DE GENNARO (De Jennaro, Januarius), Alfonso
Figlio del più noto Pietro Iacopo, dal quale ereditò la passione per le lettere, e di Lucrezia Scarcia, entrambi nobili del seggio di Porto, nacque a Napoli nella seconda metà del sec. XV, intorno agli anni Settanta, essendo morto "non molto vecchio" all'inizio del terzo decennio del secolo successivo.
Tutte le notizie biografiche su di lui provengono dalla Historia di G. C. Capaccio. Fu tesoriere di due province e commissario per i donativi in Principato Ultra, come attestava un documento del 1501, attualmente perduto, della Cancelleria di Federico d'Aragona. Poiché il D. non esercitava di persona i suddetti uffici ma per mezzo di ministri, fu ripetutamente ammonito dalla Regia Camera. Per questo motivo durante l'assedio di Napoli del 1528 "Giovanni d'Urbino" [Giovanni di Urbich!] prelevò per conto della corte dall'abitazione del D., "nella Piazza di Fontanula dirimpetto il Monasterio di San Geronimo", più di 20.000 ducati "fra oro et argento, gioie et medaglie". Sposò Lucrezia Piscitelli del seggio di Capuana e da lei ebbe cinque figli: Antira, accasata dai fratelli con Fabio Cicinelli, cavaliere del seggio della Montagna; Claudia, andata in moglie al barone di Cardito Giacomo D'Alessandro; Emilio, cavaliere, poeta, "curioso dell'historie et antichità"; Roberto "quasi stolido"; Cesare, valente uomo d'armi al servizio di Carlo V e di Filippo II, che lo nomino poi viceré delle province di Terra d'Otranto e di Bari. Questo secondo l'Historia. Il De Lellis aggiunge che il D. ebbe una sorella di nome Maria e fu "signore di Musciano e Turano in Apruzzo". Dalla lettura dei suoi versi risulta, inoltre, che ebbe anche un figlio di nome Sicinio, morto di peste nel 1527, e che il primogenito Emilio subì il carcere, perché - è da presumere - filofrancese: un Emilio De Gennaro viene infatti ricordato dal Santoro tra coloro che, condannati dagli Spagnoli alla confisca dei beni, ne rientrarono in seguito in possesso pagando una forte multa.
Ancora vivo nell'aprile del 1530, quando scrisse un epigramma per la morte del Sannazzaro, il D. morì prima del 1533 in cui vide la luce a Napoli, presso Giovanni Sultzbach, "studio et sumptu Aemilii Januarii filii" la prima edizione a stampa del Carmen sacrum, l'unica sua opera a noi pervenuta. Tale cronologia resta confermata anche se si identifica il D. con l'Alfonso de Jenaro, che compare citato in un documento inviato da Napoli a Carlo V il 9 ott. 1532 (cfr. Cortese).
Vera rarità, l'edizione a stampa del Carmen sacrum è opera a noi accessibile solo nell'esemplare conservato presso la Biblioteca Angelica di Roma, segnato q. 4. 8 (cfr. G. Bresciano, Spigolature di storia tipografica napoletana del Cinquecento, in Accad. e bibliot. d'Italia, VI [1932-33], p. 21; M. Sander, Le livre à figures italien depuis 1467 jusqu'à 1530, II, Milan 1942, p. 618; P. Manzi, Annali di Giovanni Sultzbach, Firenze 1970, p. 49). Di un altro esemplare, il n. 126 del Catalogo della Biblioteca del fu signor G. Morici di Fermo (Roma 1912, p. 43), venduto all'asta presso l'antiquario Dario G. Rossi di Roma, si sono perdute le tracce.
L'opera si compone di 625 epigrammi, in gran parte di contenuto sacro, dedicati a Cristo, alla Vergine, ai santi, cui se ne alternano altri, simili per contenuto e intonazione, indirizzati agli amici, personaggi più o meno noti della politica e della cultura napoletana di quegli anni. Non sembrano seguire nella loro disposizione alcun ordine tematico o cronologico e, ad eccezione di pochi, sono difficilmente databili. Nel complesso appartengono all'ultimo periodo della vita del D., al decennio 1520-30, e rappresentano il frutto poetico di una maturità composta "in coelestium rerum iucundissima contemplatione" e ispirata "divino quodam numine" (dalla dedica a Clemente VII, c. lv). La raccolta si apre con una sorta di egloga De die festo divi Ianuarii, in cui un "peregrinus" interroga un "civis" sui festeggiamenti in onore di s. Gennaro, e si chiude con una preghiera Ad divum Ianuarium perché liberi Napoli dalla peste.
Dopo lunghi anni dissipati a cantare Apollo, Amadriadi, Driadi e Napee, a dilettarsi di carmi vuoti e vani non graditi a Dio, il poeta, pentito, è passato ad argomenti più gravi, più edificanti: d'ora in poi i suoi ispiratori saranno soltanto Cristo, Maria, i santi. È, la sua, una svolta poetica, che adotta gli schemi di un classicismo ripetitivo e stereotipato per dar voce nel confortante rifugio delle verità della fede cristiana (che inevitabilmente si vena di abusati motivi tibulliani, oraziani e senechiani) alla condanna, o piuttosto alla rimozione del presente, drammatico e precario (dirà nell'epigr. Ad Musettam, c. 65r: "His ego temporibus, Musetta, incognitus esse / et cuperem soli cognitus esse Deo"). Ne resta come sottofondo soltanto l'incubo della peste, l'orrore della guerra. I particolari contano poco, essendo ogni cosa strumento della volontà di Dio. Anche lo scontro tra Francia e Impero: "Gallia non bella haec, non haec Germania mittit. / Quae mittit merito haec iustitia ipsa Dei est" (Ad Musettam, c. 31v). Il Carmen si rivela un tipico prodotto del riflusso classicistico, che contrassegna gran parte della cultura napoletana nei primi decenni del Cinquecento, effetto delle mutate condizioni politiche del Regno che portano alla definitiva emarginazione dell'intellettuale umanista. Da qui la chiusura nella tematica eticoreligiosa o nell'elogio cortigiano, nel mito, nell'idillio, l'evasione nelle forme splendide e senza tempo della letteratura, che con motivazioni e con esiti diversi improntano la produzione poetica di quegli anni, dal Sannazzaro ai vari Anisio, Carbone, Gravina, Querno, Epicuro, Angeriano, Filocalo, Colonna, Borgia, Britonio, nomi che compaiono in bell'ordine insieme a quelli del Summonte, dei due Acquaviva, del Basso, del Varino e di altri nell'Ad Musettam, c. 35r, una sorta di inventario della Pontaniana intorno al 1527 (Pietro Summonte è già morto nel 1526, mentre Girolamo Carbone, Belisario Acquaviva e Pietro Gravina sono ancora in vita); nomi, poi, che ricorrono nel Carmen con quelli dei due Rota, di Traiano Cavaniglia, Giovanni Antonio Musetta, Camillo Pignatelli, Decio Apranio, Lucio Crasso, Paolo Tucca ecc.; vale a dire il quadro pressoché completo di quella sodalitas intellettuale napoletana d'inizio secolo fondamentalmente ancora pontaniana, nella quale il D. con i suoi impeccabili ma noiosi distici non è riuscito a lasciare un'impronta. Nessuno degli amici (tra i primi Camillo Querno, il revisore dei suoi carmi, e Marc'Antonio Epicuro, il "suo Pilade") lo ha infatti degnato di una menzione. Neppure Pietro Summonte: il capitolo in terza rima Petri Summontii in obitu I. Pontani (cc. 56r-58r del cod. XIII. D.27 della Nazionale di Napoli), dove, tra gli altri, subito dopo gli Acquaviva, sono ricordati "li Gennari" (direi: Pietro Iacopo e Alfonso), è una per il Percopo (Le Rime di Ben. Gareth o Chariteo, Napoli 1892, Introd., p. CCXIII n. 1), contraffazione del Meola.
Fonti e Bibl.: L. Santoro, Dei successi del sacco di Roma e guerra del regno di Napoli sotto Lotrech, a cura di T. Pedio, Galatina 1972, p. 198; G. C. Capaccio, Historia della famiglia Gennara o Janara dell'illustrissimo seggio di Porto nell'inclita e fidelissima città di Napoli, Napoli 1623, pp. 73 ss.; F. De' Pietri, Dell'historia napolet., Napoli 1634, p. 137; C. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, I, Napoli 1654, p. 267; G. B. Tafuri, Dell'istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, III, 1, Napoli 1750, pp. 1 ss.; B. Chioccarelli, De illustribus scriptoribus qui in civitate et Regno Neapolis ab orbe condito ad annum usque MDCXXXXVI floruerunt, Neapoli 1780, p. 23; C. Minieri Riccio, Memorie stor. d. scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, p. 143; E. Percopo, M. A. Epicuro. Appunti biogr., in Giorn. stor. d. letter. ital., XII (1888), pp. 12 s., 33 ss., 66 s.; N. Cortese, Feudi e feudatari napol. della prima metà del Cinquecento, Napoli 1931, p. 93; A. Altamura, L'umanesimo nel Mezzogiorno d'Italia, Firenze 1941, p. 141 n. 5.