Vellutello, Alessandro
Letterato lucchese attivo a Venezia nella prima metà del Cinquecento.
Ignote le date di nascita e di morte; il padre Matteo era nato nel 1457; il figlio Labieno morì a Venezia nel 1576; la famiglia apparteneva al patriziato di Lucca.
La presenza del V. a Venezia è documentata già nel 1516, ma solo nel 1525 egli vi si trasferì stabilmente, fuggendo da Milano, dove prima risiedeva, a causa della guerra conclusa nel febbraio di quell'anno dalla battaglia di Pavia. A Venezia nell'agosto del 1525 pubblicò il suo commento petrarchesco, dedicandolo al patrizio lucchese Martino Bernardin. Questa dedica prova che i rapporti del V. con la sua città ancora erano stretti. Tali rimasero, come risulta dal suo intervento nell'edizione della commedia I tre tiranni del suo concittadino Agostino Ricchi, Venezia 1533. In quest'anno anche uscì a Venezia per sua cura un'edizione delle opere di Virgilio. Frattanto il commento petrarchesco già era stato ristampato due volte ed era sicuramente avviato a un successo editoriale fra i maggiori di quell'età.
Il commento dantesco apparve a Venezia per i tipi di Francesco Marcolini nel giugno del 1544. La dedica al papa Paolo III dimostra che al V. non faceva difetto la consapevolezza di essersi guadagnato una durevole fama con l'uno e l'altro commento ai due maggiori poeti italiani. La dedica stessa dimostra la sua inabilità di scrittore, a livello di sintassi nonché di stile, e quanto egli fosse rimasto stranamente incurante delle regole e delle scelte che negli ultimi vent'anni si erano imposte a chiunque facesse professione di scrivere. A giro di pagina, rivolgendosi senza complimenti né scrupoli di eleganza ai lettori, e in seguito nel commento, il V. si ritrova a suo agio, e scrive in modo semplice e rude ma sufficiente allo scopo.
Nell'avvertenza ai lettori subito colpisce, per una violenza di linguaggio eccezionale a Venezia in quell'età, la ribellione del V. contro la dittatura letteraria del veneziano e per di più cardinale Pietro Bembo, non nominato ma in modo trasparente accusato di aver a suo tempo fornito ad Aldo Manuzio testi corrotti del Petrarca e di Dante.
Che la ribellione del V. mirasse al di là della questione testuale e investisse l'indirizzo letterario propugnato dal Bembo risulta chiaro anche dal commento dantesco, per es. dalla sprezzante allusione in Pg XXVI 119-120 ai " nostri moderni poeti, i quali sotto nome di imitazione e d'andar per le vie d'esso Petrarca l'hanno già tanto denudato che non gli è rimaso pur una camicia rotta da potersi coprire " . Ma il V. era cosciente dei suoi limiti e deciso a non lasciarsi irretire in questioni letterarie e di stile. Così per D., come già per il Petrarca, e a maggior ragione, egli si preoccupava solo di chiarire che cosa il poeta avesse inteso dire. Non era lieve compito per uno che, al termine del suo commento, modestamente si riconosceva " d'ogni scientia, d'ogni facundia, d'ogni ornamento e arte voto " e che confessava " non solamente non haver penetrato a le medolle, ma né anchora dentro da la scorza, quanto in molti luoghi haveria fatto di bisogno " . Non soltanto il V. escludeva dal suo compito le questioni letterarie e di stile, ma anche quelle che emergessero dal contenuto dottrinale e storico. Non era affare suo discutere se D. avesse avuto ragione o torto. Eccezionali sono nel commento le digressioni. Sistematica è la stretta subordinazione del commento al testo, dell'umile e irresponsabile interprete al grande poeta. Era nelle condizioni di allora, e non soltanto di allora, un'umiltà difficile, sorretta da una non comune fermezza e industria. Ribelle al Bembo e alle tendenze prevalse nell'età sua, il V. non trovava conforto neppure nel prossimo passato: il suo commento dantesco mirava a sostituire quello del Landino, che aveva tenuto senza contrasto il campo negli ultimi cinquant'anni e che solo da ultimo aveva dato segni di stanchezza. Il V. non era meno avverso all'entusiastica sopraffazione perpetrata dal Landino sul testo di D., di quanto fosse all'atteggiamento critico del Bembo.
Da buon lucchese, egli guardava a Firenze con assoluto distacco: non si sentiva partecipe di quella tradizione linguistica e letteraria, e amava in D. anche il poeta ribelle alla tradizione municipale. Commentando in If XXXIII l'invettiva contro i Genovesi, osservava che questi " agevolmente li perdoneranno, havendo fatto il simile contra de la propria patria, dove prese licentia di poter dire di tutte l'altre " . Conseguentemente si guardava bene dal reagire per quel che era detto di Lucca in If XXI. Una qualche riserva si permetteva per la condanna di Alessio Interminelli in If XVIII, ma ivi stesso con tutt'altro tono reagiva alla Vita di Castruccio del Machiavelli. Una delle rare digressioni è in Pg XXIV dedicata a ribattere da parte lucchese e pisana il vanto di preminenza del dialetto fiorentino.
Contro il Landino e contro il Machiavelli, il V. si faceva forte per D. e per sé della dottrina linguistica esposta nel De vulg. Eloquentia. La lingua comunque non era, né poteva essere, il suo forte, se non in quanto egli possedeva una buona conoscenza del francese e con ciò, fin da quando aveva commentato il Petrarca, si era procurato una qualche informazione, eccezionale allora, degli antichi testi provenzali. Superiore in ciò al predecessore Landino, restava però inferiore all'attesa e alle parziali conquiste della nuova filologia, perché il suo disinteresse letterario gli aveva precluso la corrispondente ed essenziale conoscenza degli antichi testi italiani. Prevalente era in lui l'interesse storico. Rifiutando la parzialità fiorentina del Landino, egli però seppe riconoscere nel Villani, ancora inedito, lo strumento necessario e sufficiente per l'illustrazione storica della Commedia. A paragone dei riscontri e riferimenti letterari, scarsi e oziosi (di regola il Petrarca; una volta, If VII, ed è riscontro curioso, il Morgante del Pulci; in Pg XIII l'elogio del contemporaneo A. Piccolomini), i riferimenti a fonti storiche, non soltanto fiorentine (lo pseudo Pietro Gerardo per Padova in If XII; Agostino Giustiniani per Genova in Pd IX; i cronisti francesi in Pg XX) rivelano un'informazione vivace e larga, eccezionale allora.
Per quanto era della dottrina teologica, filosofica e scientifica di D., il V., applicando la sua regola di un'assoluta subordinazione del commento al testo, riuscì a liberare questo dall'ingombro delle stravaganti questioni e digressioni predilette dal Landino, e così riuscì, attenendosi alle fonti veramente essenziali, a colpire qualche volta nel segno, ma altrettante volte s'illuse che la subordinazione a lume di semplice buon senso bastasse. Nell'insieme il suo modesto e pedestre commento rappresenta una tappa importante nella storia degli studi danteschi: per la prima volta la Commedia appariva avulsa dal contesto di una letteratura viva, che in essa venisse ricercando conferma e stimolo alla propria vita, e si offriva nella sua remota altezza allo studio di uomini che in essa semplicemente cercavano un'evasione e un'educazione intellettuale. Il successo del commento non fu, né poteva essere, grande, com'era stato quello del precedente commento petrarchesco. Significativo è che, usufruito e ristampato in Francia (Lione 1551), in Italia riapparisse solo nel 1564 intrecciato con quello del Landino. Maggiore fortuna del resto che non quella del successivo e antagonistico commento di B. Daniello. Il V. non riuscì a sopraffare il Landino, ma riuscì con lui a riemergere solo, e a far paragone di una divergente, in parte opposta interpretazione, nel momento conclusivo della storia rinascimentale di Dante.
Bibl. - E.A. Cicogna, Inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, 95-100; VI, ibid. 1953, 819-820. Per altri dati bio-bibliografici e per il commento dantesco: M. Barbi, Della fortuna di D. nel sec. XVI, Pisa 1890; S. Debenedetti, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino 1911; A. Vallone, La linea esegetica Benvenuto, Landino, V., in Atti del congresso internaz. studi danteschi, II, Firenze 1966, 283-305; E. Bigi, La tradizione esegetica della Commedia nel Cinquecento, in Atti del convegno di studi su aspetti e problemi della critica dantesca, Roma 1967, 29-32.