RISPOLA, Alfonsina
RISPOLA, Alfonsina. – Nata a Napoli verso il 1553 da Giovanni Antonio Rispola e da Faustina Calenna, della sua esistenza sappiamo molto poco.
A sei anni, alla morte della madre, rimase sola al mondo (il padre se ne era andato da tempo a Roma) e fu accolta da una zia; abitava ancora con lei nel 1581, quando fu travolta dagli ingranaggi dell’Inquisizione; era diventata nel frattempo una bizzoca francescana.
Il fascino della sua dolorosa vicenda, che resta per molti aspetti unica nell’Italia moderna, è nella semplicità con cui Alfonsina raccontò a giudici prevenuti e ostili svariate esperienze mistiche, vissute – altro aspetto eccezionale della sua storia – al di fuori del rapporto con i molti confessori cui le confidava. È impossibile ricostruire con esattezza quando esse cominciarono a manifestarsi. La prima ‘stranezza’ potrebbe esserle capitata quando aveva cinque o sei anni: fu allora che lo zio, Vinciguerra Cinco, sollecitato da misteriose voci, la trovò come morta in cantina. Rinvenuta, Alfonsina avrebbe detto di essere stata nell’oltretomba, sia all’inferno, sia in purgatorio, sia in paradiso, adducendo anche, come prova del suo viaggio, «un dito della mano cotto dal Purgatorio» (Romeo, 1977-1978, p. 190).
Molto più tardi, forse nel 1575-76, dopo un’apparizione notturna di s. Anna (i napoletani avrebbero dovuto avere a cuore la sua festa, le aveva detto, e così la peste non li avrebbe colpiti), s. Girolamo ne aveva accompagnato l’anima a visitare l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Alfonsina avrebbe allora segnalato il contenuto della visione all’arcivescovo, Mario Carafa, non senza confidargli i propri dubbi sulla sua natura diabolica, e il prelato l’avrebbe esorcizzata nella Cappella del tesoro di s. Gennaro (p. 205). Soltanto nel 1580, però, in concomitanza con la fama crescente di Orsola Benincasa e con le inquietanti vicende di alcune possedute napoletane dotate di spirito profetico, che diedero molto da pensare agli arcivescovi di Napoli e Sorrento, le esperienze della giovane donna si ampliarono enormemente. Al centro di una vita religiosa sempre più intensa, nutrita dall’ascolto continuo delle prediche, da un’assidua pratica eucaristica, oltre che da preghiere e digiuni, c’era ormai un rapporto profondissimo con il corpo di Cristo e con la sua passione, segnato dalle stimmate, dalla corona di spine, dal matrimonio mistico con lui e dalla stessa crocifissione, oltre che dalla fame dell’ostia consacrata e dalla ‘sete’ del sangue del suo costato; fu ancora un Gesù vestito di bianco a toglierle il cuore, per ricollocarlo al suo posto dopo cinquanta giorni. Aveva spesso stati di estasi e levitazione, ‘vedeva’ la Madonna e altri santi e cominciava a far parlare di sé.
Nei primi mesi del 1581 l’amicizia di una bizzoca, che la presentò a un’agiata signora molto ben disposta nei suoi confronti, segnò per Alfonsina l’inizio di una nuova stagione. Ospitata spesso a casa della donna, la giovane mistica, malgrado gli inviti all’umiltà da parte dei numerosi confessori che frequentava, cominciò a entrare in un circuito forse troppo grande per lei, che fino a quel momento aveva vissuto in modo molto ritirato. Ma non diventò una ‘santa viva’, come le sarebbe potuto capitare in età pretridentina. Ebbe infatti la sfortuna di incappare in Ranieri Gualandi, un ex valdesiano poi avvicinatosi ai teatini, ordinato sacerdote nel 1560, che aveva già denunciato e fatto condannare svariati esponenti del dissenso religioso napoletano. Fu lei a chiedergli un incontro in chiesa, ai primi di agosto del 1581, per raccontargli le «revelationi che havea», ma le reazioni dell’ecclesiastico, pur accortamente dissimulate, furono negative. La situazione precipitò nel giro di poche settimane, quando Gualandi venne a sapere che la giovane si vantava di avere le stimmate e le mostrava a casa di molte devote (pp. 180 s.). Decise a quel punto di tenderle una prima trappola, presentandosi a casa sua con tre cocchi di signore e comunicando allo zio il suo desiderio che la nipote pregasse per una malata. Ma Alfonsina subodorò la pretestuosità della richiesta e fece dire al congiunto che non era in casa (p. 187). Fu a quel punto che il sacerdote ruppe gli indugi e la segnalò all’arcivescovo, Annibale di Capua, per gli adempimenti del caso. Questi ordinò al vicario generale di recarsi il giorno dopo nella chiesa dello Spirito Santo, dove Alfonsina sarebbe andata a sentir messa.
Cominciò così – era il 1° settembre 1581 – la sua odissea. Forse ignara, almeno inizialmente, di essere di fronte a un giudice del S. Uffizio, la giovane raccontò per filo e per segno le sue visioni e reagì con semplicità, ma con forza, alle accuse di finzione che le furono immediatamente rivolte. Rinchiusa subito, pur senza provvedimenti formali a carico, nel monastero femminile di S. Maria della Consolazione, subì da internata un secondo interrogatorio, che non indusse i giudici a modificare la decisione informale assunta. Da quel momento il suo destino fu segnato. Possiamo seguire in parte la parabola della sua esistenza solamente grazie agli esiti delle reiterate istanze della badessa, che cercò di liberare il monastero da una presenza così ingombrante: in particolare nel 1589, quando chiese all’arcivescovo, insieme alla stessa Alfonsina, di chiudere il procedimento, ma ottenne soltanto qualche adempimento giudiziario irrilevante e l’invio degli atti agli inquisitori generali, e nel 1591, quando scrisse alla congregazione del S. Uffizio, chiedendo solo di sgravare un istituto in gravissime difficoltà finanziarie da un obbligo ormai insostenibile (pp. 182 e 217).
Fu così che nel luglio del 1592 il processo napoletano riprese, sia pur svogliatamente e senza il pieno adempimento delle richieste di inquisitori generali ben disposti verso di lei. L’immagine di Alfonsina che se ne ricava è quella di una donna schiacciata, dopo una prima fase in cui l’eco della sua santità aveva attirato devoti anche nel monastero, dall’internamento, dal divieto – crudele nel suo caso – di confessarsi e comunicarsi, rimasto in vigore per dieci anni, e dall’ostilità di buona parte delle monache (pp. 199-213). Tuttavia, nulla, neppure la benevolenza degli inquisitori generali, fece recedere gli implacabili giudici del S. Uffizio della sua città dal tenace convincimento che li guidava dal 1581: il 13 agosto 1592 fu ritenuta sospetta di simulata santità e restò internata nel monastero di S. Maria della Consolazione almeno per altri diciannove anni. La supplica, non anteriore al 1611, che probabilmente le consentì di tornare a casa, è l’ultima flebile traccia che ci resta della sua vita (pp. 215 s.).
Si tratta a tutt’oggi della prima persona processata e condannata dall’Inquisizione romana per un delitto contro la fede – la finzione di santità – che solo nel corso del Seicento sarebbe rientrato formalmente tra le competenze del celebre tribunale.
Fonti e Bibl.: Napoli, Archivio storico diocesano, Sant’Ufficio, 514 (trascritto integralmente in appendice a G. Romeo, Una «simulatrice di santità» a Napoli nel ’500: A. R., in Campania sacra, VIII-IX (1977-1978), pp. 159-218); P. Scaramella, Le lettere della Congregazione del Sant’Ufficio ai tribunali di fede di Napoli, 1563-1625, Trieste 2002, ad indicem.
C. De Frede, Notizia d’un valdesiano pentito con una digressione sul processo d’una visionaria (Ranieri Gualandi e A. R.), in Archivio storico per le provincie napoletane, CVI (1988), pp. 177-185; J.-M. Sallmann, Les malheurs d’Alfonsina Rispoli, in Visions indiennes, visions baroques. Les métissages de l’inconscient, a cura di J.-M. Sallmann, Paris 1992, pp. 57-90; Id., Naples et ses saints à l’âge baroque (1540-1740), Paris 1994, pp. 178-186; Id., Lo imaginario en el mundo mediterráneo de la época moderna, in Historiografía francesa: Corrientes temáticas y metodológicas recientes, a cura di H. de Gortari - G. Zermeño, Mexico 2000, pp. 15-31; G. Romeo, Chiesa, possessione diabolica e santità profetica nella Napoli della Controriforma. A proposito di due inediti vaticani, in Campania sacra, XXXII (2001), pp. 97-117; M. Gotor, Chiesa e santità nell’Italia moderna, Roma-Bari 2004, pp. 70-78.