DI GIOVANNI, Alessio
Nacque a Cianciana, nella Valplatani (prov. di Agrigento), l'11 ott. 1872 da Gaetano e Filippa Guida. Il padre fu collaboratore della Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane di G. Pitrè, fervido ed appassionato folklorista e legato all'idea della purezza quasi mistica della vita popolare che, trasmessa al figlio, agì su di lui al punto da contribuire, insieme ad una forte crisi religiosa, a farlo aderire, nel 1905, all'ordine dei terziari francescani. Il giovane D. trascorse l'infanzia e parte dell'adolescenza in un ambiente ricco di stimoli culturali e spirituali, in stretto contatto con la natura, nelle estese campagne di proprietà della famiglia, che possedeva anche molte zolfare. Insieme alla famiglia si trasferì a Palermo nel 1884, dove, tranne una breve parentesi a Noto, visse per tutta la vita.
Compose i suoi primi versi nel 1892, pubblicandoli poi nel 1896 nella raccolta Maju sicilianu. Del 1900 è Lu fattu di Bbissana (Bbotta di sangu), una storia potentemente scorciata che sembra la traduzione in dialetto de La lupa del Verga, ma che il D. udì narrare da un vecchio contadino dell'Agrigentino, come afferma nelle dotte, quasi professorali, note teoriche e filologiche che costellano il poemetto.
Straordinaria vi è la rappresentazione del paesaggio, di quella selvaggia ed aspra natura della Valplatani, che diventerà non scenario ma protagonista stessa della poesia successiva del Di Giovanni. Nella sua opera la vita dei campi e delle montagne solitarie o dei paesi sperduti è trasfigurata in una realtà che, senza perdere nulla di sé, acquisisce sempre un che di lontano e di misterioso.
A Lu fattu di Bbissana seguono altri sonetti scritti in siciliano, A lu passu di Girgenti (1902), Nni la dispensa di la surfara (1910), e un poema francescano 'Lu puvireddu amurusu (1906), con i quali mostra di voler creare una nuova tradizione letteraria in dialetto, auspicando l'uso di una sorta di koinè linguistica, sintesi di tutte le parlate dell'isola, che, proprio per questa sua caratteristica, avrebbe dovuto possedere validità generale. In realtà la lingua del D. risulta "un agrigentino miscelato notevolmente di palermitano e costellato più o meno abbondantemente di parole di disparata provenienza" (G. Piccitto, p. 276).
Il D. crea una lingua composita, come del resto ogni lingua letteraria, costruita, dietro l'apparente semplicità, con perizia e abilità, con il deliberato proposito di ricavarne determinati effetti. La sua scrittura è un impasto troppo caratteristico e peculiare perché altri potessero realizzarla. Le opere del D., come sottolinea il Pasolini nella sua Noterella su una polemica Verga-D. (p. 332), sono scritte in un linguaggio che risulta dalla contaminazione tra due culture diverse: la cultura superiore dello scrivente e quella inferiore del parlante.
Del resto, precedentemente alla redazione di Lu fattu di Bbissana, in un suo saggio del 1896 su Saru Platania e la poesia dialettale in Sicilia, il D., distinguendo tra poesia del popolo e poesia popolare, mostra la sua preferenza per una poesia che, pur rifacendosi al popolo, sia scritta secondo principi artistici. Il D. ama presentarsi come poeta popolare, ma il suo populismo nasce dalla nostalgia per un passato mitizzato che lo conduce ad un atteggiamento di chiusura verso le forme della civiltà moderna e contro il progresso tecnico che può distruggere le antiche tradizioni. Di ciò è prova evidente la fervida adesione nel 1907 al felibrismo di Fr. Mistral, che dalla Provenza gli scriveva entusiasticamente, accogliendolo nel circolo degli adepti. Sono di questo periodo le traduzioni degli scrittori provenzali J. Roumanille J. Aubanel, Th. Jouveau.
Già nelle prime opere, accanto ai moduli realistici frutto di una cultura ottocentesca e dell'influenza del modello verghiano, l'ispirazione del D. mostra un carattere mitico-religioso, che finisce per prevalere in opere quali la novella La morti di lu Patriarca (1920) o il romanzo L'uva di Sant'Antonio (1939), impregnate, soprattutto l'ultimo, da elementi spiritualistici e quasi decadenti di un pascolismo più o meno francescano.
Delle due opere, la prima, in cui il realismo si soffonde di un alone di umile e patriarcale religiosità, è certamente la più riuscita, mentre nel romanzo il tema più ambizioso e impegnativo, e in un certo senso autobiografico (l'artista, i problemi della creazione, il rapporto dell'artista con l'opera d'arte), gli fa tentare pagine di una "prosa d'arte" difficile ad ottenersi con il dialetto.
Il D. volle provarsi nella scrittura teatrale spinto dagli stessi intenti che lo avevano portato a scrivere in versi e in prosa. Voleva "tentare un teatro veramente indigeno: non un teatro di argomento siciliano in lingua italiana, come quello del Verga e del Capuana, che poi altri traduceva faticosamente in dialetto, ma un teatro pensato ed espresso direttamente e scrupolosamente in puro e saporoso siciliano" (Come andò che divenni drammaturgo, in Teatro siciliano, p. XXII). Il suo primo lavoro teatrale, nel 1908, è Scunciuru, un dramma di amore e gelosia, proiettato nello spazio sperduto e misterioso del latifondo, in una Sicilia tutta intrisa di superstizioni profonde. Sfugge al D., tuttavia, malgrado l'inserimento della vicenda nella cornice più ampia della comunità contadina, una realtà più complessa, quella del lavoro e dei rapporti sociali (cfr. G. Nicastro, p. 163). Il lavoro che affatica è un peso del destino contro cui è vano lamentarsi; il mafioso, Franciscu Tirritu, è mitizzato come uomo "forte e giusto" che sa farsi rispettare e protegge i contaffini (si veda in proposito l'articolo del Mazzamuto su La mafia nella letteratura, pp. 148 s.). Il modello è ancora una volta il Verga di Cavalleria rusticana, e l'esempio si fa sentire anche nella tecnica di costruzione del dramma, caratterizzato, però, rispetto all'opera verghiana, da un gusto tutto particolare per i canti popolari e da un vivo sentimento per la campagna. Nella prova successiva, nel 1910, Gabrieli lu carusu, il D. scrive sui lavoratori della zolfara, sulla scia della Zolfara di Giusti Sinopoli e di Dal tuo al mio del Verga.
Alcune scene del primo atto, gran parte del secondo e del terzo sono dedicate alla testimonianza dei modi di vita disperati dei lavoratori della zolfara. Malgrado i toni dolenti di compassione e di pietà, l'ottica in cui è visto lo svolgersi degli avvenimenti non potrebbe definirsi che padronale. Chi sfrutta gli operai è uno di quei capi socialisti che durante i Fasci sono stati in galera, e la maniera in cui è raffigurato il personaggio del capopopolo, Lu rabbiu, è significativa della posizione del D. di fronte ai fatti narrati e sottintende un fondo polemico di natura politica, antisocialistica. La lotta di classe si risolve in una inoralistica contrapposizione tra buoni e cattivi, mentre il dramma manca della compattezza e dell'omogeneità di Scunciuru, dove i personaggi erano sbozzati meno rozzamente.
Con L'ultimi siciliani, rappresentato a Palermo nel 1915, il D. si prova nel dramma storico.
L'opera, infatti, è ambientata durante lo sbarco garibaldino in Sicilia ed ha come protagonista un prete, che, nemico dei Borboni che gli hanno ucciso il fratello, combatte con i "picciotti" per la libertà della Sicilia. Un forte sentimento patriottico, che identifica nei Borboni l'origine di tutti i mali e di tutte le ingiustizie sofferte dalla Sicilia, perinea il dramma, in cui il D. supera nell'ideologia unitaristica il suo regionalismo letterario.
I drammi del D., che mostrano i limiti comuni, in parte, a tutto il teatro verista siciliano, godettero di molto successo e piacquero al Verga che, malgrado le successive polemiche di carattere linguistico, espresse sempre una calda simpatia nei confronti del D., di cui apprezzava il "galantomismo" artistico, il valore come autore dialettale e la sincerità degli intenti, come testimoniano le lettere che i due scrittori si scambiavano (cfr. G. Raya, Ottocento inedito, Roma 1960, pp. 119 ss., e le cinque lettere pubblicate nel numero della rivista Galleria dedicato al Di Giovanni).
Lo scontro frontale a proposito della veste linguistica de I Malavoglia avvenne nel 1920, quando il D., in una conferenza su L'arte di Giovanni Verga, tenuta a Palermo, si rammaricò che il Verga non avesse accettato la dottrina felibristica e scritto, di conseguenza, in dialetto I Malavoglia. Verga rispose con una lettera del 10 giugno 1920, riportata nell'articolo del D. stesso Verga e il félibrige (p. 103): "No, no caro Di Giovanni. Lasci stare I Malavoglia come sono e come ho voluto che sieno. Rendere il quadro coi colori propri, ma senza felibrismo che rimpicciolisce, volere o no". Proprio nella polemica con il Verga si rivela il limite della concezione del D. di una letteratura dialettale chiusa nel proprio ambito, senza osmosi e ricambio con il resto della letteratura nazionale. Era una posizione inaccettabile per il Verga, che credeva, invece, in un proficuo scambio reciproco tra lingua e dialetto, e che sentiva la posizione del D. come sterilmente statica ed immobile.
Il D. morì a Palermo il 6 dic. 1946.
Oltre a quelle ricordate, si segnalano le altre opere principali della vasta produzione del D., che spesso rifaceva, correggeva, pubblicava più volte una stessa composizione su riviste, libri, giornali diversi, apportando via via mutamenti anche notevoli. Per una dettagliata ed esaustiva bibliografia, si rimanda all'Appendice bibliografica pubblicata sul numero settembre-dicembre 1956 della rivista Galleria, dedicato al D., pp. 346-362, ed a quella che segue l'articolo di F. Puccio, La Sicilia di A. D., in Nuovi Quaderni del Meridione, XLIV (1973), pp. 446-453. SaruPlatania e la poesia dialettale in Sicilia, Napoli 1896; Maju Sicilianu, Girgenti 1896; Lu fattu di Bbissana (Bbotta di sangu), Napoli 1900; Fattuzzi razziusi, ibid. 1900; A lu passu di Girgenti, Catania 1902; Christu, Palermo 1905; Lu Puvireddu amurusu, ibid. 1906; Nni la dispensa di la surfara, ibid. 1910; Federico Mistral, ibid. 1915; La morti di lu Patriarca, ibid. 1920; L'arte di Giovanni Verga, ibid. 1920; Il francescano sogno, Assisi 1922; Il dialetto e la lingua, Palermo 1924; Sicilia, Firenze 1925; Il poema di Padre Luca, Palenno-Milano 1925; I Fioretti di s.Francesco tradotti in siciliano, Palerino 1926; Verga e il félibrige, in Studi verghiani... Inchiesta sull'opera di Giovanni Verga, ibid. 1929, I, pp. 102-108; La vita e le opere di Giovanni Meli, Firenze 1933; Voci del Feudo. Liriche siciliane, Palermo 1938 (raccoglie quasi tutta la produzione lirica precedente); La racina di Sant'Antoni: romanzo, 1939; Lu saracinu (romanzo rimasto inedito per volontà dell'autore) ed. postuma a cura di P. Mazzamuto, Palermo 1980. Teatro: Scunciuru, Palermo 1908; Gabrieli lu carusu, ibid. 1910; Mora, mora!, in lingua, poi divenuto L'ultimi siciliani, riuniti nel vol. Teatro siciliano, Catania 1932. Traduzioni: T. Aubanel, Le vergini di Avignone, Milano 1914; G. Roumanille, Racconti provenzali, Palermo 1913.
Bibl.: T. Nediani, A. D., Palermo 1922; L. Russo, Narratori (1923), Firenze 1951, pp. 118 s.; G. A. Peritore, La poesia di A. D., Palermo 1928; C. Sgroi, A. D., Palermo 1948; Galleria, n. 5-6, sett. dic. 1956, dedicato ad A. D., di cui segnaliamo gli interventi critici più significativi: V. Clemente, Valore e significato del v. nella poesia di A. D., pp. 260-71; G. Piccitto, A. D. alla ricerca della prosa siciliana, pp. 272-82; P. P. Pasolini, Noterella su una polemica Verga-D., pp. 330 ss.; G. Santangelo, Sulla genesi dell'opera di A. D., pp. 335-45; G. A. Peritore, Per una lettura della poesia di A. D., pp. 283-291; N. Mazzocchi Alemanni, L'anima del latifondo nella poesia di A. D., Caltanissetta-Roma 1964; P. Mazzamuto, La mafia nella letteratura, in Nuovi Qua. del Meridione, II (1964), 5, pp. 148 ss.; I. Rampolla del Tindaro, Felibri di Provenza e di Sicilia, in Bollettino del Centro di studi fiologici e linguistici siciliani, X (1969), pp. 215-48; P. P. Pasolini, Passione e ideologia (1948-1958), Milano 1973, pp. 33 ss.; G. Nicastro, Teatro e società in Sicilia, Roma 1978, pp. 157-174; Prefazione di P. Mazzamuto a Lu saracinu, Palermo 1980.