TREMIGNON, Alessandro
– Non si conosce la data di nascita del padovano Tremignon, figlio di Domenico, e nulla è dato sapere sulla madre (Bassi, 1962, pp. 233, 265). Esercitò la professione di scalpellino e di architetto tra la seconda metà del Seicento e i primi anni del Settecento, periodo in cui rinunciò per anzianità alla carica di proto della famiglia Corner di San Cassiano (1700), per la quale era impegnato a ricostruire il palazzo sul Canal Grande, e dettò il testamento (1711; Temanza, 1738, 1963, p. 28; Bassi, 1962, pp. 264 s.; Ead., 1976, pp. 166, 206). Se «proto e tagliapietra di questa città [Venezia] in contrà di S. Benedetto» è la definizione che lo qualifica nel contratto del 28 giugno 1674 per il tabernacolo di S. Giustina a Padova (Bresciani Alvarez, 1961, pp. 68, 75), il 2 giugno 1677 egli sarebbe stato nominato «proto dei mureri della casa dell’Arsenal» (Girardi, 1990, pp. 111, 124).
Capolavoro di Tremignon, tra i più originali prospetti tardobarocchi di Venezia, la facciata di S. Moisè, eretta nel 1668 grazie ai cospicui lasciti dei fratelli Vincenzo (30.000 ducati) e Girolamo Fini (60.000 ducati), che pretesero di esservi effigiati e chiesero al capitolo della chiesa di collocarvi «qualche adornamento di considerazione in onor del Signor Iddio», disponendo inoltre che essa venisse costruita in «pietra viva» d’Istria (ibid., pp. 101, 111, 119-121). Il coinvolgimento dell’architetto in questo sontuoso cantiere edilizio, una facciata sacra a uso privato tesa a celebrare l’ascesa al patriziato di una famiglia di mercanti di origine cretese (Gaier, 2002, pp. 322-334, 533-540, n. 22), si spiega anche con l’intervento in suo favore del fratello Andrea Tremignon, parroco di S. Moisè (Temanza, 1738, 1963, p. 29; Bassi, 1962, p. 233; Franzoi - Di Stefano, 1976, p. 320). Considerata alla metà dell’Ottocento da Pietro Selvatico il «culmine d’ogni architettonica follia, sregolatezza di una meschina mente a cui manca l’ingegno della distribuzione e dell’armonia nelle parti» (Girardi, 1990, pp. 101 s.), giudicata «la più eccentrica architettura veneziana del ’600» (Semenzato, 1951-1952, p. 141), essa testimonia una maniera lontana dallo stile del presunto maestro di Tremignon, Baldassarre Longhena, le cui facciate esibiscono sempre un vivace colorismo, ma al contempo solide caratteristiche strutturali, il che non si può affermare per la facciata di S. Moisè: essa infatti, come è stato osservato, presenta «elementi decorativi diversi dal consueto semplice impiego degli ordini», ma che appaiono non coordinati tra loro e «semplicemente appoggiati alla parete, con funzione unicamente coloristica», a tal punto che è stata ipotizzata una formazione dell’architetto a contatto con il Barocco leccese (pp. 141 s.). La suddivisione della facciata in due ordini, uno schema all’epoca poco utilizzato a Venezia a causa della notevole influenza che ancora esercitava l’edilizia sacra di Andrea Palladio, ha consentito di attenuare l’altezza del corpo della chiesa e di conferire un senso di armoniosa proporzione al prospetto, su cui l’architetto ha potuto dare «libero sfogo alla sua fantasia inventando composizioni scultoree a tutto tondo e a bassorilievo senza perdere di vista un certo schema generale che dal basso verso l’alto e dal centro ai lati acquista un ritmo più composto con alcune campiture meno rilevate, fino alla liscia superficie del timpano che accoglie il grande stemma della famiglia Fini» (Franzoi - Di Stefano, 1976, p. 321). In S. Moisè spettano inoltre alla progettazione di Tremignon sia l’altare dedicato alla Natività di Maria Vergine, commissionatogli nel settembre del 1670 dalla Scuola della Beata Vergine (o Confraternita dei Ciechi) ed eseguito da Giovanni Biffi entro il 1671, sia l’altar maggiore, eretto tra il 1685 e il 1688 (Girardi, 1990, p. 101; Gaier, 2002, p. 534).
Di poco successivo alla facciata di S. Moisè, posto che ne venga confermata la piena autografia, è il giardino della villa Barbarigo a Valsanzibio (Padova). Commissionato nel 1669 dal procuratore Andrea Barbarigo, esso ospita il cosiddetto tempio di Diana – che di fatto costituisce l’ingresso al giardino – e molte sculture a tema mitologico del tedesco Heinrich Meyring (Enrico Merengo), autore delle statue dell’altar maggiore di S. Moisè (Semenzato, 1975; Girardi, 1990, p. 102). Agli anni 1671-74 risalgono l’altar maggiore del duomo di Chioggia e il tabernacolo dell’altar maggiore del duomo di Spilimbergo (Bassi, 1962, pp. 234, 265; Goi, 1976, pp. 85 s., doc. II). Uno stile più asciutto e severo rispetto al magniloquente tripudio decorativo della facciata di S. Moisè caratterizza altre opere lagunari quali il palazzo Flangini Fini sul Canal Grande (1688) e il completamento del convento di S. Giorgio dei Greci (1691), iniziato da Longhena. Ricordato come sua opera in un’incisione di Luca Carlevarijs (1703), il palazzo Flangini Fini è stato attribuito a Tremignon anche perché la famiglia Fini aveva commissionato all’architetto la facciata di S. Moisè (Bassi, 1982, pp. 125 s.). Nella sobria facciata d’acqua, come è stato scritto, l’architetto appare «piuttosto tradizionale, e sembra ancora legato agli insegnamenti dei trattatisti, ed, in modo particolare, allo Scamozzi» (Bassi, 1976, p. 86). Pur se di dubbia autografia – in un’altra stampa di Carlevarijs (1703) esso è ascritto all’altrimenti poco noto Andrea Cominelli – e contrassegnato da uno stile longheniano, possiede però qualche spunto tipico di Tremignon anche il palazzo Labia a S. Geremia, la cui facciata di terra ha strette affinità con il palazzo Flangini Fini e il cui ampliamento verso il campo è dovuto al figlio Paolo, di cui si hanno notizie dal 1684 al 1750 (ibid., p. 206).
Oltre ad aver fornito nel 1681 una perizia per l’ampliamento delle fondamenta e per la nuova pavimentazione antistante alla basilica di S. Maria della Salute (Bassi, 1962, pp. 236, 265), Tremignon progettò a Venezia la facciata di S. Nicolò al Lido, commissionatagli nel 1683 dall’abate Pietro Sagredo e non priva di richiami al celebre modello palladiano di S. Giorgio Maggiore, e quella di S. Tomà, ispirata alla facciata sul campo di S. Maria Formosa, ma ben presto demolita e ricostruita nel 1742 (ibid., pp. 180, 185; Gaier, 2010, pp. 71, 73). In collaborazione con il figlio Paolo realizzò l’altar maggiore e i due altari laterali del santuario di Castelmonte (Cividale), rispettivamente nel 1684 e nel 1688, anno in cui fu incaricato di fornire una perizia per S. Moisè (Girardi, 1990, pp. 111, 124), mentre datano al 1699 il suo restauro del monastero dei Ss. Marco e Andrea a Murano e al 1704 la stima delle pietre lavorate da Marino Groppelli e Giovan Battista Viviani per l’altar maggiore del santuario di S. Maria di Barbana nella laguna di Grado (Bassi, 1962, p. 265; Goi, 1976, p. 85).
Reminiscenze di S. Moisè si riscontrano nel palazzo dei Vescovi di Belluno, in parte influenzato dal vicino palazzo comunale riccamente ornato. Di questo edificio, ma anche del seminario dei Chierici e della villa del Belvedere, opere già attribuite a Tremignon (Semenzato, 1951-1952) e infine assegnate al figlio Paolo (Bassi, 1962, p. 264), ha lasciato una preziosa testimonianza il canonico Scipione Orzesio nel suo manoscritto sulla vita del vescovo Giovanni Francesco Bembo (Semenzato, 1951-1952, pp. 143, 147 s., nota 5). I tre edifici furono completati nei primi anni del XVIII secolo, come confermano le date incise in alcune epigrafi: nel 1707 il palazzo dei Vescovi, nel 1718 il seminario dei Chierici e tra questi due estremi cronologici la villa del Belvedere, la seconda opera citata nel manoscritto di Orzesio (ibid., p. 143). Spicca per qualità, tra le tre costruzioni, la facciata del palazzo dei Vescovi, pur ampiamente rimaneggiato dopo il terremoto del 1873, caratterizzata da un fastoso portale che riecheggia la maniera di S. Moisè (p. 145).
Come documenta lo Zibaldon di Tommaso Temanza (1738, 1963), ben informato sugli artisti e sugli architetti attivi a Venezia nei primi decenni del XVIII secolo, Tremignon morì nel 1711 (p. 28).
Fonti e Bibl.: T. Temanza, Zibaldon (1738), a cura di N. Ivanoff, Venezia-Roma 1963, pp. 28 s.; C. Semenzato, L’architetto A. T. e le sue opere a Belluno, in Atti e memorie dell’Accademia Patavina di scienze, lettere ed arti, n.s., LXIV (1951-1952), pp. 140-148; G. Bresciani Alvarez, L’opera del Bedogni, del Sardi e del T. nell’altare del Santissimo della chiesa di S. Giustina in Padova, in Bollettino del Museo civico di Padova, L (1961), pp. 59-80; E. Bassi, Architettura del Sei e Settecento a Venezia, Napoli 1962, pp. 233 s., 264 s.; C. Semenzato, Una proposta per il giardino di Valsanzibio, in Arte veneta, XXIX (1975), pp. 219-223; E. Bassi, Palazzi di Venezia. «Admiranda urbis Venetae», Venezia 1976, pp. 86, 166, 206; U. Franzoi - D. Di Stefano, Le chiese di Venezia, Venezia 1976, pp. 320 s.; P. Goi, Opere poco note o ignorate di Giuseppe Torretti, Matteo Calderoni, A. T., in Arte in Friuli. Arte a Trieste, II (1976), pp. 83-90; E. Bassi, Tre palazzi veneti della Regione, Venezia 1982, pp. 125-204; G. Girardi, San Moisè Profeta a Venezia: da un impianto bizantino all’attuale configurazione ad aula unica, in Bollettino d’arte, s. 6, LXXV (1990), 59, pp. 97-124; M. Gaier, Facciate sacre a scopo profano. Venezia e la politica dei monumenti dal Quattrocento al Settecento, Venezia 2002, pp. 71, 73, 322-334, 533-540; Id., La fortuna di Palladio a Venezia fra Sei e Settecento: le facciate delle chiese, in Architettura delle facciate: le chiese di Palladio a Venezia. Nuovi rilievi, storia, materiali, a cura di M. Borgherini - A. Guerra - P. Modesti, Venezia 2010, pp. 59-81.