CINGARI, Alfonso
Nacque a Bologna il 17 ott. 1748 da Giovanni Battista, rinomato medico, e da Eleonora Santini, figlia del medico Gian Maria. A sette anni venne inviato dai genitori presso lo zio paterno Giacomo Cingari, vescovo di Gubbio, il quale nel 1759 lo fece enirare nel collegio dei bamabiti di Perugia, dove il C. seguì la trafila degli studi. Già all'età di quindici anni fu in grado di sostenere una pubblica disputa di filosofia; in seguito, iscrittosi all'università di Perugia, si laureò inutroque iure il1° giugno 1767. Presi gli ordini minori, fu quindi inviato a Roma per proseguire gli studi giuridici e per fare pratica legale, ma preferì volgersi agli studi ecclesiastici specialmente a quelli biblici. Rimase a Roma fino all'ordinazione sacerdotale, avvenuta il 19 marzo 1774, ritornando poi a Bologna nella casa paterna, essendo frattanto morto nel 1768 lo zio vescovo. Nella città natale fece una vita ritiratissima, tutta dedita alla preghiera e agli esercizi di pietà.
Nel 1777 venne finalmente scelto come vicario generale dal vescovo . di Cagli, monsignor L. A. Bertozzi, che contava allora già settantatré anni; e contemporaneamente il vescovo di Reggio Emilia gli delegava la giurisdizione su quella parte del territorio di Pergola che era soggetto all'abbazia di Nonantola. Da allora il C. coadiuvò il Bertozzi compiendo in sua vece gran parte delle incombenze pastorali. In occasione del terremoto del 3 giugno 1781, che provocò a Cagli centinaia di vittime, il C. scrisse a nome del Bertozzi a il cardinale L. Antonelli una drammatica lettera per chiedere aiuti efficaci e rapidi, che giunsero infatti in quantità notevole. Coordinando l'afflusso delle offerte pubbliche e private, il C. riuscì a raccogliere una somma superiore a 60.000 scudi romani, che consentì la sollecita ricostruzione dell'ospedale e della cattedrale, la fondazione di un orfanotrofio femminile e l'erezione della nuova parrocchia di S. Bartolomeo.
Dal 1792 egli cominciò a scrivere tutti i documenti e le lettere pastorali che da allora videro la luce sotto il nome di monsignor Bertozzi, ormai vicino ai novant'anni. Particolarmente importante fu la Lettera pastorale al clero, e al popolo promulgata il dì 23dec. 1796 (Opere, I, pp. 52-100), scritta in occasione del quarantatreesimo anniversario della consacrazione episcopale del Bertozzi.
In essa il C. si propose di raggiungere due obiettivi: quello di far svanire i sospetti circolanti a Roma nei confronti del vecchio vescovo (un rigorista che non nascondeva le sue simpatie per il confratello Scipione de' Ricci e che era accusato di anticurialismo) e quello di accodargi alla diffusa opera di propaganda controrivoluzionaria che infuriava in tutto lo Stato della Chiesa. Perciò affermava, sul piano della dottrina morale, di non aver mai insegnato "né quell'austerità ributtante, che allontana troppo gli uomini da Dio, né quella molle, e languida condiscendenza, che avvicina troppo Dio agli uomini"; sul piano della gerarchia, di aver sempre seguito le direttive del, papa, "di quella cattedra principale, e unica, maestra irriformabile di verità, e di giustizia, a cui ci siam sempre fatti incontro come a madre, anzi come a sola madre degnissima d'onore, e di riverenza". Sul piano ideologico, attaccava il "secolo filosofico" come "feccia di tutti i secoli", i "profeti ingannatori", gli uomini "apparentemente seguaci della virtù" che congiuravano in realtà contro il trono e l'altare. In particolare si scagliava contro la pericolosità della. idea di eguaglianza, ricordando che il peccato originale era stato nient'altro che un "appetito di uguaglianza sacrilega": "La società degli uomini è una famiglia armonica vivente sotto il governo del comun Padre di, ttitti, riunita insieme per un dolce commercio di soccorsi, e di beneficj in una diversità di fortune, di condizioni, d'impieghi, dove hanno da essere e il ricco e il povero, e il possente e il debole, e il padrone e il servo, e il principe e il suddito legati insieme d'un vincolo, che fa esser necessario l'uno all'altro" (Opere, I, p. 93);e contemporaneamente esaltava la "placida e tranquilla esistenza" delle "capanne pastorali" contro "l'altra degli abitatori delle corrotte, e popolose Città, dove la mollezza, e il libertinaggio si sono confederati colla incredula filosofia" (ibid., p. 85).Cosìtanto con una teoria dell'organicismo sociale, di derivazione tomistica, quanto. con il ruralismo anticipava con lucidità i principali capisaldi della dottrina sociale della Chiesa di fine Ottocento.
Occupata ai primi di gennaio del 1798 Cagli dalle truppe cisalpine del generale Giuseppe Lechi ed entrata quindi a far parte la diocesi della Repubblica romana, la città fu teatro il 25 giugno 1799 di un episodio di violenta insorgenza antifrancese, cui non furono.estranei alcuni preti dqlla diocesi. Per scongiurare la rappresaglia delle truppe francesi, che intervennero con forze soverchianti, il C., trascinando con sé il decrepito vescovo Bertozzi, si recò presso il generale J.-C. Monnier ad implorare grazia; riuscì nell'intento ottenendo anche il perdono per monsignor Nicola Riganti, poi vescovo di Ancona e cardinale, che si era fortemente compromesso. Restaurato il governo pontificio nelle Marche (28 giugno 1800), il C. scrisse a nome di monsignor Bertozzi un'Istruzione pastorale, in cuiintimava a coloro che avevano aderito al governo repubblicano di fare sollecita e pubblica ritrattazione e agli acquirenti o detentori di beni ecclesiastici di fame entro quindici giorni la restituzione ai vecchi proprietari.
Il 24 maggio 1800 il C. venne nominato da Pio VII commissario apostolico della diocesi di Cagli, su designazione dello stesso Bertozzi, che aveva. chiesto invano già da diversi anni di poter rassegnare le dimissioni dall'episcopato. Nel settembre dello stesso anno il C. iniziò la visita pastorale della diocesi. Il 20 sett. 1802 morì il vescovo Bertozzi, di cui il C. pronunciò l'Elogio funebre (pubblicato in Opere, I, pp. 125-167). Rifiutò quindi il vesco.vado diAmelia offertogli nel marzo 1806 e accettò invece quello di Cagli, a quale venne nominato il 31 marzo 1806 e consacrato il 7 aprile successivo a Roma dal cardinale L. Antonelli.
Nei primi anni della sua nuova attività pastorale organizzò frequenti missioni e compì visite minuziose della diocesi, preoccupandosi in special modo dell'istruzione religiosa del clero e dei fedeli. Rioccupate le Marche dai Francesi nel 1809 e annesse al Regno d'Italia (2 aprile), fu imposto ai vescovi e ai parroci il giuramento di fedeltà all'imperatore e di obbedienza alle leggi del Regno; in. tale occasione il C., seguendo scrupolosamente le direttive della S. Sede e anzi facendosene portavoce presso i confratelli delle Marche, rifiutò il giuramento e perciò venne condannato dalle autorità civili all'allontanamento dalla sua diocesi.
Il primo luogo della deportazione fu Bergamo, dove venne alloggiato nel convento dei cappuccini, da cui il C. poteva uscire soltanto accompagnato dal padre guardiano. Da Bergamo egli poté mantenere comunque i contatti con il capitolo di Cagli, con i monasteri della diocesi e con privati; scrisse inoltre in quel periodo vari opuscoli di carattere soprattutto pastorale: Massime cristiane che suggerisce un vescovo al suo popolo a forma di meditazioni servibili per un mese (Opere, II, pp. 125-244); Meditazioni venti facili e piane, servibili a chichessia, ed anche facilmente adattabili agli esercizi per monache (ibid., IX, pp. 195-238); Maniera delle orazioni che più importano al cristiano (ibid., III, pp. 65-130); sentimenti e preghiere che il sacerdote deve insinuare ai moribondi e che ciascuno frattanto può anticipare e suggerire a se medesimo per quando morrà (ibid., III, pp. 133-199).
Per la sua buona condotta il C. poté godere in seguito di una maggiore libertà di movimento e ne approfittò per collaborare all'attività pastorale del vescovo di Bergamo, G. P. Dolfin, compiendo la visita nella Val Brembana ove amministrò la cresima in luoghi che non vedevano il loro vescovo, ormai vecchio, da molti anni. Con, la "prudenza del serpente" si astenne dal predicare, ma le entusiastiche accoglienze popolari che gli erano state tributate indussero il governo a proibire al Dolfin di valersi della sua opera. Costretto nuovamente, all'inattività, il C. ne approfittò per riprendere a scrivere, componendo La morale cristiana abbreviata e familiarizzata quantobasta e quanto bisogna a poter formar da se sola e senza maestro un confessor mediocre (comprende l'intero V volume delle Opere, e VI, pp. 1-64).
Nella primavera del 1812 il fratello del C., Giovanni, ottenne dal governo il suo trasferimento a Bologna, ma il C. lo rifiutò preferendo rimanere a Bergamo sia per respingere ogni trattamento di favore, che urtava contro la sua intransigenza, sia per non lasciare un luogo dove si era ormai ambientato e legato ad un gruppo di ecclesiastici a lui vicini per idee, tra cui vi era monsignor G. F. Cappelletti, vescovo di Ascoli Piceno. Forse proprio per questo egli e il Cappelletti il 24 apr. 1812 vennero trasferiti a Mantova e confinati in un isolamento maggiore, aggravato dal clima infelice. Durante questo soggiorno il C. completò la stesura della Morale cristiana e composeI sentimenti del cuor cristiano rettificati e facilitati (Opere, III, pp. 3-54), I principî e gli argomenti più sostanziali della religione (ibid., VIII, pp. 1-144)e le Preces perpetuo sacrorum librorum stylo concinnatae quibus quotidie poterunt sacerdotes gravius et sanctius alloqui Deum (ibid., VI, App., pp. 1-45).
Quest'ultima opera, che era derivata da un'abile e maliziosa utilizzazione di frasi bibliche opportunamente scelte con allusione agli'avvenimenti contemporanei, sottoposta alla censura preventiva fu giudicata piena di proposizioni "capaci d'ispirar fanatismo e ostinazione nel clero" (Buffa, p. XXXVIII). Il C. fu minacciato di deportazione nella fortezza di Peschiera e dovette giu ' stificarsi per iscritto; le Preces vennero poi pubblicate per la prima volta a Bergamo nel 1814.
Il 16 nov. 1813, in ottemperanza ad un ordine governativo, dovette lasciare Mantova con destinazione Torino, ma giunto a Milano il 19 novembre gli fu ordinato di rimanervi.
Caduto l'Impero napoleonico, nel maggio. 1814 il C., dopo esser passato per Bergamo e Mantova, ritornò a Cagli, dove vissè ancora momenti difficili quando, nel 1815, la diocesi passò sotto l'occupazione delle truppe del Murat e poi di quelle austriache. Quindi, restaurato definitivamente il governo pontificio, il C. si dedicò tutto all'attività pastorale, restaurando l'orfanotrofio e riaprendo molti conventi che erano stati soppressi. Negli anni 1816 e 1817, quando una spaventosa carestia e il tifo endemico flagellarono la diocesi e tutta la legazione di Urbino, il C. si adoperò per alleviare le sofferenze della popolazione, contraendo - dopo aver esaurito le risorse della mensa vescovile - numerosi debiti che furono poi pagati in parte dal fratello Giovanni e in parte dalla R. Camera apostolica.
Il C. morì a Cagli il 15 giugno 1817.
Gli scritti del C., soltanto in minima parte pubblicati precedentemente soprattutto nel periodo napoleonico in edizioni semiciandestine oggi difficilmente reperibili, furono raccolti e stampati postumi dal domenicano Giuseppe Ignazio Buffa in collaborazione con Francesco Geronzi nei dieci volumi di Opere (Roma 1825-28). Oltre ai titoli già citati si ricordano: Breve catechismo dedotto dal Romano a istradamento de' fanciulli e a maggiore utilità de' provetti (II, pp. 1-42); Commonitorio sacro (VI, pp. 73-117); Discorsi (VII, pp. 1-205); I principî e gli argomenti più sostanzialidella religione facilitati e proporzionati alla intelligenza e al convincimento di chi che sia per mezzo di conferenze famigliari semplici e appoggiate alla sola ragione (VIII, pp. 1-143); Meditazioni filosofiche ed elevazioni del cuore (ibid., pp. 145-188); Esercizi per monache (IX, pp. 7-153); Discorsi vari per monache (ibid., pp. 157-194); Ragionamenti famigliari e istruttivi (X, pp. 101-210).
Tutta la sua produzione è condizionata da un fine immediatamente pedagogico: risente quindi della necessità di usare un tono convincentemente oratorio, con l'uso di un linguaggio chiaro ma retorico adatto a impressionare un pubblico (di laici e basso clero) di limitato livello culturale. In questo ambito è una significativa testimonianza di come il magistero della Chiesa negli anni che vanno dalla Rivoluzione alla Restaurazione da prevalenti preoccupazioni di teologia morale, dalle discussioni sulla gerarchia ecclesiastica e dalla lotta frontale contro la filosofia illuministica passi gradualmente a considerare con più attenzione il problema del mantenimento dell'ordine sociale come condizione favorevole alla conservazione dell'egemonia cattolica sulla società: della religione si accentuano quindi le caratteristiche consolatorie e si sottolineano le potenzialità escatologiche che rinviano alla vita futura le aspettative all'egualitarismo espresse dalle classi subalterne. Molto istruttiva in tal senso è una delle ultime prediche del C., avente come tema la carestia del 1816-17 da lui presentata come punizione divina per i peccati degli uomini, che ora "uguali alle bestie si pascon d'erba sola e non la trovano sempre" (Opere, X, pp. 70-86). Unico rimedio proposto è la rassegnazione: "Chi è condannato a soffrire il digiuno, digiuni e soffra, chi è sentenziato a morte, muoja: che io lungi dal poter far sicurtà nessuna preveggo piuttosto, e temo, che gli anni successivi vadan forse a riuscire più tristi e più penuriosi di quel d'adesso se può darsene altro che lo sia" (p. 75). Ai poveri ricorda severamente i loro peccati: sono invidiosi, bestemmiatori, ubriaconi, litigiosi, irrispettosi dei giorni festivi: "Moltissimi fra voi non arriveran certo a vedere il raccolto nuovo perché moriranno di stento e di fame.... Mi uscì detto pocanzi che il flagello della carestia ricadeva più specialmente sopra di voi e che la fame, e la sete erano quasi come un tristo privilegio vostro: dissi male: privilegio bensì la fame, ma non privilegio il flagello: la più rovinosa e più micidial carestia se nol sapete è per coloro che non sentono fame. Questo infortunio è come quella pietra, di qui parla Gesù Cristo nel suo Vangelo: pietra in cui molti inciampano e cadono ...; i ricchi e i possidenti son coloro su de' quali la pietra si riversa e gli comprime" (pp. 81 s.).
Fonti e Bibl.: Arch. Segr. Vaticano, Proc. Dat. 175, ff. 65-98; G. I. Buffa, Elogiostorico..., in A. Cingari, Opere, I, Roma 1825, pp. IX-LVI; D. A. Tarducci, I vescovi di Cagli, Cagli 1896, pp. 122-130; P. Savio, Devozione di mgr. A. Turchi alla S. Sede, Roma 1938, p. 265; G. Buroni, La diocesi di Cagli..., Urbania 1943, passim;G. Palazzini, Il vescovo di Caglimons. A. C. nel periodonapoleonico, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXV(1971), pp. 139-151; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica, VII, Patavii 1968, p. 127.