TURAMINI, Alessandro
– Nacque da Emilio di Crescenzio, presumibilmente non prima del 1554, né dopo il 1558. In precedenza, infatti, non compare tra i battezzati della sua famiglia, che apparteneva all’aristocrazia senese e si era arricchita svolgendo attività mercantile e bancaria prevalentemente tra Siena e Roma.
Nel periodo dal 1554 al 1560 non si hanno notizie sui battesimi e i matrimoni dei Turamini, che durante la guerra di Siena si dispersero tra Montalcino e altre località ignote, e quindi non si può essere certi che madre di Alessandro fosse Laura figlia di Anton Maria Jesi da Monte San Savino, della quale si sa soltanto che nel 1587 era vedova di Emilio. Allorché i Turamini vennero coinvolti negli eventi bellici, lo stesso Emilio, poco più che ventenne, fu protagonista di una drammatica vicenda: mentre, infatti, dimorava nella sua villa di Belcaro a poche miglia di distanza da Siena, il 24 febbraio 1554 fu catturato dai nemici e condotto dinanzi a Gian Giacomo de’ Medici, marchese di Marignano, che lo interrogò con scarso profitto, fissò il prezzo del suo riscatto in 700 scudi d’oro e pose nella villa dei Turamini il suo quartier generale per tutta la durata dell’assedio. Di Emilio si perdono le tracce fino al 4 marzo 1560, allorché, terminata la guerra di Siena, ritornò in possesso di Belcaro e lo divise con il fratello Cristofano.
Non si conosce, peraltro, l’età di Alessandro neppure quando, tra il 1576 e il 1579, frequentò l’Università di Siena dedicandosi agli studi giuridici. Certo è che il 24 giugno 1579 si laureò in diritto civile, avendo, tra i numerosi promotori, Girolamo Benvoglienti, che avrebbe citato sempre come suo maestro, e Celso Bargagli. A questa data non poteva avere meno di vent’anni e, comunque, già godeva di molta stima, poiché in ottobre fu subito incaricato di insegnare le istituzioni di diritto civile per l’anno accademico 1579-80, con lo stipendio annuo di 25 fiorini.
Nel 1580, durante il bimestre luglio-agosto, fece parte del Concistoro di Siena in rappresentanza del monte dei Gentiluomini e del terziere di Città, e nell’ottobre dello stesso anno passò a tenere il corso universitario di diritto civile straordinario di sera, retribuito con 35 fiorini, che conservò fino all’anno accademico 1582-83, dopodiché negli anni accademici 1583-84 e 1584-85 impartì l’insegnamento di diritto civile straordinario di mattina, sempre con lo stesso stipendio. Nel medesimo tempo proseguì gli studi giuridici e il 10 dicembre 1585 si addottorò anche in diritto canonico, sempre nell’Università di Siena «nemine penitus discrepante» (Siena, Archivio arcivescovile, 6441, c. 104r). Pertanto, come risulta dal ruolo dei lettori per l’anno accademico 1585-86, avrebbe dovuto tenere il corso di diritto canonico ordinario di sera, ma chiese e ottenne dal granduca di essere spostato sulla cattedra di diritto civile ordinario di mattina, che equivaleva a una promozione.
Le relazioni che Turamini instaurò tra il 1585 e il 1586 con autorevoli esponenti della Curia di papa Sisto V, come il cardinale Decio Azzolini, segretario del pontefice, e l’abate Anton Maria Graziani, segretario delle lettere latine, dovettero agevolare il suo trasferimento alla Sapienza di Roma, presso la quale fu chiamato a ricoprire la cattedra di diritto civile per l’anno accademico 1586-87. D’altra parte, le cattive condizioni di salute lo costrinsero, poco tempo dopo, a fare ritorno in patria, dove il 27 gennaio 1588 sposò Penelope di Niccolò Docci, patrizio senese e giureconsulto, che gli portò in dote 2000 scudi. Intanto, dall’anno accademico 1588-89 riprese l’insegnamento di diritto civile nel patrio ateneo, ma passando al corso ordinario di sera, che tenne dapprima con la retribuzione di 55 fiorini, per poi ottenere, nell’anno accademico 1589-90, l’aumento a 100 fiorini.
Nel luglio del 1590, essendo stato nominato uditore della Rota fiorentina dal granduca Ferdinando I de’ Medici, lasciò definitivamente l’Università di Siena, mentre nel novembre dello stesso anno pubblicò a Firenze, con il titolo Ad rubricam Pandectarum de legibus libri tres et in eiusdem tituli leges commentarii e con dedica allo stesso granduca, il frutto delle sue lezioni senesi, un’opera di notevole spessore problematico nella quale, pur senza rifiutare i principi elaborati dalla giurisprudenza medievale, si avvaleva ampiamente della produzione filologica e storico-giuridica contemporanea e, avvertendo l’esigenza di riflettere sulla stretta connessione esistente tra il diritto naturale e la morale e di valutare gli effetti delle condizioni ambientali entro le quali il diritto di ciascun popolo si evolvesse, contribuì ad aprire nuovi orizzonti speculativi alla scienza giuridica del suo tempo.
L’attività di magistrato rotale non lo appassionava, perché ben presto ritornò alla docenza universitaria con allettanti prospettive: chiamato, infatti, a insegnare a Napoli il 30 agosto 1592, nel dicembre dello stesso anno ottenne di potervisi stabilire con «sua consorte, famiglia et robbe» (Cannavale, 1895, n. 2408) e il 30 giugno 1593 gli fu assegnata la cattedra di diritto civile de sero che era stata ricoperta sino a quell’anno da Giacomo Gallo, con lo stipendio annuo di 800 ducati.
Nel periodo di oltre un decennio, nel corso del quale insegnò nell’ateneo napoletano, Turamini diede alle stampe altri scritti di contenuto romanistico e civilistico, continuando ad applicare un metodo che risultò assai proficuo, in quanto dettato da istanze culturali di valutazione critica delle fonti, ma finalizzato anche a esigenze di carattere pratico, giacché consisteva, da un lato, nell’esporre con chiarezza e sobrietà le dottrine del diritto comune utilizzando la Glossa accursiana e i principali commentatori, ma senza fare uso eccessivo di citazioni e, d’altro lato, nel sottoporre a un’accurata analisi filologica i testi giustinianei, ricorrendo alle opere dei classici latini e a quelle prodotte dai primi giuristi umanisti e dai ‘culti’ francesi.
Durante il soggiorno partenopeo Turamini continuò a coltivare i suoi interessi letterari, tanto che gli venne attribuita la fondazione di un’Accademia, detta dei Rinforzati: certo è che scrisse orazioni (in morte di re Filippo II di Spagna), sonetti (in morte di Torquato Tasso) e altri componimenti poetici in italiano (L’Annunziata e la favola boscareccia Sileno) e che auspicava si componessero poesie in latino senza fare uso della metrica quantitativa. Nello stesso tempo restava in contatto con gli ambienti culturali senesi, tanto da essere accolto nella rifondata Accademia degli Intronati con l’appellativo di Arguto. Infine, trovandosi a Napoli, continuava a scrivere al granduca di Toscana per informarlo, come un qualsiasi agente, su fatti accaduti nel Regno di cui fosse venuto a conoscenza.
Sul finire del XVI secolo Turamini non intendeva più insegnare a Napoli, come si può evincere dal suo carteggio con Roberto Titi, professore di umanità nello Studio di Bologna: nel giugno del 1599, infatti, manifestò al collega il desiderio di trasferirsi a Padova, dove era venuto a mancare Guido Panciroli, e lo pregò di sondare le opinioni al riguardo di scolari e docenti patavini. Il tentativo non riuscì, ma qualche tempo dopo, il 13 ottobre 1602, Turamini ottenne di essere chiamato alla «prima cattedra di leggi» nell’Università di Ferrara «con scudi mille di salario e scudi duecento pel viaggio da intraprendersi» (Savioli, 1995). Non è certo che vi si trasferisse immediatamente, ma è sicuro che il 5 novembre 1603 tenne nello Studio ferrarese la prolusione al proprio corso di diritto civile, nella quale formulò importanti considerazioni di metodo ed espresse tutta la sua ammirazione per le opere dei culti francesi e dei giuristi romani dell’età classica. Da Ferrara, inoltre, il 13 aprile 1604, scrisse al cardinale Roberto Bellarmino, che conosceva da tempo, per informarlo sull’elaborazione di un trattato in materia di cambi che stava redigendo in italiano allo scopo di impedire interpretazioni errate, data la delicatezza della materia e le finalità pratiche della trattazione.
Nel febbraio del 1605 Turamini insegnava ancora a Ferrara, ma nell’estate dello stesso anno, mentre trascorreva le vacanze a Siena, lo colse la morte prima dell’inizio di settembre.
I numerosi scritti giuridici che si apprestava a raccogliere in un’edizione complessiva, furono pubblicati nel 1606 a Venezia dal suo parente Virginio Turamini, anch’egli giurista e letterato. Tra quei lavori non figurava il trattato sul cambio, che, tuttavia, dopo oltre un secolo e mezzo sarebbe stato inserito nell’Opera omnia, contenente altri inediti, data alle stampe a Siena nel 1769 e 1770, in un clima culturale assai propenso a valorizzare il suo ruolo di precursore della scienza giuridica dell’età moderna.
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