VERRI, Alessandro
– Nacque a Milano il 9 giugno 1741 dal conte Gabriele (1695-1782; v. la voce in questo Dizionario), membro del Senato dal 1749, poi reggente al Consiglio d’Italia a Vienna, e da Barbara Dati della Somaglia (1708-1788).
Studiò al collegio di Merate e alle scuole Arcimbolde di Milano prima di conseguire la laurea in giurisprudenza a Pavia nel giugno del 1760. Conservò sempre un pessimo ricordo dell’educazione ricevuta in collegio e, più in generale, della gioventù, trascorsa in un ambiente familiare austero e bigotto insieme alle quattro sorelle e ai fratelli Pietro (1728-1797), Carlo (1743-1823; v. le voci in questo Dizionario) e Giovanni (1745-1818). «Per un falso pregiudizio che fossimo cervelli ritrosi, e torbidi, siamo stati trattati in modo, che almeno, quanto a me, in ogni luogo viveva meglio che in mia casa», scriveva nel 1804 alla cognata Vincenza Melzi, confidando di avere «sofferta una umiliante educazione, priva di confidenza, di dolcezza, e sempre sotto il rigore, i rimproveri, in collegi molto simili a Galera» (Lettere a Vincenza Melzi d’Eril, a cura di S. Rosini, 1998, p. 455, n. CCCLIV).
Il suo Saggio di morale cristiana, composto nel 1763 e mai pubblicato, eccetto alcuni passi e paragrafi confluiti nel Caffè, era permeato dalla volontà di contrapporre all’ipocrisia familiare e all’eccesso di severità nell’educazione dei figli uno spirito evangelico fatto di comprensione e di amore. Il capitolo IX, Della economia domestica, che denunciava in termini polemici l’istituzione «crudele» della patria potestà, invitava con sensibilità giansenistica a coltivare un cristianesimo purgato dagli eccessi dogmatici e autoritari («tutto sperar si deve da un uomo cristiano al quale i sublimi principi di religione insegnano e persuadono, che l’umanità e la giustizia sono i primi caratteri di un essere sensibile e ragionevole»; Milano, Archivio Verri, d’ora in poi AV, 484.3, p. 76).
Quando il fratello Pietro tornò a Milano nel gennaio del 1761, dopo un anno trascorso a Vienna, trovò in Alessandro, allora ventenne, «un amico e per la uniformità del genio e per la bontà del cuore» (Verri, 2003, p. 115). Lo spinse verso lo studio e lo invitò a far parte della piccola società di giovani nobili, presto battezzata Accademia dei Pugni, che per cinque anni ingaggiò una lotta senza quartiere «contro le storture e i pregiudizi della società milanese» (Capra, 2002, p. 189) in campo monetario, giuridico, letterario e morale. Alessandro, con la sua ironia dissacrante e il suo talento di osservatore caustico, fu uno dei protagonisti della stagione lombarda dell’età illuministica. In occasione della polemica sul disordine monetario del 1762 scrisse, per sostenere Cesare Beccaria, le Riflessioni in punto di ragione sopra il libro intitolato: Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano, firmandosi P.P.I.C. (Pascolo per i coglioni). Fingendo di difendere gli avversari di Beccaria, e in particolare Francesco Carpani, formulava in chiave umoristica e antifrastica, con uno «stile contorto e cruschevole» (Verri, 2003, p. 118), una critica sferzante del conservatorismo giuridico in campo economico.
Ammesso nel 1763 nel Collegio dei Nobili Giurisperiti di Milano, esercitò per due anni, come già Pietro nel 1751-52, la carica di protettore dei carcerati. Ebbe il gravoso compito di curare l’assistenza giuridica dei detenuti nel carcere della Malastalla, «cercando di mitigare gli aspetti più iniqui della procedura inquisitoria [...] e di fare rispettare i diritti più elementari delle persone» (Musitelli, 2017, p. 93). Dal 1763 al 1765 compose in latino «trentaquattro pledoyers [sic] in difesa di processati» (Viaggio a Parigi, a cura di G. gaspari, 1980, p. 75), i cui manoscritti sono conservati nell’Archivio Verri (481.2). Alcuni di essi presentano annotazioni di Alfonso Longo e di Pietro Verri, altri sono autografi di Beccaria, a conferma del carattere collegiale dell’elaborazione del pensiero e della produzione scritta dei Pugni. Lo stesso metodo contrassegnò, dal marzo del 1763, la composizione dei Delitti e delle pene, nella quale Alessandro ebbe un ruolo non trascurabile come pratico del foro ed esperto di diritto penale, mentre Beccaria, come ricordava egli stesso nel 1787, non era «versato nelle criminali materie, delle quali [gli era] sempre mancata la pratica» (Beccaria, 1998, p. 490). Una prova ulteriore della solidarietà intellettuale dei Pugni fu la pubblicazione, nel febbraio del 1765, della Risposta ad uno scritto, che s’intitola Note, ed osservazioni sul libro Dei delitti e delle pene, un opuscolo in cui, usando la prima persona come se fosse Beccaria a rispondere, Pietro e Alessandro Verri difesero l’autore dei Delitti dalle accuse di empietà e di sedizione mosse dall’abate Ferdinando Facchinei.
In quegli stessi anni diede alle stampe trentuno articoli per il Caffè (1764-66), affermandosi come la «figura più importante» del periodico milanese dopo Pietro (Il Caffè, a cura di G. Francioni - S. Romagnoli, 1998, p. CXLI). Dalla celebre Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca ai più gravi saggi di argomento morale (Comentariolo sulla ragione umana, La virtù sociale), giuridico e storiografico (Discorso sulla felicità dei Romani, Di Giustiniano e delle sue leggi, Di Carneade e di Grozio, Di alcuni sistemi del pubblico diritto), Verri impersonò di volta in volta la figura del filosofo o del misantropo, oscillando indeciso tra il «riso di Democrito» e «le lagrime» di Eraclito. Indossando la maschera del «galantuomo di mal umore», fustigava nel Comentariolo l’«infinita abiezione dell’anime volgari» (ibid., 1998, p. 653), ma lasciava anche trasparire in altri testi una diffidenza sempre più esplicita nei confronti del volgo mosso solo dalle proprie passioni e incapace di assimilare la lezione critica dei lumi. «Le passioni umane sempre urtano contro le sociali instituzioni», ammoniva nel Ragionamento sulle leggi civili (p. 603), invitando il riformatore ad agire con prontezza e avvedutezza per non mettere a repentaglio la stabilità politico-istituzionale.
Tra il novembre del 1764 e il luglio del 1766 Verri aveva composto un Saggio sulla storia d’Italia (a cura di B. Scalvini, 2001) che, in poco più di 220 pagine manoscritte, sintetizzava venticinque secoli di storia, da Romolo a Carlo Goldoni e Pietro Metastasio. Lo sviluppo dell’opera lasciava trasparire l’allontanamento dagli ideali enciclopedici e razionalistici e l’approdo a una visione del mondo meno progressista. L’ambizione iniziale – rompere con l’erudizione storica, «ridurre in sugo» (p. 4) la vasta materia in una narrazione di matrice volteriana, indagare le cause politiche della nascita degli Stati e delle istituzioni per offrire in poche pagine uno strumento di comprensione del passato – aveva finito con l’essere sopraffatta dalla tendenza allo scetticismo e dalla progressiva cristallizzazione di un amaro moralismo. Gli istinti irrazionali e violenti delle masse, che costituiscono la trama della storia, non si sottomettevano all’indagine razionale («Ad ogni momento il tumultuoso ammasso dei deliri e delle crudeltà degli uomini tronca il filo allo storico che avea cominciato ad entrare in questo laberinto, ed ei la ritrova, per lo più, composta d’isolati e disgiunti pezzi, difficilmente constituenti la materia, molto meno una serie di conseguenze generali»; ibid., p. 6). La formula ricorrente, «L’uomo non si muta», assunta come motto da Verri nel Caffè e, più tardi, nel Carteggio con il fratello Pietro, tradiva il suo pessimismo antropologico. Solo la decisione di dedicarsi alle belle lettere, a Roma, avrebbe offerto a Verri l’occasione di trasformare la sua «giusta diffidenza» (Il Caffè, cit., p. 189) nei riguardi del genere umano «in un nuovo programma di scrittura che lo portò ad assumere la funzione più classica del letterato moralista e pedagogo» (Musitelli, 2016, p. 354).
Il viaggio a Parigi con Cesare Beccaria, nell’ottobre del 1766, segnò il definitivo scioglimento del gruppo dei Pugni e l’inizio di quella che sarebbe stata l’opera più imperitura di Pietro e Alessandro, il loro carteggio bisettimanale, vero e proprio «romanzo epistolare» (Anglani, 2004, p. 170) scritto a quattro mani, destinato a proseguire per oltre trent’anni, fino alla morte di Pietro nel giugno del 1797, con una sola interruzione (1784-89) dovuta alla lacerante lite tra i due fratelli per la divisione dell’eredità paterna. Spazio di comunione, di collaborazione e, con il trascorrere del tempo, di dissensi e dissonanze, il Carteggio offre una delle più ricche testimonianze sulla storia, la cultura, la vita sociale e intellettuale del XVIII secolo. Questo fitto scambio epistolare documenta con eccezionale vivezza, nell’autunno del 1766, l’accoglienza dei viaggiatori milanesi nei salotti dei philosophes e il precipitoso ritorno in Lombardia dell’autore dei Delitti. Da solo, Alessandro prese la via di Londra, dove si trattenne per due mesi affidando alle lettere indirizzate al fratello acute osservazioni «sulle istituzioni, i costumi, la maniera di vivere di un paese che anche Pietro mostrerà di apprezzare sempre più come modello di libertà civile e di prosperità economica» (Capra, 2002, p. 269).
Dopo essere ripassato a Parigi nel febbraio-marzo del 1767, fece ritorno in Italia e, nell’aprile dello stesso anno, avviò a Livorno, presso lo stampatore Giuseppe Aubert, la stampa del suo Saggio sulla storia d’Italia, salvo interromperla cinque mesi più tardi, dopo il suo trasferimento a Roma, temendo che lo potessero danneggiare alcune posizioni assunte contro la storiografia cattolica. Verri aveva fissato la propria dimora nella città pontificia – nonostante le insistenze del fratello, che avrebbe voluto riportarlo a Milano – dopo essersi invaghito della marchesa Margherita Sparapani Boccapaduli Gentili. Con questa gentildonna colta, che viveva separata dal marito e animava un salotto cosmopolita, frequentato dai più importanti artisti, letterati e diplomatici del tempo, Alessandro intrattenne fino alla morte una relazione tormentata, segnata dalla gelosia e dai dissapori, tanto da sentirsi a Roma come «un pesce fuori d’acqua» e da volere «uscire di gabbia», come confidava ad Antonio Greppi il 23 maggio 1778 (Archivio di Stato di Milano, Fondo Greppi, cart. 327). Ciononostante, fu sempre riluttante a rientrare in un ambiente familiare ostile e a sottoporsi nuovamente «all’ingombrante ed esigente tutela del fratello maggiore» (Capra, 2002, p. 270).
Dopo il fervore editoriale degli anni milanesi, mentre Beccaria si trovava all’apice della gloria e Pietro Verri assumeva la doppia carica di consigliere del Supremo Consiglio di economia e di rappresentante regio nella Ferma generale, Alessandro si ritirò nell’ombra, dedicando tutta la propria esistenza allo studio. Il giovane pubblicista, alla ricerca, dopo l’esperienza collettiva dei Pugni, della propria strada e della propria autonomia, al turbinio degli impieghi pubblici preferì la tranquillità delle biblioteche. Più che di ozio e di «disimpegno» (Cerruti, 1969, p. 19), il primo quindicennio romano di Verri fu un periodo fervido, contraddistinto dal dilettantismo culturale e dallo sperimentalismo letterario, come documenta lo spoglio delle numerose cartelle conservate nell’Archivio Verri. In un primo tempo tradusse in prosa Omero (Iliade, 1770-71, pubblicata a Roma nel 1789) e William Shakespeare (Hamlet, 1768-1777, e Otello, 1777: AV, 491), «due meravigliosi modelli e fonti perenni d’ogni poesia» (Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di E. Greppi et al., 1910-42, IX, p. 265); poi, tra il 1778 e il 1782, compose non meno di cinque tragedie: Pantea e La congiura di Milano (pubblicate a Livorno nel 1779 sotto il titolo Tentativi drammatici), Arria (perduta), La morte di Giovanni Doria (AV, 495.1) e Galeazzo Maria Sforza (Milano, Biblioteca Braidense, AG.XI.49ter). Nel 1781 pubblicò a Roma Le avventure di Saffo, poetessa di Mitilene, traduzione romanzesca del mito ovidiano, che al culto della bellezza classica associava ambientazioni notturne d’inspirazione burkiana. Il tragico destino di Saffo, indotta al suicidio dall’amore infelice per Faone e dalla vendetta inesorabile di Venere, offriva lo spunto per una meditazione sulla forza delle passioni, sulla dolorosa aspirazione dell’individuo all’infinito, in cui riecheggiavano la crisi dell’ottimismo razionalistico dei lumi e l’imminente romanticismo. Il vasto successo riscosso dalle Avventure di Saffo in Italia (ventidue ristampe tra il 1783 e il 1830) convinse Verri, ormai consapevole del proprio talento letterario, di proseguire lungo la via del romanzo archeologico: abbozzò così tre capitoli di un «Progetto di Romanzo morale e filosofico», Navigazione d’ingegno a caso (AV, 496.2), incentrato sulle vicende di un guerriero medo, Artaferne, e dell’amata Glicistoma.
Definito da Alessandro «un esperimento di trovar qualche vena nello stile» (ibid., c. 59v), il testo dava voce a quelle riflessioni sul rapporto tra storia, memoria e dimenticanza che costituiscono il filo conduttore della produzione verriana dalla Storia d’Italia alla Vita di Erostrato, l’ultimo romanzo pubblicato nel 1815. Dalla coscienza preleopardiana di un’esistenza individuale e collettiva destinata a perdersi «nella perpetua notte del silenzio» (ibid.) sorgeva un’amarezza temperata soltanto dalla volontaria rassegnazione all’oblio e dalla rinuncia alle facoltà intellettive della ragione – «facoltà insieme fastidiosa, ed infedele che esercita fuor di tempo molesti uffici» (c. 23v). Saffo e, più tardi, Erostrato non erano personaggi moderni, spinti dalla volontà di cambiare la società; la loro ribellione, priva di qualsiasi forma di eroismo sociale, sfociava in un sacrificio improduttivo, entrambi incapaci di superare la contingenza storica per ridare un senso al presente. Allo stesso modo, la tragica vicenda di Montano, il tirannicida de La congiura di Milano, illustrava il progressivo ripiegarsi dell’autore su posizioni di circospetta difesa dell’ordine costituito monarchico-cattolico: «Ancor se Galeazzo / fu Prence non pietoso, voi morendo, / stolta ribellione a maggior danno / esponete la Patria che pur tanto / vi vantate d’amar. Son le congiure / Sovente più crudeli che i tiranni / E sempre sventurate», concludeva il ministro Simonetti alla fine dell’atto V (Tentativi drammatici, Livorno 1779, p. 87).
Verri, che già a Parigi, nel gennaio del 1767, aveva definito le discussioni degli enciclopedisti «un mare di parole e di sragionamenti» (Viaggio a Parigi, cit., p. 247), prendeva ora definitivamente le distanze dai lumi intesi come strumento di formazione dell’opinione pubblica e del cittadino costituito giudice dell’azione politica. Ai suoi personaggi non erano concessi né la libertà né i diritti fondamentali propugnati dai moderni teorici del contratto sociale, ovvero il diritto di disubbidire e di deporre il sovrano ingiusto che ne avesse violato le norme : «Dico ch’è pessimo cittadino chi tranquillamente insegna che ogni privato è giudice del suo sovrano», scriveva Verri nel Caffè (Di Carneade e di Grozio, in Il Caffè, cit., p. 717). Negli anni in cui Gabriel Bonnot de Mably, Paul Heinri Dietrich, barone d’Holbach, Claude-Adrien Helvétius o Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet, elaboravano una nuova etica, fondata sulla nozione di cittadinanza e su nuove forme di sociabilità che avversavano la divisione della società in ordini e che avrebbero nutrito il discorso giacobino sulla virtù repubblicana, Verri impose una rigorosa separazione tra il campo della morale e quello della politica. Mosso dalla paura del ‘volgo’, esortò a tenere a bada la sensibilità e le passioni popolari, pronte a battersi contro il «sempre minacciato ordine sociale» (La vita di Erostrato, 1994, p. 93): «Chi conosce la storia si contenta anche solo dell’assenza de’ mali», affermava in conclusione del Saggio sulla storia d’Italia (cit., p. 316), ricalcando una massima formulata nel Saggio di morale cristiana (AV, 484.3, p. 110) e ripresa nel Caffè («Egli è assistere ad una tragedia l’essere spettatore del genere umano; e v’è chi disse assai ragionevolmente che la storia degli uomini è la storia de’ loro delitti», Pensieri scritti da un buon uomo, in Il Caffè, cit., p. 191). Solo una morale capace di inibirne le pulsioni omicide era in grado di garantire il rispetto degli «argini» a tutela del fragile equilibrio della collettività umana.
Abbandonato il progetto della Navigazione, Verri mise mano nel 1782 alla sua opera più celebre, le Notti romane al sepolcro de’ Scipioni. Il tema del romanzo gli era stato suggerito dalla scoperta, nel 1780, del sepolcro degli Scipioni lungo la via Appia.
L’opera, che ebbe una larga diffusione in Europa, con traduzioni in otto lingue e più di cento ristampe fra il 1792 e il 1886, era costituita da una serie di conversazioni di argomento storico e morale, ambientate in una duplice cornice, sepolcrale e notturna: nel primo tomo (1792) il narratore, addentratosi nell’antico ipogeo, immaginava le ombre degli illustri Romani a colloquio intorno alle tombe scipioniche; nel secondo tomo (1804), invece, egli stesso le guidava, al chiaro di luna, per i colli e i rioni della città a confrontare l’antica e la moderna Roma. Il romanzo, che offriva una sintesi della cultura antiquaria del tempo e della letteratura apologetica cattolica, si risolveva in un’esaltazione della Roma pontificia e dei valori perenni del cristianesimo: l’ombra di Cicerone esultava alla visione della patria, vedendola «fiorire eterna, quasi mezzo perpetuo scelto dalla providenza del cielo ad eseguire le più maravigliose vicende della terra» (Le notti romane, 1967, p. 273). Il romanzo si chiudeva nella speranza di una renovatio legata alla diffusione della fede, contrapposta alle violenze della Roma antica, che andavano lette come una proiezione dei disordini e degli orrori dell’età rivoluzionaria e napoleonica.
Il fascino delle rovine e la meditazione sui «tristi segni della umana caducità» (ibid., p. 5) lasciarono il posto, negli ultimi scritti privati di Verri (due lunghe cronache della storia del tempo presente: Vicende memorabili dal 1789 al 1801, edite postume nel 1858, e la loro prosecuzione manoscritta, Lotta dell’Impero col sacerdozio, composta tra il 1814 e il 1816), all’espressione di uno straripante misogallismo e di un odio inestinguibile per la Rivoluzione francese e Napoleone, «flagello della chiesa» (AV, 501.2, c. 17r) e «mostro divoratore» di Sant’Elena (ibid., c. 48r), esacerbati dall’esperienza traumatica della Repubblica Romana (1798-99). L’atteggiamento di Alessandro non era certo isolato nella cultura italiana del tempo, ma era ormai agli antipodi rispetto alle posizioni di Pietro, che aveva manifestato un’adesione piena «alle idee di uguaglianza, di libertà e di sovranità popolare» (Capra, 2002, p. 560) e delineato nei suoi ultimi scritti un programma politico repubblicano e costituzionale per l’Italia. Alessandro, che aveva teorizzato la disuguaglianza tra gli uomini fin dal giovanile Saggio di morale cristiana («Se gli uomini potessero essere eguali senza anarchia, non sarebbe giusto che si introducesse alcuna diseguaglianza fra loro; ma dove il bene della maggior parte esigga chi comandi e chi obbidisca, con certi patti fatti da esseri liberi, ivi è giusto che la diseguaglianza s’introduca»: AV, 484.3, p. 77), giudicando con sospetto gli strumenti offerti dalla filosofia per l’emancipazione intellettuale dei popoli, ritenne che la storia del Settecento gli avesse dato ragione.
Morì a Roma il 23 settembre 1816 e fu sepolto nella basilica di S. Carlo al Corso, con la minor pompa possibile, secondo le sue volontà.
Opere. Vicende memorabili dal 1789 al 1801, narrate da Alessandro Verri, Milano 1858; Le notti romane, a cura di R. Negri, Bari 1967; Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene, a cura di A. Cottignoli, Roma 1991; La vita di Erostrato, Milano 1994; «Il Caffè», 1764-1766, a cura di G. Francioni - S. Romagnoli, Torino 1998; Saggio sulla storia d’Italia, a cura di B. Scalvini, Roma 2001. Si veda anche: illuminismolombardo.it, portale diretto da G. Francioni, Università di Pavia/Fondazione Mattioli. Per quanto concerne il versante epistolare: Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri dal 1766 al 1797, a cura di E. Greppi et al., I-XII, Milano 1910-1942; Viaggio a Parigi e Londra (1766-1767), a cura di G. Gaspari, Milano 1980; Lettere a Vincenza Melzi d’Eril, 1794-1816. Edizione e saggio di commento, a cura di S. Rosini, tesi di dottorato, Pavia 1998; Carteggio di Pietro e Alessandro Verri (1782- 1792), a cura di M.G. di Renzo Villata, VII, Roma 2012; Carteggio di Pietro e Alessandro Verri (1792-1797), a cura di S. Rosini, Roma 2008.
Fonti e Bibl.: Milano, Archivio Verri, presso la Fondazione Raffaele Mattioli per la storia del pensiero economico, Università degli Studi di Milano.
M. Cerruti, Neoclassici e giacobini, Milano 1969, pp. 17-114; G. Ricuperati, L’epistolario dei fratelli Verri, in Nuove idee e nuova arte nel ’700 italiano. Atti del Convegno internazionale,... 1975, Roma 1977, pp. 239-281; F. Cicoira, A. V.: sperimentazione e autocensura, Bologna 1982; S. Luzzatto, L’illuminismo impossibile. A. V. fra Rivoluzione e Restaurazione, in Rivista di letteratura italiana, III (1985), pp. 263-290; C. Beccaria, Brevi riflessioni intorno al Codice generale sopra i delitti e le pene, in Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, IX, Milano 1998, p. 490; G. Panizza - B. Costa, L’Archivio Verri. Parte seconda. La Raccolta verriana, Milano 2000; C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna 2002; P. Verri, Memorie sincere, in Edizione nazionale delle opere di Pietro Verri, V, Roma 2003, pp. 17-152; B. Anglani, Il dissotto delle carte. Sociabilità, sentimenti e politica tra i Verri e Beccaria, Milano 2004; P. Musitelli, Le Flambeau et les ombres. A. V., des Lumières à la Restauration (1741-1816), Roma 2016; Id., Défendre et protéger les prisonniers à Milan au temps de Beccaria: l’expérience d’A. V., in Le bonheur du plus grand nombre. Beccaria et les Lumières, a cura di P. Audegean et al., Lione 2017, pp. 79-93.