne peuvent pas s'empecher de souhaiter" (ibid., p. 247).
Lo spettacolo della città eterna non diminuì certo lo scetticismo del L. sulla natura umana e sul progresso, né smentì la sua convinzione che "manger et f[outre] sont les plus grands plaisirs de la vie" (ibid., p. 231) e che "en général les hommes sont toujours méchants; il faut bien des raisons pour faire une exception à cette règle-là!" (ibid., p. 390). Non lo entusiasmò neppure la notizia della creazione a Milano di un Supremo Consiglio di economia con presidente G.R. Carli e consigliere P. Verri: "Les choses continueront d'aller leur train ordinaire […]. Après que ces deux amis se seront convaincus de l'inutilité de leurs tentatives, ils se tairons et sauront tirer le meilleur parti possible, qui à mon avis serait de vivre en paix sans s'inquiéter de ce qui arrive" (ibid., pp. 179 s.).
A questo programma mostrò di volersi attenere tornato a Milano, e al suo atteggiamento spregiudicato e alla ricerca del tornaconto personale sono legati i giudizi dubitativi o sfavorevoli che si leggono nel carteggio tra i due Verri. Alessandro, che per qualche tempo convisse a Roma con il L., lo giudicava nel giugno 1767 "buono e sensibile uomo […] ma alquanto pazzo ed avaro", incline a farla da maestro e poco rispettoso dell'amor proprio altrui (Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, I, 1, pp. 390-392); più avanti rincarava la dose: "Il fondo non è cattivo, ma v'è della inquietudine, della vanità, del falso spirito, della bassezza e perfino è italiano e semi-gesuita" (ibid., I, 2, p. 232). Pietro, risentito per l'equidistanza del L. nell'inimicizia insorta tra lui e Beccaria, ne parlava al fratello in questi termini: "Longo agli occhi miei è diventato peggiore in Roma. Egli ha perduto quasi il gusto della lettura, è concentratissimo in se stesso e m'accorgo che si muove sempre di bricolla, vorrebbe l'opinione di cento inutili, insomma non vale più un fico" (lettera del 23 marzo 1768, ibid., p. 217). A Milano il L. era riuscito a ottenere un canonicato nella collegiata di S. Stefano, che comportava obblighi liturgici a lui poco congeniali; lo cedette quindi presto a un fratello di P. Frisi in cambio di una modesta pensione, a cui poi aggiunse una prebenda nella chiesa cattedrale di Monza, una pensione sulle rendite dell'abbazia di S. Dionigi e una più sostanziosa su quelle dell'abbazia di Chiaravalle. Il tempo libero dalle funzioni religiose lo trascorreva in casa di una giovane zia dei Verri, già ninfa egeria dell'Accademia dei Pugni, Antonia Barbiano di Belgioioso, detta la Somaglia perché moglie di Antonio Dati della Somaglia. "Egli va oscillando tra il coro e lei e le lettere sono dimenticate", commentava P. Verri il 6 ag. 1768 (ibid., p. 377).
La carriera pubblica del L., come quella di Beccaria, iniziò con una cattedra alle Scuole Palatine, l'antico complemento milanese dell'Università di Pavia per la preparazione alle professioni e al funzionariato. Nominato nell'ottobre 1769 professore di diritto pubblico ed ecclesiastico, il 18 dicembre lesse una prolusione latina che, stampata, destò scalpore per l'acceso tono regalista e anticurialista; la corte viennese, conciliante verso il nuovo papa Clemente XIV, pretese una rettifica, che egli fece due mesi dopo in una seconda edizione, fortemente edulcorata. La ritrattazione gli procurò lettere di plauso del principe W.A. von Kaunitz e di J. Sperges, ma anche il sarcasmo dei Verri: "A Longo della verità non gliene importa nulla; egli vuol quattrini; e mi sembra un musico pagato per cantare" (Alessandro a Pietro, 28 febbr. 1770, in Carteggio…, III, p. 203).
Nel febbraio 1773 il L. passò alla più remunerata (3000 lire annue) cattedra di economia pubblica, lasciata da Beccaria. Il suo corso nel 1773-74 ebbe solo otto allievi, scesi a cinque nel 1775 e a tre qualche anno dopo malgrado il suo impegno, attestato da una lunga lettera al conte C.G. di Firmian (2 febbr. 1775) sulla scelta di un libro di testo; è però erronea l'attribuzione al L. da parte di Vianello delle Istituzioni economico-politiche, conservate in un manoscritto della Biblioteca Ambrosiana, che B. Bechini ha provato far parte di un corso di economia di A. Paradisi nell'Università di Modena. La sua visione dell'economia e della società fu comunque largamente influenzata dalla fisiocrazia; lo mostrano la corrispondenza (dal 1775) con Victor de Riqueti marchese di Mirabeau e la pubblicazione per sua cura a Milano, nel 1780, di un'operetta del nobile francese, Les devoirs. Tra le note del L. al testo, la più lunga e importante riprende l'attacco giovanile contro la nobiltà ereditaria, i fedecommessi e i maggiorascati, ma con una nuova enfasi sui proprietari terrieri come naturali collaboratori dei sovrani.
Nel 1773 il L. fu profondamente colpito dalla morte della Somaglia, sua amante, vittima di un morbo luetico che aveva contagiato anche lui: "Longo fa pietà; è freddo al di fuori, al suo solito, ma è uno scheletro", annotava P. Verri il 13 novembre (Carteggio…, VI, p. 137). Sul piano della collaborazione con il governo, in compenso, le sue fortune erano decisamente in ascesa. Dal 17 nov. 1772 fu regio censore per le materie teologiche e per le stampe forestiere, prima a titolo gratuito, ma dal 1776 con un indennizzo di 200 lire annue. Un soggiorno a Vienna tra il luglio e il novembre 1774 gli fruttò l'amicizia e la stima del Kaunitz e il titolo di sovrintendente alle scuole minori e ai collegi, con uno stipendio di 1800 lire annue, che aggiunse agli altri emolumenti. Tra queste entrate e quelle private (valutate a 2200 lire annue), il L. godeva ormai di una certa agiatezza: "Da povero uomo, si è reso ormai comodo colla sua carrozza" commentava il solito P. Verri (27 nov. 1776, ibid., VIII, p. 210). La contropartita era un crescente impegno nel pubblico servizio. Membro della Società patriottica istituita nel 1776, nel 1782 divenne primo bibliotecario della Braidense; lo stipendio di 3000 lire annue (poi 5000) sostituì quello di docente, cessato con l'abolizione della cattedra di pubblica economia.
Negli anni seguenti il L. curò il completamento dei cataloghi, l'acquisto di parte della biblioteca del conte Firmian, l'apertura al pubblico della Biblioteca (novembre 1786). Anche lo sviluppo dell'istruzione primaria lo vide sempre più impegnato, a fianco del maggiore responsabile del settore, G. Bovara: il 29 apr. 1780 fu incaricato di presiedere una commissione incaricata di esaminare i maestri elementari; il 6 luglio firmò un'ampia relazione sui risultati dei lavori, basata sull'assunto che "l'istruzione de' sudditi […] è il primo e più stretto dovere del Sovrano" (Arch. di Stato di Milano, Studi, parte antica, 293). Dal maggio 1786 fece parte con P.F. Secco Comneno e F. Soave della delegazione governativa per l'istituzione delle Scuole normali volute da Giuseppe II, e il 19 luglio successivo presentò un piano per la loro distribuzione a Milano e nei sobborghi.
Ma fu indubbiamente la revisione delle stampe a rappresentare l'impegno più assiduo, almeno dal 1787, quando assunse la carica di primo censore in occasione del varo di un nuovo piano di censura, più liberale di quello vigente dal 1768 e rispondente all'ostilità da tempo manifestata dal L. a ogni intervento arbitrario e alla sua volontà di "non introdurre il più detestabile dispotismo, il dispotismo letterario, che non amerei né di esercitare né di soffrire" (relazione del 13 luglio 1778, in Arch. di Stato di Milano, Studi, parte antica, 32). Se in un primo tempo vigilò soprattutto contro gli scritti filocuriali e i libercoli atti a fomentare la superstizione popolare, come almanacchi e lunari, lo scoppio della Rivoluzione francese sparse ben presto l'allarme tra i governi italiani, inducendoli a rafforzare i controlli sulla circolazione delle notizie e delle opinioni. Il giudizio del L. sugli avvenimenti parigini fu inizialmente positivo, come risulta da un episodio riferito il 24 apr. 1790 da P. Bellati ad A. Greppi: "L'abate Longo ebbe un vivo alterco in casa Litta con Wilczeck [il plenipotenziario austriaco J.J. Wilzeck], il quale lo provocava a parlare delle cose di Francia e ne criticava il sentimento, favorevole sempre alle operazioni dell'Assemblea. Non avendo Wilzeck buone ragioni da opporre, disse che per trattare simili materie non bastava l'esser bibliotecario ma che conveniva esser ministro politico. Replicò francamente il Longo che fra il ministro e il bibliotecario non riconosceva altra differenza se non che il bibliotecario leggeva tutto e niente il ministro" (cit. da Vianello, 1935, p. 32).
Solo con prudenza tali inclinazioni del L. potevano riflettersi nel lavoro di censore. Tuttavia in una relazione del 30 luglio 1790 sui circa trenta periodici stranieri introdotti a Milano, egli propose di escludere le sole Révolutions de Paris e di ammettere gli altri o perché letti da pochi, o perché abbastanza obiettivi quanto ai fatti (il governo ne proibì invece sei: Arch. di Stato di Milano, Studi, parte antica, 33); a fine 1791 interrogò i superiori sull'opportunità di ammettere una ristampa della costituzione approvata dall'Assemblea nazionale e si dichiarò favorevole a un'oculata sorveglianza, ma non al rigore, che "non serve che ad aizzare la curiosità" (ibid.). Il rovesciamento della monarchia, il processo e l'esecuzione di Luigi XVI e l'instaurazione del Terrore spinsero poi anche lui, come tanti altri in Italia, verso una condanna globale della Rivoluzione, ma egli mantenne fermi la riprovazione della guerra, che rischiava di propagare il morbo invece di isolarlo, e il rimpianto per la perdita delle libertà che erano una conquista dei Lumi: "Non mi imbarazzo se i francesi sono matti", scriveva ad A. Greppi il 23 marzo 1793. "Ma non ho mai saputo decidere se siano più pazzi gli abitatori della Francia o gli Emigrati. Intanto la Francia ci ha fatto grandissimo male […]. Noi lombardi godevamo d'una ragionevole libertà di agire, di leggere, di scrivere, di parlare. Noi potevamo mettere in ridicolo la superstizione […]. Ora ci si è stabilmente diminuita l'onesta libertà che avevamo […]. Siamo retroceduti di alcuni secoli e non vedo come possa presto ritornare il regno della tranquilla ragione quale presso a poco abbiamo goduto fino a questi ultimi anni" (Arch. di Stato di Milano, Dono Greppi, 201).
Come P. Verri (cui si era riavvicinato) e L. Lambertenghi, il L. collaborò con i governi instaurati dai Francesi. Tra novembre 1796 e giugno 1797 fece parte della commissione giudicatrice delle dissertazioni presentate al concorso sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia"; firmò, con il Lambertenghi, la costituzione promulgata l'8 luglio 1797 dal Bonaparte, che il giorno seguente lo incluse nel Comitato di costituzione, uno dei quattro provvisori istituiti in attesa della nomina dei Consigli legislativi. Nel novembre fu compreso tra i deputati del Dipartimento dell'Olona nel Consiglio degli Juniori; partecipò ai dibattiti con alcuni interventi, diretti per esempio a difendere la libertà di commercio, a contrastare la proposta di abolire i dazi di consumo nelle città, ad auspicare la redazione di catechismi civici per il popolo, a perorare la causa del profugo M. Pagano. Nel 1798-99 fu nella commissione giudicatrice di un concorso sulla "organizzazione dei teatri nazionali". Precocemente invecchiato, fece parte ancora della Consulta di 50 membri preposta alla seconda Cisalpina nel giugno 1800; fu prescelto per i comizi di Lione dell'inverno 1801-02, dove però non andò per motivi di salute, e nominato membro del Collegio elettorale dei dotti e dell'Istituto nazionale della Repubblica italiana.
Il L. morì a Milano il 6 genn. 1804, lasciando erede Antonio M. Dati della Somaglia, figlio di Antonio e di Antonia Barbiano: "non fu gradito dal pubblico questo testamento democratico, perché pretende che avesse dei parenti assai poveri" commentò il diarista L. Mantovani.
I due articoli pubblicati nel Caffè si trovano in Il Caffè, 1764-1766, a cura di G. Francioni - S. Romagnoli, Torino 1993, pp. 115-132, 355-388 (alle pp. 824-836 vi è lo scritto Del diritto naturale dei cani). Dopo questi due articoli il L. pubblicò solo la prolusione al corso di diritto ecclesiastico (in due versioni: Prolusio ab Alphonso… Longo canonico teologo basilicae Sancti Stephani juris publici ecclesiastici in Palatinis Mediolanensibus Scholis recitata anno MDCCLXIX, Mediolani 1769; Prolusio ecc., Editio altera, ibid. 1770) e l'edizione annotata di Les devoirs del Mirabeau, ibid. 1780.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Acquisti Riva Finolo, 40, vol. 115 (notizie sulla famiglia e sul titolo marchionale); Capitoli e Cappellanie, cart. III, f. 1 (la supplica del 1755 richiamata nel testo); Culto, parte antica, cartt. 24, 184, 1153, 1183 (sui benefici e le pensioni ecclesiastiche del L.); Studi, parte antica, cartt. 296s. (per le due cattedre coperte alle Scuole Palatine; in generale questo fondo per gli studi del L.); 42, 210-212, 245, 284s., 293 (per la collaborazione alle riforme scolastiche); 19, 25-28, 270 (per l'attività come bibliotecario); 32-36, 120-122 (per la censura); 17 e Spettacoli, parte antica, cart. 14 (sulla presenza nelle commissioni giudicatrici repubblicane); Dono Greppi (epistolario con A. Greppi degli anni '80 e '90); Ibid., Arch. stor. civico, Archivio Visconti di Saliceto, cart. 32, f. 1u (tre lettere del 1771-72 a G. Visconti); Ibid., Fondazione R. Mattioli per la storia del pensiero economico, Arch. Verri, cartt. 281 (parte inedita del carteggio tra i Verri con notizie sul L.), 273 (lettere di L. Lambertenghi a P. Verri sul soggiorno a Vienna nel 1784); Lecco, Arch. Plebano, Registro di battesimo 1691-1745, p. 216 (per la data di nascita); Vienna, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Lombardei Korrespondenz, f. 284 (corrispondenza con la corte viennese); Aix-en-Provence, Musée Louis Arbaud, Correspondance du marquis de Mirabeau, regg. 19-22 (lettere di Mirabeau al L.); Carteggio di Pietro e Alessandro Verri dal 1766 al 1797, a cura di E. Greppi et al., I-XII, Milano 1910-43; G. Sommi Picenardi, Lettere inedite di Pietro Verri, in Rassegna nazionale, 1° giugno 1912, p. 313 (per l'accenno di Verri all'ingresso del L. nell'Accademia dei Pugni); Assemblee della Repubblica Cisalpina, a cura di C. Montalcini et al., I-XI, Bologna 1917-48, ad ind. (per gli interventi nelle sedute del Consiglio degli Juniori); U. Da Como, I Comizi nazionali in Lione per la costituzione della Repubblica italiana, I-III, Bologna 1934-40, cfr. Indice, III, 2 (per le cariche tenute nel periodo repubblicano); Viaggio a Parigi e a Londra (1766-1767). Carteggio di P. e A. Verri, a cura di G. Gaspari, Milano 1980; L. Mantovani, Diario politico ecclesiastico, a cura di P. Zanoli, II, Roma 1987, p. 241; Edizione nazionale delle opere di C. Beccaria, IV, Carteggio, I, 1758-1768, a cura di C. Capra - R. Pasta - F. Pino Pongolini, Milano 1994, p. 362; C. Capra - F. Mena, Un viaggio nei baliaggi italiani nell'"insipida descrizione" di A. L. (1763), in Arch. stor. ticinese, XXXVI (1999), 126, pp. 139-156 (la descrizione del viaggio in Svizzera); L. Ferrari, Del "Caffè", periodico milanese del secolo XVIII, Pisa 1899, ad nomen; C.A. Vianello, La giovinezza di Parini, Verri e Beccaria, Milano 1933, pp. 314-316; Id., Pagine di vita settecentesca, Milano 1935, pp. 32-35; Id., L'abate L. successore del Beccaria nella cattedra di economia pubblica, in Arch. stor. lombardo, LXIII (1937), pp. 513-527; E. Chinea, La riforma scolastica teresio-giuseppina nello Stato di Milano e le prime scuole elementari italiane, Milano 1939, pp. 32-34, 42-44, 48; C.A. Vianello, Economisti minori del Settecento lombardo, Milano 1942, pp. XCI-XCIV (dove però erra l'attribuzione al L. delle lezioni di economia pubblicate nello stesso volume, pp. 292 ss.); F. Venturi, Illuministi italiani, III, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, Milano-Napoli 1958, pp. 215-222 (riporta l'errore che era in Vianello, Economisti minori); A. Vicinelli, Il Parini e Brera…, Milano 1963, pp. 217-219 (sul L. bibliotecario e censore); Alle origini del Risorgimento: i testi di un "celebre" concorso, a cura di A. Saitta, I, Roma 1964, pp. XXVIII-XXXII; B. Bechini, A. L.: scuole, biblioteche e censura nella Lombardia del Settecento, tesi di laurea, Università di Milano, a.a. 1967-68; M.L. Turchetti, Brevi note sul Fondo "Pertusati" della Braidense, in Accademie e biblioteche d'Italia, n.s., XXX (1979), pp. 370-386; S. Caldirola, Il lecchese A. L. riformatore lombardo, in Archivi di Lecco, III (1980), 4, pp. 312-340; F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi (1764-1790), 1, Torino 1987, ad ind.; Le cattedre di economia pubblica in Italia. La diffusione di una disciplina "sospetta" (1750-1900), a cura di M.M. Augello et al., Milano 1988, pp. 57-61; S. Romagnoli, Il portafoglio ovvero i cani del "Caffè", in Studi di teoria e storia letteraria: in onore di Pieter de Meijer, a cura di D. Aristodemo - C. Maeder - R. de Rooy, Firenze 1996, pp. 177-185; C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna 2002, ad ind.; M. Piseri, I Lumi e l'"onesto cittadino". Scuola e istruzione popolare nella Lombardia teresiana, Brescia 2004, ad indicem.