LITTA, Alfonso
Nacque a Milano il 29 sett. 1608, secondogenito del marchese Pompeo (I) e di Lucia Cusani.
Il ramo principale della famiglia aveva accumulato nella prima metà del XVI secolo una fortuna considerevole grazie alla mercatura. Il nonno paterno del L., Agostino, fu ascritto alla nobiltà acquisendo, nel 1573, i feudi di Gambolò, presto trasformato in marchesato, e di Valle (rispettivamente nel comitato di Vigevano e nella provincia di Lomellina). Il matrimonio di Pompeo con Lucia, figlia del marchese Guido Cusani, garantì il legame con una famiglia patrizia e una dote di 50.000 scudi. Alla morte di Pompeo, nel 1609, la madre del L. restò tutrice dei figli ed ebbe il controllo del patrimonio, già destinato al primogenito Agostino (II).
Il L. fu avviato alla carriera prelatizia, in cui si era distinto lo zio della madre, il cardinale Agostino Cusani. Nel 1622 la madre passò a nuove nozze con Antonio Ferrer, gran cancelliere di Milano, e nel contempo concordò per Agostino il matrimonio con Maria, la figlia che Ferrer aveva avuto da una precedente unione.
Inviato in Spagna dal governatore, Gómez Suárez de Figueroa duca di Feria, Ferrer volle portare con sé Agostino e il L., che ebbero così l'opportunità di soggiornare alla corte di Filippo IV; il viaggio fruttò al L. una rettoria nazionale all'Università di Salamanca. Dopo il rientro in patria, si addottorò a Bologna nel 1628 e fu aggregato al Collegio dei nobili giureconsulti, non senza qualche opposizione a causa delle attività mercantili e finanziarie della famiglia.
Ricevuti gli ordini minori dal cardinale Federico Borromeo, il L. si trasferì a Roma, dove nel 1630 ebbe da Urbano VIII l'ufficio di referendario delle due Segnature e in seguito alcuni benefici, tra i quali la commenda dell'abbazia di S. Giulio di Dulzago, nel Novarese. Gli furono affidati i governi di Rimini (1633), Orvieto (1637), Spoleto e Camerino (1639); nel 1643 fu vicelegato a Bologna, al seguito del cardinale Antonio Barberini. Nel 1644 Innocenzo X gli conferì il grado di commissario generale dell'Esercito pontificio, con il compito di smobilitare le milizie in seguito alla pace stipulata con la Lega dei principi. Nominato quindi al governo di Ascoli nel 1645, il L. vi soffocò un tumulto e subito dopo passò a reggere la provincia di Campagna e Marittima. Pare avesse corso pericolo di morire avvelenato dai Francesi nel 1647, al tempo della rivolta di Masaniello (Tommaso Aniello d'Amalfi), per avere svelato al governatore di Milano le trame antispagnole ordite dai Barberini e da G. Mazzarino. Si procurò in tal modo la piena fiducia di Madrid, ma anche l'inimicizia della "fazione barberina" e di Decio Azzolini, destinato a diventare uno dei più influenti porporati di Curia. Inviato al governo della Marca d'Ancona nel 1648, il L. si adoperò per soccorrere le popolazioni colpite da un contagio. Qui lo raggiunse, nell'agosto del 1650, la notizia della morte dell'arcivescovo di Milano, il cardinale Cesare Monti.
La candidatura del L. alla cattedra ambrosiana ebbe il favore della corte spagnola: egli aveva dato prove di fedeltà alla Corona e non pareva in grado di suscitare preoccupazioni sul versante giurisdizionale; la sua carriera romana era defilata, debole il suo rapporto con i cardinali più potenti in Curia: alla sua sede sarebbe giunto infatti senza aver conseguito la porpora. Il 24 giugno 1652 fu consacrato vescovo; nel mese successivo la corte concesse il placet, a cui fece seguito il rilascio dei frutti della mensa arcivescovile, tenuti sotto sequestro durante la sede vacante.
L'entrata solenne in Milano, il 17 nov. 1652, coincise con il primo contrasto, per questioni cerimoniali, con il governatore, Luis de Benavides marchese di Caracena, che nel mese precedente, con la presa di Casale, aveva raggiunto l'apice dei suoi successi militari. Nelle lettere inviate al segretario di Stato, Fabio Chigi (il futuro Alessandro VII), il L. descrisse minuziosamente le "offese" ricevute nelle scadenze pubbliche e liturgiche, sottolineando il discredito che procuravano alla dignità arcivescovile. Soprattutto egli lamentava, in una lettera dell'11 marzo 1654, l'inadeguatezza della sua condizione di "arcivescovo non cardinale" a reggere una sede tanto importante (Arch. segreto Vaticano, Segreteria di Stato, Vescovi e prelati, 37, c. 78). Dopo la morte del fratello, inoltre, il passaggio del patrimonio familiare nelle sue mani lo faceva sentire vulnerabile ad azioni ostili dei ministri regi contro la sua Casa.
Lungi dal piegarsi alle imposizioni e alle minacce del governo, il L. si mostrò inflessibile nelle contese giurisdizionali: ai parroci e ai superiori dei regolari rammentò che avevano il compito di difendere l'immunità ecclesiastica "senza havere riguardo di spendere la propria vita et quella di sua casa" (Arch. di Stato di Venezia, Senato, Dispacci, Milano). Le vicende della guerra gli vennero in aiuto: quando le truppe guidate da Tommaso di Savoia, dopo avere varcato il Ticino, giunsero alle porte di Milano, il L. "fece anch'esso la sua milizia di preti e frati": novecento ecclesiastici, armati di spade, archibugi e pistole (Cremosano, p. 291). Appena scampato il pericolo, poté scrivere a Filippo IV, facendogli presente che non aveva esitato ad armare il clero, mentre l'esercito del governatore si mostrava incapace di difendere lo Stato; in cambio chiedeva solo il rispetto che gli era dovuto (20 luglio 1655). Il Consiglio di Stato dovette ringraziarlo e invitò Caracena a trattare l'arcivescovo con maggiore diplomazia.
L'atteggiamento del L. non poteva favorire le sue aspirazioni alla porpora: la corte spagnola non avrebbe mai sostenuto un prelato così puntiglioso e battagliero. Inoltre, a Roma i Barberini avevano recuperato influenza; proprio loro, insieme con altri cardinali, opprimevano la Chiesa ambrosiana, gravemente impoverita, con la pretesa delle pensioni ottenute da Urbano VIII. Se il cardinale Antonio reclamava quella stabilita a suo favore nel 1631, anche i lombardi Luigi Omodei e Giberto Borromeo vantavano crediti. Questi ultimi erano entrati a far parte dello "squadrone volante", la nuova fazione guidata da Decio Azzolini e Pietro Ottoboni che nel conclave del 1655 aveva portato alla tiara Fabio Chigi, papa Alessandro VII. Le famiglie dei concittadini porporati che si mostravano poco solidali con il L. erano congiunte da vincoli di parentela con l'uomo più influente di Milano, il conte Bartolomeo Arese, il quale governava le finanze dello Stato come presidente del Magistrato ordinario. Cosciente del suo isolamento, il L. lo attribuiva a una "machiavellistica politica" e dichiarava di consolarsi sapendo, come scriveva il 25 marzo 1654, "di haver alle mani il più bell'Arcivescovado della Christianità" (Arch. segreto Vaticano, Segreteria di Stato, Vescovi e prelati, 37, c. 86).
Con la pace dei Pirenei (1659) e la parziale smobilitazione dell'esercito, le devastazioni che avevano gravemente danneggiato anche i beni della mensa arcivescovile cessarono; non così i conflitti di giurisdizione. Già nel 1662 il L. dovette chiedere al cardinale Flavio Chigi un intervento contro le ritorsioni del governatore Luis de Guzmán Ponze de León ai danni dei parenti di ecclesiastici. La situazione era aggravata dall'atteggiamento di religiosi che non si piegavano all'ordinario, come i canonici della chiesa di S. Maria della Scala, che vantava il titolo di cappella reale. Le memorie del segretario della Cancelleria segreta, Carlo Francesco Gorani, offrono una viva testimonianza di questi episodi, accompagnati dai tentativi di mediazione di Carlo Maria Maggi (allora segretario del Senato) e di alcuni esponenti delle famiglie Trotti e Visconti, imparentati con il Litta.
Finalmente, il 15 febbr. 1666, giunse la sospirata promozione alla porpora. Alessandro VII pubblicò il L. cardinale dell'Ordine dei preti, con il titolo di S. Croce in Gerusalemme, due anni dopo la riserva in pectore del 14 genn. 1664. Persino il segretario Gorani considerò "esempio raro, e forse singolare" il fatto che solamente dopo 13 anni di governo episcopale la Curia romana si fosse "ricordata di lui" (Madrid, Bibl. nacional, Mss., 2671, c. 184).
Il L. non smentì la fama di intrepido difensore della Chiesa di cui ormai godeva. Nella visita ad limina, compiuta nel 1664, prospettò al pontefice delle riforme che miravano ad ampliare lo spazio di azione del governo episcopale in diversi ambiti: contratti su beni ecclesiastici, autorità sui regolari, pieno controllo delle confraternite allora sottoposte alla supervisione degli assistenti regi.
Nel 1667 il L. ricevette la berretta a Bologna, in S. Petronio, dalle mani del cardinale legato Carlo Carafa; quindi si recò a Roma per il conclave. Non mostrò di gradire l'elezione del filospagnolo Clemente IX Rospigliosi ed ebbe a dire che, tornando a Milano, sarebbe andato "incontro alla morte" (Gorani). Con il retaggio di pauperismo e di criminalità diffusa lasciato dalla lunga guerra, il problema politico più scottante nelle tensioni tra Chiesa e Stato era la questione dell'asilo nei luoghi sacri. Alle proteste del L. per le perquisizioni e gli arresti effettuati nelle chiese, il Senato rispose appellandosi agli ordini di Filippo IV e dei predecessori che imponevano di non accettare la bolla gregoriana. Il L. non esitò a minacciare la scomunica al capitano di giustizia e al governatore, su richiesta del quale il Senato decise il sequestro dei feudi dei Litta (14 nov. 1667).
Di fronte al moltiplicarsi dei conflitti giurisdizionali, soprattutto nello Stato di Milano e nel Regno di Napoli, Clemente IX nel 1668 nominò una congregazione speciale per valutare la possibilità di modificare la bolla di Gregorio XIV. Interpellato sulla situazione della Lombardia spagnola, il L. preparò una relazione dettagliata e dai toni accesi che elencava tutte le "offese" perpetrate dall'autorità politica in deroga alla Concordia stipulata nel 1615. Nel lamentare la condizione dei "poveri vescovi", lasciati senza adeguato sostegno da una S. Sede "applicata a più gravi affari", il L. aggiungeva polemicamente che l'atteggiamento dei sovrani contro i canoni e le bolle era dettato dalle "medesime cause" che spingevano lo stesso pontefice, "come Principe temporale […] a non osservare le sue leggi". Sulla difficile condizione degli ordinari nei decenni di riflusso della riforma tridentina egli dava così una testimonianza molto esplicita, basata sull'esperienza diretta (Arch. segreto Vaticano, Fondo Carpegna, 98, cc. 141-167).
Nonostante la congiuntura difficile, il L. aveva cercato in quegli anni di svolgere il suo compito ispirandosi all'esempio borromaico. Si impegnò per imporre la disciplina nelle chiese e bandire la mondanità dai monasteri femminili. Convocò due sinodi diocesani, nel 1658 e nel 1669, e tredici congregazioni dei vicari foranei dal 1653 al 1674; effettuò una visita pastorale, lungamente interrotta a causa dell'emergenza bellica e delle controversie giurisdizionali. Nel dicembre 1652 diede disposizioni in ottemperanza alla richiesta di Innocenzo X di abolire i "conventini".
In ambito liturgico il L. fu strenuo difensore del rito ambrosiano; promosse le nuove edizioni del Breviario e del Messale ambrosiani che videro la luce nel 1679. Riguardo alle devozioni, riconfermò le processioni alle stazioni quadragesimali, introdotte da s. Carlo. Si adoperò per il Collegio elvetico, di cui volle riformare le regole; ne fece completare la fabbrica e vi promosse l'attività dell'Accademia degli Hypheliomachi ("combattenti alla luce del sole"), che intendeva fornire la preparazione adeguata per le dispute e la predicazione nei Paesi riformati d'Oltralpe.
Nel duomo arricchì la cappella di S. Carlo con i cinque medaglioni in argento che ne narrano la vita e abbellì la cappella del Crocifisso. Nel 1675 inaugurò la Porta monumentale del seminario, sul corso di porta Orientale, disegnata da Francesco Maria Richini.
Il L. dimostrò particolare predilezione per l'Ordine cappuccino (volle come consiglieri a Milano due religiosi del convento di Macerata). Ebbe invece accesi scontri con i religiosi e le chiese che rivendicavano margini di autonomia nei confronti dell'autorità episcopale. Risultano condizionate da questi contrasti le misure prese dal L. contro la polifonia nei monasteri femminili, che si era diffusa nel corso del secolo e aveva goduto tolleranza sotto il predecessore.
L'emergenza bellica e le difficoltà del governo della diocesi, la crisi economica e i gravi problemi sociali aiutano a comprendere l'atteggiamento del L. nella vicenda dei pelagini. Gruppi di laici si erano fatti protagonisti nelle attività caritative, nell'assistenza ai malati, nella riforma dei costumi. Il sodalizio che faceva capo alla chiesa di S. Pelagia, sotto la guida del carismatico Giacomo Filippo Casolo e del gesuita Alberto Alberti, si volse a forme spirituali ispirate ai modelli di Filippo Neri e Teresa d'Avila. Il L. mostrò di apprezzare l'attività del gruppo, che godeva di un largo seguito tra nobili e ministri, milanesi e spagnoli; ma presto si accorse che Casolo sfuggiva al suo controllo. A Milano il carismatico aveva il sostegno del governatore marchese di Caracena e del conte Arese; fuori dallo Stato quello dei patrizi veneziani impegnati per ottenere il rientro dei gesuiti in patria; esponenti di spicco del clero bresciano gli avevano consentito di fondare in Valcamonica numerosi oratori pelagini. Quando questi ultimi furono denunciati dal nunzio Carlo Carafa al S. Uffizio, il L. ebbe ordine dalla congregazione di impedire al Casolo ogni contatto con i suoi seguaci veneti (12 febbr. 1656). Nel frattempo cercò di difendere la buona reputazione del gruppo milanese, ma gli avvenimenti precipitarono: il 3 giugno un editto del vescovo Pietro Ottoboni soppresse le conventicole nel Bresciano e nello stesso mese Casolo morì, forse per avvelenamento. In obbedienza a un ordine che gli giungeva dal cardinale Francesco Barberini, a nome del S. Uffizio, il L. dovette "sospendere" l'oratorio e indirizzare i confratelli ad "altre devozioni". Tuttavia, inaugurando nella chiesa del S. Sepolcro un nuovo oratorio, intitolato all'Angelo custode, diede loro modo di coltivare le antiche tendenze spirituali in chiave ortodossa. D'altra parte, per riguardo al rango dei personaggi coinvolti, il S. Uffizio cessò formalmente di occuparsi della questione, che fu accomodata dal segretario di Stato, il cardinale Flavio Chigi.
Ben più energico fu l'atteggiamento del L. nei confronti del nuovo gruppo di "apostoli" raccoltisi intorno al nobile milanese Francesco Giuseppe Borri, che si faceva chiamare il "Prochristus" e dichiarava di ispirarsi al Casolo, riproponendo l'orazione di quiete e la devozione agli angeli, insieme con motivi millenaristici e pauperistici. Borri aveva già iniziato le sue peregrinazioni nel continente, quando, il 2 genn. 1661, a Roma fu pronunciata la sentenza contro di lui e quindi la sua immagine fu arsa in Campo dei Fiori. Il L., che aveva dato il suo contributo a questa condanna, volle che anche Milano fosse teatro di una solenne cerimonia; per ottenere un gran concorso di popolo fece coincidere lo spettacolo dell'abiura dei sei seguaci di Borri con la festa dell'Annunciazione, il 25 marzo.
La parte conclusiva dell'episcopato del L. fu caratterizzata dalle lunghe assenze e dalla partecipazione a conclavi dove il gioco delle fazioni era condizionato dal declino della monarchia spagnola e dal rafforzamento della Francia di Luigi XIV. Durante il conclave del 1670, che il 29 aprile avrebbe portato all'elezione di Clemente X Altieri, si pensò che il L. potesse accordarsi con il partito francese. "Se toccasse a lui reggere il mondo" - ebbe a dire l'inviato sabaudo - "li Spagnoli sarebbero gli ultimi nella sua gratia" (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 12530, c. 113: Relatione della corte di Roma fatta dal signor marchese Bigliore di Lucerna). I buoni rapporti del L. con il pontefice non potevano garantire una serena convivenza con i ministri milanesi. Al suo ritorno (novembre 1671), lo scontro con il governatore Gaspare Téllez Girón duca di Osuna, per questioni di etichetta, rese inutile anche la mediazione del conte Arese, che teneva la presidenza del Senato. A questa congiuntura politica la tradizione fa risalire un'intesa tra il L. e Arese, volta a ottenere dalla corte l'allontanamento di Osuna.
Anche sul versante dei rapporti familiari rimanevano questioni irrisolte. Da tempo il L. era in contrasto con il nipote Pompeo per il controllo del patrimonio; nel 1661 aveva redatto un testamento per destinare tutti i beni al nipote cadetto, Alfonso "il giovane", escludendo il primogenito dalla successione. Con la divisione concordata nel 1673, al L. rimasero alcuni beni, tra cui quelli di Valle, nonché i redditi su undici porti dello Stato, mentre il palazzo milanese toccò a Pompeo, nelle mani del quale il patrimonio era destinato a ricomporsi integralmente: dopo la morte dello zio e quella di Alfonso, che non lasciava eredi, Pompeo avrebbe ripreso il controllo dei beni, in seguito alla nascita di un figlio maschio, Antonio (1699), dal suo matrimonio con Claudia Erba.
Il L. si recò ancora a Roma per il giubileo del 1675; prima di partire diede disposizione che la sua tomba fosse collocata in duomo, davanti all'altare del Crocifisso. Agli inizi di luglio comunicò la sua rinuncia al governo della Chiesa ambrosiana per motivi di salute. Per quanto fosse ormai vecchio e malato, le rappresentanze civiche pensarono che la sua scelta fosse imposta dalla corte spagnola e lo supplicarono di recedere dal proposito. Nella sua risposta, il 3 agosto, il L. accennò ai "travagli patiti"; lasciò intendere che il suo stato di salute offriva pretesto "ai Signori Grandi" che lo volevano "stabile a Roma"; assicurò infine che sarebbe presto tornato, dopo aver sbrigato "gravissimi affari". Ma nel luglio 1676 giunsero notizie che egli stava effettivamente trattando la rinuncia, mentre, sopraggiunta la morte di Clemente X, era chiamato a prendere parte al conclave che avrebbe elevato al soglio pontificio Benedetto Odescalchi, papa Innocenzo XI. Ai concittadini, che non cessavano di fare pressioni per il suo ritorno, chiese di non prestare orecchio a voci infondate, affermando di non avere mai chiesto di lasciare la cattedra ambrosiana. Circolò voce che il L. fosse papabile e che tenesse contatti segreti con la fazione francese (ibid., 12178, cc. 117-148), ma nello scrutinio finale ebbe un solo voto. Peggioravano, nel frattempo, le sue condizioni di salute.
Il L. morì a Roma il 28 ag. 1679 ed ebbe temporanea sepoltura nella chiesa di S. Carlo al Corso. In seguito, secondo le sue disposizioni, la salma fu trasportata a Milano e tumulata nel duomo.
I soggiorni a Roma avevano stimolato il gusto artistico e il mecenatismo del L.; dal suo testamento risulta possedesse una Maddalena di Guido Reni e una Madonna di Tiziano. Nel 1665 aveva cercato di intercedere presso il nunzio apostolico di Francia perché Gian Lorenzo Bernini, al suo ritorno, si fermasse a Milano per un consulto sulla sistemazione della facciata del duomo. Le immagini del L. lo raffigurano con la berretta di sbieco, baffetti e pizzo, secondo l'uso laico e la moda francese. Così compare nel ritratto del 1667, commissionato a uno dei più acclamati ritrattisti attivi a Roma, Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccia. Restano altri due ritratti, uno eseguito ancora dal Gaulli e uno più tardo (1675 circa) del pittore fiammingo Jacob Ferdinand Voet. Alla collezione dell'ospedale Maggiore di Milano appartiene un busto marmoreo di autore anonimo (forse Giuseppe Vismara) scolpito in occasione del cardinalato.
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