Alfieri e la ‘religione civile’
Al nome di Vittorio Alfieri, Giovanni Gentile ebbe la ventura di associare il proprio almeno a far data dal 1893, allorquando, partecipando diciottenne al concorso per quattro posti di alunno interno alla Scuola Normale Superiore di Pisa per la Classe di lettere e filosofia, nella prova scritta di italiano per l’ammissione gli fu sottoposto un tema dal titolo Le lettere, e specialmente la poesia nel concetto del Parini e dell’Alfieri, e nelle loro opere. Nel suo elaborato (pubblicato e discusso per la prima volta in D. Coli, Il caso storiografico Giovanni Gentile, «Studi storici», 1986, 2, pp. 503-18), il giovane fu portato a evidenziare la funzione esercitata dalla grande poesia d’intonazione civile di entrambi i grandi settecentisti, per di più in un momento – come l’aspirante normalista scrive – di «generale abbassamento della coscienza pubblica» (p. 508). Tuttavia egli metteva suggestivamente a confronto la loro posizione – che pure mirava a un unico fine («Il popolo dormiva allora saporitamente il sonno dell’inerzia [..]. Bisognava risvegliarlo», p. 508) – sulla base di una contrapposizione tra riformismo e rivoluzione alla cui eziologia forse non era estranea una sua positivistica valutazione circa le rispettive appartenenze (ed estrazioni) sociali:
[Giuseppe Parini] figlio di poveri genitori, aveva passato fra angustie continue l’adolescenza, costretto a prestare l’umile ufficio di amanuense, e indossare, solo pei bisogni della vita, l’abito talare, a scendere e salire per l’altrui scale, come precettore privato, naturalmente s’era dovuto formare un’indole assai più mite dell’Alfieri, conte, di ricchissima famiglia, non soggetto mai a una severa disciplina paterna, e poi libero di correre per le poste tutta Europa, fra amori, duelli e mille altre diavolerie del suo animo violento. [Pertanto, Parini] vuol far risorgere il popolo a poco a poco curandone la rigenerazione morale, risanando le piaghe tutte della coscienza pubblica; l’Alfieri, invece, violentemente ne brama scuotere le fibre, accendendovi la favilla della libertà, dell’odio contro ogni tirannide, e del trono, e dell’altare e della piazza (cit. in Turi 1995, pp. 14-15).
Il giudizio su Parini verrà ripreso sei anni dopo in un breve articolo per una rivistina della città natale di Gentile, Castelvetrano, alla quale egli collaborò assiduamente per alcun tempo (Giuseppe Parini. Nel primo centenario della sua morte (25 agosto 1899), «Helios», 1899, 4, 13-14, pp. 11-15).
Come vedremo, e come questo primissimo exploit scolastico sembra annunciare, la lettura gentiliana di Alfieri, e di un Alfieri quasi tutto rappresentato dagli scritti in prosa piuttosto che dai lavori insigni del tragediografo o dai testi poetici, è in realtà una lettura orientata pressoché in misura univoca verso un preciso risultato, che è poi quello di mostrare, testi alla mano – peraltro, più che interpretati, cospicuamente riprodotti e citati –, la funzione di esemplare referenza e di eloquente sollecitazione dell’ideale unitario e nazionale, funzione da lui esercitata presso le generazioni intellettuali, e in specie presso i suoi più giovani conterranei piemontesi, che avrebbero dato vita e sostenuto le idealità unitarie. L’Alfieri di Gentile è in ultima analisi, più che uno scrittore cui vada riconosciuta la primazia di un determinato genere letterario nella tradizione alta della cultura letteraria della nazione nascente, un campione di virtù civica e di tenacia morale, mostrando la tempra esemplare dell’uomo d’indomito intelletto sul quale dovrà fondarsi di necessità la speranza vittoriosa del moto risorgimentale.
È nel corso dei primi mesi del 1921 che un giovanissimo Piero Gobetti, nel momento (o addirittura ancora prima) in cui si accingeva ad affrontare l’elaborazione della sua tesi di laurea in filosofia del diritto – che il relatore, Gioele Solari, come è noto, aveva consigliato afferisse al pensiero politico alfieriano –, pensò di dedicare una serie di brevi interventi, per lo più pubblicati su quotidiani o su rivistine di carattere provinciale, a quella che nella sua tesi egli avrebbe definito la «genesi filosofica del Risorgimento in Piemonte» (prefazione a La filosofia politica di Vittorio Alfieri, 1923, poi in Risorgimento senza eroi e altri scritti storici, 1976, p. 95), occupandosi di figure più o meno rilevanti del quadro culturale, da Giuseppe Baretti a Vincenzo Gioberti, da Luigi Ornato a Giovanni Maria Bertini. Tuttavia sono in realtà tutti gli anni dell’immediato dopoguerra quelli che vedono un singolare concorso di studi alfieriani, ai quali si votò – anche a seguito di un fortunato saggio crociano del 1917 (Alfieri, «La Critica», 15, pp. 309-17) – un nutrito drappello di studiosi giovani o giovanissimi e, cosa ancor più singolare, tutti legati in qualche modo alla piccola patria piemontese: dallo stesso Gobetti ad Attilio Momigliano, da Umberto Calosso a Mario Fubini.
Ora si dà il caso che, più o meno in quello stesso torno di tempo, anche Gentile – da una specola di certo opposta a quella dei giovani prima ricordati e in special modo dello ‘spericolato’ editore torinese – riuscisse a consegnare a Croce un mannello di articoli che intendevano comporre un quadro tendenzialmente organico della cultura del Piemonte ottocentesco, e in cui, fra l’altro, lo sforzo dell’autore era quello di mostrare come la lezione alfieriana avesse trovato piena rispondenza nelle espressioni di nazionale entusiasmo degli uomini e degli scrittori piemontesi del nascente e del pieno Risorgimento; tale analisi trascurava peraltro di approfondire taluni più specifici aspetti della cultura regionale, a differenza perciò dell’impostazione – a questo riguardo più rigorosa e storiograficamente corretta – osservata nei più fortunati (e non per caso) saggi sulla Toscana capponiana da lui pubblicati fra il 1916 e il 1920 sulla «Critica» e raccolti in volume per l’editore Vallecchi nel 1922 (Gino Capponi e la cultura toscana del secolo decimonono). Comparsi sulla «Critica» nel 1921-22, gli studi su Alfieri furono raccolti nel 1926, per la casa editrice La Nuova Italia, nel volume L’eredità di Vittorio Alfieri, ristampato nel 1964 nella collezione dell’editore Sansoni Opere di Giovanni Gentile, dove compariranno in un’apposita appendice anche il saggio Vittorio Alfieri uomo (già edito come opuscolo nel 1942) e, con il titolo Santorre di Santarosa, una recensione (già comparsa sulla «Critica», 1920, 18, pp. 239-42) al libro Delle speranze degli italiani. Opera edita per la prima volta con prefazione e documenti inediti da Adolfo Colombo (1920), prima stampa di Speranze d’Italia (1815), un manoscritto rimasto incompiuto e inedito di Santorre Annibale De Rossi di Pomarolo, conte di Santarosa.
L’idea portante dell’intera raccolta è la volontà di dimostrare con opportune citazioni, tratte di preferenza dai trattati e dall’epistolario alfieriani, come una componente essenziale del processo formativo del moto risorgimentale fosse legata alla lezione alfieriana: vale a dire che sull’Alfieri uomo – carattere energico, maschio, feroce, in una parola ‘dantesco’ (cfr. Mazzamuto 1969, p. 1560) –, più che sull’Alfieri tragediografo e poeta insigne, si andò formando buona parte di quella generazione di scrittori, pensatori e patrioti che avrebbe dato vita, di lì a pochi anni dalla morte sua, al movimento risorgimentale.
Fin dal saggio iniziale della raccolta, che significativamente prende per titolo Italia alfieriana (in L’eredità, 1964, pp. 3-15), il filosofo, richiamandosi all’immagine desanctisiana (e proprio del Francesco De Sanctis ‘piemontese’) di un Alfieri come antesignano dell’orgoglio nazionale, passa in rapida rassegna il pensiero dei più insigni esponenti della cultura subalpina prerisorgimentale. Dapprima il caso di Massimo d’Azeglio, «propugnatore assiduo e si può dir popolare del programma alfieriano della formazione del carattere italiano» (p. 4), nonché quello di Cesare Balbo, che nella Vita di Dante (1839) volle «ravvicinare l’Alfieri a Dante» (Italia alfieriana, cit., p. 13), ovvero ancora quello di Gioberti, definito «esaltatore instancabile dell’Alfieri» (p. 13), lui che in Del rinnovamento civile d’Italia (1850) non si era peritato di rimproverare alla sua terra «il culto dei mediocri sostituito alla stima dei valorosi» (Italia alfieriana, cit., p. 13); talché, spigolando nelle lettere alfieriane tratti esemplari e inequivoci di coscienza nazionale, Gentile è portato a concludere:
Queste le idee che fanno degno l’Alfieri della lode tributatagli dal Gioberti di principe della rinascita delle idee patrie avvenuta in Piemonte al principio del secolo e di risvegliatore dei sensi assopiti della nazionalità antica (p. 13).
Ma è poi a Santarosa e alla sua generazione («iniziatrice dell’opera destinata ad eseguire il programma alfieriano di un Piemonte “parte principalissima d’Italia”», p. 19) che si appunta l’attenzione dell’autore, avviando il discorso con il rammentare la fondazione, già nel 1804, in casa di Prospero Balbo, di una giovanilissima Accademia detta dei Concordi, alla quale erano ascritti non soltanto i suoi figli giovanetti Cesare e Ferdinando, ma anche Luigi Ornato, Casimiro Massimino, Paolo San Sebastiano, Luigi Provana del Sabbione, Carlo Vidua e altri. Fucina di un generoso impegno di alti intenti civili e morali nel segno del rinnovamento della cultura e della lingua dell’Italia letteraria, l’Accademia torinese – in realtà «una ragazzata», come ebbe a ricordare Balbo – fu pure l’occasione, ricorda sempre Gentile, per apprezzare le novità dei primi volumi dell’edizione postuma delle opere alfieriane stampate a Firenze da Guglielmo Piatti, e in particolare della Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso (1804), ben presto divenuto «il libro delle loro aspirazioni, e quasi il loro vangelo» (Italia alfieriana, cit., p. 32). Insomma, la generazione piemontese del 1821, secondo quanto si arguisce dal loro giovanile scambio epistolare (soprattutto tra Ornato, esule a Parigi, e Provana), «crebbe nel culto dell’Alfieri» e nella ferma speranza di un prossimo riscatto nazionale, non senza arricchire questa energica idealità con un ulteriore additivo alfieriano, l’avversione per la Francia della dominazione napoleonica, quel particolarissimo misogallismo che Gentile si sofferma a indagare in particolare nel pensiero giobertiano (cfr. il saggio La personalità del Gioberti e il suo misogallismo, in L’eredità, cit., pp. 107-29). Ciò viene ripreso e confermato nel saggio Fede e speranze dei giovani piemontesi prima del Ventuno (in L’eredità, cit., pp. 43-61), laddove Gentile afferma ancora:
Quella fede del Giorno verrà [il celebre verso del Misogallo alfieriano] era il maggior dono largito dall’Alfieri ai giovani eredi del suo spirito. I quali da lui impararono due cose importantissime […]. L’una che la virtù non è possibile agli scettici, ed è già una realtà in chi vi crede […]. L’altra è il complemento necessario della prima, ed è la fede nell’umana libertà: poiché lo scetticismo sarebbe invincibile, se l’uomo non credesse di aver in se medesimo la potenza di farsi da sé la sua vita e la sua fortuna (pp. 59-60).
Ma poi, indagando pure sugli scritti dei maestri di quella generazione che aveva fatto la rivoluzione del 1821, Gentile nel saggio successivo (La tradizione alfieriana nella rivoluzione del Ventuno e negli scrittori piemontesi, in L’eredità, cit., pp. 63-82) mostra l’alfierismo impettito e fortemente idealizzato di Silvio Pellico e in particolare di Carlo Botta che – in specie nella sua Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini fino al 1789 (1832) – individua anch’egli nel tragediografo astigiano una sorta di «moderno Dante» capace con la sua «possente voce» di «incitare la nazione italiana a più alto e vigoroso sentire» (La tradizione, cit., pp. 75-76; naturalmente la riflessione di Gentile a questo proposito va posta in stretta relazione con il discorso avviato nel precedente volume I profeti del Risorgimento italiano, 1923, dove erano stati raccolti gli interventi apparsi nel corso del 1919 su «Politica», la rivista nazionalista diretta da Francesco Coppola e Alfredo Rocco).
Volgendosi poi, il nostro, alla figura ritenuta più rappresentativa dell’alfierismo piemontese primo-ottocentesco, quella di Gioberti, considerato il più conseguente fra gli scrittori del suo tempo a riprendere e continuare il magistero del grande tragediografo, magari «passato attraverso all’anima di Santarosa», e però nella convinzione che «una vera fede, una fede salda e operosa, quale occorreva al risorgimento italiano, non fosse possibile senza una credenza religiosa» (La tradizione, cit., p. 78). Ciò, dunque, soprattutto nelle annotazioni di Gioberti alla tentata edizione ottocentesca di Speranze d’Italia di Santarosa (per tale questione v. la citata edizione del 1920, con il titolo Delle speranze degli italiani), ma in seguito, nei Prolegomeni del primato morale e civile degli italiani (1845), «la figura dell’Alfieri grandeggia anche più», e così nel Gesuita moderno (1846-1847), dove l’autore senza mezzi termini tiene a confessare, a nome di un’intera generazione di cittadini subalpini, il proprio discepolato rispetto all’Alfieri, oggetto di venerazione «come padre di quell’idea civile che ci infiamma» (La tradizione, cit., p. 82; il discorso viene altresì ripreso dal filosofo nel saggio Echi alfieriani nel pensiero del Gioberti, in L’eredità, cit., pp. 131-53).
È con il saggio L’insegnamento di Vittorio Alfieri (in L’eredità, cit., pp. 85-106) che finalmente Gentile affronta meno obliquamente il pensiero dell’astigiano; ed è il pensiero, egli reputa, di uno spirito irrequieto e ansante, e, come tale, è un pensiero fatalmente di «corto respiro», privo di un vero svolgimento organico e costruito in gran parte «con osservazioni accessorie e incongrue» (p. 91). Nonostante ciò, a Gentile la riflessione di Alfieri appare sorretta da un’audacia intellettuale e da un’indubbia carica di fiducia nel futuro («in una realtà che non è, ma sarà») fondate su quello che il filosofo definisce «senso dantesco della potenza dell’individuo» e che l’esegeta riconosce di preferenza «in quel libro così caratteristico della sua situazione spirituale che è il Principe e le lettere» (p. 91). Se la stima di sé (l’alfieriano «piacere a sé stessi») e l’«intima e “assennata sicurtà” ne’ propri mezzi» sarà da un canto la dote indispensabile anche «di quanti italiani propugneranno efficacemente il risorgimento della patria» – arguisce Gentile dal trattato dell’astigiano –, d’altro canto e di riflesso «il forte sentire è proprietà dello scrittore, come di ogni uomo sommo» (pp. 94-95). Ma è senz’altro l’esaltazione che Alfieri fa proprio di questo naturale impulso divino, inteso come «meravigliosa potenza creatrice», a risultare agli occhi del nostro l’elemento più significativo e caratteristico, insomma la vera «speranza animatrice di tutta l’opera alfieriana» (p. 104), anzi del suo pensiero ‘politico’, una volta che effettivamente si fosse potuto ridestare nel petto degli italiani.
A tutt’altro argomento e impostazione è versato, almeno nella parte iniziale, lo scritto posto in appendice alla citata edizione 1964 dell’Eredità (pp. 195-215), e cioè quel già ricordato Vittorio Alfieri uomo nato da un discorso pronunciato nel 1942 presso il Centro nazionale di studi alfieriani di Asti e poi stampato in quello stesso anno dalla Casa d’Alfieri. Qui è la Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso a sollecitare il filosofo che, nel tentativo di restituire dello scrittore un profilo unitario e immediatamente percepibile, affronta la lettura di quel testo partendo proprio dalla nozione preliminare di autobiografia (un tema critico poi divenuto centrale, nel secondo dopoguerra, del dibattito storico-letterario internazionale, e particolarmente frequentato in anni a noi più prossimi). Per Gentile, assai modernamente, l’autobiografia più che realizzarsi nel «documento della vita», come «un preteso oggettivismo e realismo storico» farebbe supporre, si pone come «documento del concetto che l’autore ebbe di sé medesimo, e dell’immagine che egli a poco a poco si formò della sua propria natura»; ne consegue che la verità della sua esistenza non è rappresentabile come cronaca estrinseca e dunque – giusta la trascendentale matrice attualistica dell’idealismo gentiliano – non va ricercata «nell’Alfieri reale, ma nell’Alfieri ideale, il quale prevalse storicamente e finì con l’essere il vero Alfieri» (Vittorio Alfieri uomo, cit., in L’eredità, cit., p. 200).
Nel prosieguo del suo discorso, Gentile viene progressivamente svelando, senza particolari infingimenti retorici o eufemismi concettuali, le sue vere finalità e ragioni di fondo, che risiedono nella proposta (coincidente con una profonda convinzione) di dover assegnare una posizione di privilegio, più che all’opera e alla scrittura alfieriane – oggetto di una valutazione piuttosto distaccata se non proprio superficiale e quasi sbrigativa (cfr. p. 202) –, alla vita dello scrittore, alla sua umanità. Scrive infatti il filosofo:
Per intendere la grande risonanza dell’arte sua, oltre lo scrittore, o, se si vuole, nello scrittore bisogna guardare all’uomo; alla tempra di quest’uomo che viene avanti nella luce della sua poesia. Tempra singolare, dantesca come, dopo Dante, l’Italia non ne aveva avuta un’altra (p. 203).
E il motore, il fuoco che alimenta quella tempra è senz’altro identificato da Gentile in quell’impulso divino, in quella volontaristica febbre di generosa e magnanima autorealizzazione, in quella stima e amore di sé medesimo di cui si parla in particolare nel libro che, più di ogni altra opera alfieriana, Gentile è portato a considerare, e cioè il sempre citato Del principe e delle lettere (1789), un «libro paradossale, sofistico», anzi «così poco persuasivo da suscitare l’opposizione ad ogni passo» e tuttavia «vivo» proprio «perché fremente della passione del Poeta» (Vittorio Alfieri uomo, cit., p. 205). Con ciò egli torna all’idea di un invincibile e antiumanistico primato da assegnare alla vita di Alfieri piuttosto che alla sua opera:
Tra il Metastasio e il Vico stesso da una parte e l’Alfieri dall’altra, è un abisso. E questo abisso, per cui l’Alfieri inizia una nuova storia, non è scavato dall’arte o dal pensiero, ma dal carattere dell’uomo; che è l’uomo di Dante, ma non è l’uomo né del Rinascimento né dell’età barocca, che conchiude gli splendori del Rinascimento, ed è decadenza, quantunque decadenza di popolo raffinato dall’arte, dalla scienza e dalla filosofia. È l’uomo della nuova Italia del Risorgimento: l’uomo del Mazzini […] facendola una volta finita con la vecchia malattia italiana della letteratura che può esser bella e non è vera, perché non è la vita (pp. 213-14).
Appare costante, come noto, nella disamina storica che Gentile fa dell’intera epopea risorgimentale e nella sua analisi critica del pensiero dei suoi maggiori protagonisti e interpreti, una sottovalutazione piuttosto drastica dell’incidenza propositiva del pensiero e della riflessione storico-politica dell’Illuminismo europeo. Anzi, il giudizio sulla presunta astrattezza di taluni scrittori e pensatori italiani del 18° sec., fra i quali Parini, veniva messo in relazione a un efficace ma non positivo condizionamento che agiva sul versante italiano per opera delle idee dell’Illuminismo francese (e ciò fin da Rosmini e Gioberti, la sua tesi di laurea alla Normale, discussa nel luglio del 1897, prima importante sedimentazione di quell’interesse per il Risorgimento italiano che Gentile aveva maturato durante gli studi universitari, legandosi in special modo alla lezione di Donato Jaja, di Amedeo Crivellucci e di Alessandro D’Ancona. Non sembra che un atteggiamento siffatto, tuttavia, il filosofo l’avesse appreso alla scuola dell’amato maestro D’Ancona, un ‘risorgimentalista’ moderato, cui peraltro dovette, fra l’altro, buona parte della sua formazione di ‘italianista’).
Per parte sua Gentile, di converso, è portato a sottolineare ogni volta la diversa cifra del carattere italiano, orientato a un più puntuale realismo politico, in specie presente, a suo dire, negli scritti di Vincenzo Cuoco – in breve diventato uno dei suoi auctores di riferimento storico-politico – e in subordine di Alfieri. Fra l’altro, è proprio nella sua recensione («La Critica», 1911, 9, pp. 454-56, poi in Albori della nuova Italia. Varietà e documenti, 1923, a cura di V.A. Bellezza, 1° vol., 1969, pp. 107-08; cfr. anche Turi 1995, p. 128) a La Révolution française et les lettres italiennes (1789-1815) (1911) del francese Paul Hazard – un’opera destinata a porsi come uno dei più affidabili riferimenti per la storiografia letteraria dell’Italia moderna per molti decenni a seguire – che Gentile trova conferma del giudizioso accostamento fra il patriottismo di Cuoco e di Alfieri, riconoscendo in particolare a quest’ultimo un merito precipuo, e cioè che fin dal 1777, a tener conto del secondo libro della Tirannide, «dava prova di profondo accorgimento rispetto alla necessità di adattare gl’ideali politici alle determinate e imprescindibili contingenze storiche di ciascun popolo» («La Critica», 1911, 9, pp. 455-56).
Va da sé, dunque, che l’interesse che il filosofo, in tempi diversi (e, occorre dire, piuttosto occasionalmente), ha prestato alla lettura dell’Alfieri trattatista (giacché, come si è visto, è codesto l’Alfieri quasi esclusivamente da lui apprezzato) si inquadra nel più vasto e protratto studio gentiliano intorno alla categoria storiografica del Risorgimento, indagata a partire proprio dagli anni della Restaurazione, intesi come svolta e reazione antidottrinaria e quindi sostanzialmente antifrancese e antisensistica. Ciò sulla scorta, da un lato, di una grande lezione di spregiudicato realismo politico come quella del Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801) di Cuoco e, dall’altro, dall’appassionamento storico-critico per il pensiero politico di Giuseppe Mazzini, cui presta più convinto e deciso impegno speculativo a partire dall’immediato dopoguerra (cfr. i due saggi pubblicati nel 1919 su «Politica», Mazzini, 19 gennaio, pp. 184-205, e Ciò che è vivo di Mazzini, 10 marzo, pp. 336-54; cfr. anche Pertici 1999).
D’altro canto, un altro carattere va colto nella mai intermessa attenzione che il filosofo ha prestato all’evento centrale e risolutivo della storia dell’unità italiana, il Risorgimento appunto, e cioè il tentativo di interpretarne l’intera epopea come una sorta di riconferma eroica di quella ‘nuova Italia’ che pour cause – opponendosi alla ‘vecchia Italia’ (patria dell’individualismo, del ‘particularismo’ rinascimentale e dell’egoismo liberal-giolittiano) – va identificata all’opposto nella tradizione eroica dei grandi pensatori e artisti (da Dante ad Alessandro Manzoni) e nell’afflato etico-religioso dei grandi spiriti della tradizione nazionale (cfr. a questo riguardo Sasso 1998). In questo quadro il personaggio di Alfieri appare, con le stimmate quasi di un mito culturale o di una figura messianica (cfr. Pertici 1999, p. 128 nota 27), nella funzione di un vero e proprio fondatore e al contempo precursore rispettivamente di queste due fasi della ‘nuova Italia’, così come, sottotraccia, il moto risorgimentale può interpretarsi, alla luce di quello stesso orientamento gentiliano, come ‘legittimante’ anticipazione di una rinnovata ‘nuova Italia’, presentemente incarnata nello Stato etico rappresentato dal nascente regime mussoliniano.
La lettura gentiliana dell’opera e della personalità del grande astigiano, se collocata nel quadro della storia della critica alfieriana o, come oggi si usa dire, della relativa ricezione novecentesca, mostra un carattere ineludibile di eccentricità e di isolamento. Così come il filosofo non è aduso a utilizzare più di tanto la cosiddetta letteratura secondaria nell’affrontare temi e questioni di storiografia letteraria e perciò anche dell’esegesi dell’opera alfieriana, nella stessa misura le sue pagine in argomento sono state affatto trascurate dagli alfieristi succedutigli, ovvero assegnate a trattazioni di tutt’altra finalità che non quella più specificamente di analisi storico-letteraria.
Non è difficile in proposito avanzare motivazioni ragionevolmente plausibili, la più ovvia ma convincente delle quali, crediamo, risiede nella generale e persistente ricusazione (di valenza essenzialmente ideologico-politica, una volta esaurita l’egemonia totalitaria del regime) delle premesse e conclusioni dell’impostazione gentiliana, ricusazione che davvero non riesce a celare più di tanto una sua pur appassionata strumentalità.
E in effetti basti dire che, a parte pochi e occasionali cenni, un critico della levatura di Luigi Russo, nelle oltre cento pagine da lui dedicate al Gentile storico e interprete di letteratura – Giovanni Gentile storico della letteratura e filosofo dell’arte (in Id., La critica letteraria contemporanea, 1942, nuova ed. 1967, pp. 267-375), ancor oggi lo studio più argomentato e approfondito su tale materia – non si sofferma mai con un certo agio a ricordarne gli scritti alfieriani. L’unico accenno di un minimo rilievo che ne fa è nel parlare della pericolosa propensione di Gentile per una storiografia tendente al generico metaletterario e alla strumentalità oratoria. Per Russo – qui nelle vesti di crociano senz’altro ortodosso e ossequiente – era facilmente prevedibile che l’attività gentiliana in questo campo fosse destinata a sfociare «in una larga azione di carattere pratico-politico»: ebbene, a questo proposito il critico quasi paradossalmente arriva a concludere che Gentile stesso poteva essere visto come «l’ultimo alfieriano», nel senso che «attraverso il tramite del Gioberti» seppe cogliere «l’esigenza di Vittorio Alfieri del letterato uomo, del letterato in cui “il dire altamente alte cose è un farle in gran parte”» (p. 334). Apprezzabile certo una tale indicazione, quella cioè «del letterato nel significato complesso del termine» e dunque perfino eroe e uomo d’azione, ma tutto ciò, precisa Russo, a condizione che quell’uomo d’azione non dimentichi «di essere letterato come non se ne dimenticò Vittorio Alfieri», altrimenti è assai facile che questi si trasformi, degenerando, in una sorta di «profeta-retore, il messianico e generico annunziatore di nuove fedi» (p. 334).
Dopo quanto siamo venuti documentando, non meraviglierà, in ultimo, constatare che tra gli studi che più nello specifico sono stati dedicati alla storia dell’interpretazione dell’opera di Alfieri a partire dal secondo dopoguerra, non è dato rinvenire un lavoro che abbia assegnato uno spazio appena ragguardevole agli scritti di Gentile poi raccolti nell’Eredità, e quasi sempre trattasi di commenti e posizioni critiche che si esimono dall’entrare nel merito (anche dialetticamente, come è nelle cose) delle questioni da lui poste con tanta enfasi ideale. Carmelo Cappuccio, per es., autore di un pregevole volume monografico, La critica alfieriana. Orientamenti e prospettive (1951), cita il titolo alfieriano di Gentile un paio di volte (pp. 123-24), ma come di sfuggita, seppure in termini assai positivi. Così fa anche Bruno Maier, al quale si deve Alfieri (1957, 19733), volume pubblicato nella ‘ufficiosa’ collana Storia della critica dell’editore Palumbo di Palermo.
Più di recente, in occasione dei numerosi convegni organizzati in vista del bicentenario della morte di Alfieri (2003), se n’è tenuto uno dedicato proprio ad Alfieri nella critica novecentesca. Negli atti relativi (Vittorio Alfieri nella critica novecentesca, Atti del Convegno nazionale di studi, Università di Catania, 29-30 novembre 2002, a cura di N. Mineo, R. Verdirame, 2005) si leggono almeno due interventi (N. Mineo, La tragedia alfieriana nella critica tra le due guerre, pp. 3-42; R. Castelli, Giovanni Gentile e l’eredita alfieriana, pp. 143-52) che rimandano in diversa misura alla questione che ci riguarda; ma entrambi finiscono per mettere l’accento (inevitabilmente) sugli aspetti della implicita, ‘attualizzante’ parenesi gentiliana che, ponendo al centro dell’opera di Alfieri, come si è sottolineato più volte, un’attenzione preoccupata per l’identità di un’Italia ancora virtuale e in gran parte da recuperare alla coscienza dei suoi figli, non riesce a cogliere i valori più strettamente attinenti la scrittura letteraria, quali che fossero nelle varie occorrenze di genere del nutrito catalogo alfieriano.
P. Mazzamuto, Gentile critico, in Letteratura italiana. I critici, a cura di G. Grana, 2° vol., Milano 1969, pp. 1525-72.
G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995, pp. 14-15 e 128.
G. Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna 1998, pp. 412-17.
R. Pertici, Il Mazzini di Giovanni Gentile, «Giornale critico della filosofia italiana», 1999, 19, pp. 117-80.