CAVAZZI, Alfonso
Nacque a Modena in data non facilmente precisabile, ma compresa forse tra il 1660 e il '70. Studiò in patria, ove si addottorò in diritto, conseguendo nello stesso tempo una buona conoscenza delle lingue e delle letterature classiche, una solida preparazione retorica e una sufficiente esperienza dei problemi di filosofia morale tradizionalmente connessi ad una integrale preparazione classicistica.
Tale concomitanza di studi e di interessi gli valse la cattedra di filosofia presso lo Studio cittadino (che egli ricoprì per molti anni con un notevole concorso di auditori) e gli permise di esercitare con profitto la professione di avvocato: sì che la sua esistenza, libera da preoccupazioni di carattere economico e alimentata dal favore costante dei duchi estensi (fu, tra l'altro, nominato cavaliere da Rinaldo I), poté svolgersi tranquillamente nella città natale, mentre l'attività letteraria gli procurava la simpatia, e forse anche il benevolo assenso, d'un più vasto pubblico.
In virtù di tali attività fu ascritto all'Arcadia con il nome di Orieno Parrasio. Nel 1731 fu inviato da Rinaldo I, in qualità di commissario estense, a Ferrara, ove morì il 13 luglio dello stesso anno.
La produzione del C. è soprattutto quella di un tragediografo che si volge ai modelli classici con l'intento di riproporne non tanto l'efficacia emotiva quanto l'implicito messaggio morale. È caratteristico a questo riguardo il fatto che l'autore modenese non abbia mai inteso la tragedia come opera di versificazione, limitandosi a forgiare una prosa stilisticamente adeguata ad un proposito moraleggiante, secondo il giudizio criticamente accreditato che si dava in Italia anche del più recente repertorio tragico francese (soprattutto raciniano). Del resto, il C. fu traduttore dell'Andromaca di Racine, e la versione fu pubblicata a Modena nel 1708, esattamente all'inizio dell'originale produzione tragica dello scrittore modenese. Non si andrà lontano dal vero ravvisando nella traduzione dell'Andromaca non soltanto il punto d'avvio per l'attività artistica del C., l'indice più sicuro dei suoi gusti letterari, ma un nuovo contributo alla diffusione settecentesca di Racine in Italia, che raggiunse le vette più alte proprio nella pratica degli scrittori di teatro e nella prospettiva di un generale rinnovamento del repertorio classico.
La prima offerta del C. al nuovo genere tragico fu Montezuma imperatore del Messico, opera stampata a Modena nel 1709 con una prefazione dell'autore in cui innanzi tutto egli dava ragione del tema, ravvisando nella sorte dello sventurato sovrano un argomento tipico di tragediamoderna, e si soffermava poi sulla necessità di rendere la tragedia in prosa onde provvedere a un mezzo più direttamente comunicativo di sentimenti e di riflessioni morali, e sottrarsi nello stesso tempo al paragone, che sarebbe stato senza dubbio svantaggioso, con la perfezione del verso tragico degli scrittori greco-latini.
Le medesime misure dichiaratamente moraleggianti e cautelative nei confronti degli antichi vengono assunte nell'Esame che si legge come introduzione alla seconda tragedia data alle stampe dal C.: Nisoed Eurialo, stampata a Modena nel 1710. Seguirono altre due tragedie, più apertamente ispirate alla tradizione classica: Adelaide (Modena 1714) e Pertinace (ibid. 1714). Nello stesso anno l'attività del C. raggiunse il momento più fortunato con Leodice (Modena 1714), che meritò una segnalazione elogiativa nel Giornale dei letterati d'Italia; poi,inspiegabilmente, la produzione tragica si interruppe e il C. ripiegò nel 1715 su un componimento in endecasillabi sciolti, rigidamente conforme alla tradizione: la favola pastorale Clori, stampata in opuscolo a Modena.
Successivamente lo scrittore voltò le spalle anche a questo estremo tentativo di recupero poetico, dedicandosi a una raccolta di lezioni accademiche su questioni morali: saranno le Theses ex universa philosophia selectae, edite a Modena nel 1715. L'ultima opera a stampa che abbiamo del C. è un parere legale pubblicato dopo un lungo silenzio e forse una definitiva rinuncia ad ogni ambizione artistica: Risposta ad una scrittura nella causa Scalabrini e Santagata, Bologna 1721.
Forse è da scorgere nell'interruzione degli esperimenti, tragici dello scrittore modenese la comparsa e l'affermazione di modelli artisticamente più validi, ma è fuori di ogni dubbio che la produzione del C. dové essere limitata dalle modeste risorse inventive dell'autore prima che dall'insorgere di opere competitive. Va considerato a questo riguardo che le tragedie del C. furono esclusivamente destinate alla lettura, né risulta che alcuna di esse venne mai rappresentata in patria e neanche presso quella corte estense che si mostrava pure sensibilissima verso ogni tipo di esperimento teatrale. Destinate alla riflessione morale, le opere teatrali del C. dovettero essere lette e apprezzate da una ristretta cerchia di intenditori fino a quando non si esaurì il tentativo, fine a se stesso, di imporre una norma tragica alla funzione retorica dei classici.
Sotto questo aspetto può essere interessante sottolineare la corrispondenza quasi perfetta che esiste tra la moralità sottesa (e talvolta apertamente discussa) in ciascuna delle tragedie e la serie dei luoghi classici commentati nelle Theses del 1715. Tale corrispondenza mette in risalto la cultura essenzialmente retorica dello scrittore modenese: Omero e i tragici fra i greci; Orazio, Seneca, Lucano, Giovenale tra i latini forniscono un discreto apparato di "sentenze" sulle quali si articola il commento del C., secondo la tradizionale impostazione delle scuole di retorica che agli inizi del Settecento portano ancora avanti un malinteso metodo di insegnamento umanistico.
È chiaro che in questa prospettiva l'esperienza del C. tragediografo dovesse necessariamente tendere a un altro genere letterario, costituito appunto dalla silloge di sentenze morali, cui lo sollecitava la propria cultura non meno che la pratica dell'insegnamento presso lo Studio modenese.
Come l'esperienza letteraria si restrinse ad una pratica più dichiaratamente professionale, così la conoscenza del C. dovette, col passare degli anni, essere sempre più limitata all'ambiente cittadino; in seguito lo scrittore perse forse anche quel numero di studenti ai quali si indirizza idealmente l'opera filosofica, e la sua attività dové restringersi alla pratica legale, di cui rimane la testimonianza della Risposta edita nel 1721. In effetti, la quasi assoluta mancanza di riferimenti al C. presso le fonti cittadine di poco posteriori alla sua scomparsa, nonché, la carenza di notizie rapportabili alla sua vita privata danno l'idea di un influsso culturale assai scarso esercitato dallo scrittore; e tale rilievo appare tanto più significativo quanto maggiore fu, nell'ambiente letterario dei primi anni del sec. XVIII, l'impegno per una originale elaborazione della tragedia.
Fonti e Bibl.: Giornale dei letterati d'Italia, XI (1714), p. 406; G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, II, Modena 1782, pp. 13-14; J. C. Robertson, Sources ital. des paradoxes dramatiques de La Motte, in Revue de littérature comparée, III(1923), pp. 369 ss.; G. Natali, Il Settecento, Milano s.d., ad Indicem.