TORLONIA, Alessandro Raffaele
TORLONIA, Alessandro Raffaele. – Nacque a Roma il 1° gennaio 1800, figlio quartogenito del banchiere Giovanni Raimondo (v. la voce in questo Dizionario) e di Anna Maria Schultheiss. Prima di lui erano nati Marino (1795-1865), Maria Teresa (1797-1842), Carlo (1798-1847); dopo Alessandro nacque Maria Luisa (1804-1883).
I giovani Torlonia crebbero in una fase di decisa ascesa economica e sociale della famiglia, che, pur di recente nobilitazione, acquisì un posto di primario rilievo nell’ambito della società romana di inizio Ottocento: una socialità fastosa e grandi committenze artistiche erano il segno tangibile del ricchissimo patrimonio mobiliare e immobiliare accumulato da Giovanni Torlonia grazie all’attività bancaria e ad abili investimenti. I figli ricevettero quindi un’educazione di tipo aristocratico, con i maschi affidati a precettori e prestigiosi collegi; in particolare la formazione di Alessandro fu arricchita da soggiorni all’estero, che rappresentarono preziose occasioni per conoscere altre realtà, economicamente più avanzate e culturalmente più aperte, oltreché per instaurare promettenti rapporti con eminenti personalità di ambienti politici e finanziari internazionali. Le corrispondenze stilate durante quelle esperienze rivelano altresì tratti della personalità di Alessandro: la sua ambizione di essere maggiormente coinvolto dal padre nell’attività bancaria; l’energica determinazione e la sicurezza delle proprie capacità, che avrebbe poi manifestato nel corso della sua lunghissima attività di banchiere e imprenditore; una precoce capacità di osservazione e di intuizione politica; la sobrietà e la dedizione al lavoro che avrebbero caratterizzato stabilmente il suo stile di vita.
Nella seconda metà degli anni Venti, il padre riconobbe le sue capacità e lo individuò come erede titolare del suo Banco; stabilì per lui un fedecommesso, definito seconda primogenitura, disponendo una controversa successione che avrebbe inaugurato durevoli rivalità tra Alessandro e il fratello primogenito Marino. Ad Alessandro era già stata assegnata, a titolo di prelegato, la villa fuori Porta Pia, cui egli avrebbe in seguito impresso tutta la sua attenzione per l’arte. Con il citato testamento, che confermò la sua designazione a titolare del Banco, ereditò, tra altri beni, il feudo di Civitella Cesi con il connesso titolo principesco; i possedimenti di Capodimonte, Marta e Bisenzio; il marchesato legato alla tenuta di Roma Vecchia; i due palazzi vicini di piazza Ss. Apostoli e di piazza Venezia.
Il primogenito Marino, pur erede anch’egli di consistenti beni e titoli, avanzò pretese su più cospicue assegnazioni in denaro e più ampi possedimenti immobiliari; il contrasto fu risolto solo grazie alla generosa mediazione del fratello Carlo, il quale cedette a Marino una quota importante dei propri beni. La vicenda getta luce su caratteri e dinamiche familiari. Da un lato emerge il rapporto conflittuale fra il primogenito e Alessandro, che si consumò anche in iniziative d’affari che li videro su fronti contrapposti; in particolare Marino partecipò ad alcune gare per appalti fiscali in concorrenza con Alessandro; inoltre, si dedicò a fruttuosi investimenti immobiliari nel settore dell’edilizia residenziale d’affitto, dimostrando maggiori capacità negli affari di quante gliene venissero comunemente riconosciute. Dall’altro lato, la vicenda ereditaria mise in evidenza la figura di Carlo e il suo profondo legame con Alessandro. Pur mantenendo lo stato laicale, Carlo manifestò una sensibilità religiosa che lo indusse ad allontanarsi dagli interessi materiali; la sua spiritualità lo spinse a un’esistenza ritirata, tutta dedita alle opere benefiche e assistenziali, che dopo la sua morte furono proseguite dal fratello Alessandro, il quale nutrì verso di lui un affetto protettivo.
Alla morte del padre, nel 1829, Alessandro si trovò quindi alla guida del Banco. Con il suo operato smentì schemi di lettura secondo i quali – in un’impresa familiare – la seconda generazione finisce per attuare indirizzi gestionali sostanzialmente conservativi, perché il profitto non rappresenta più una via per il successo aziendale bensì il mezzo per conservare la posizione sociale della famiglia. Pur inserendosi nel solco delle attività già avviate, Alessandro seppe infatti lanciare una nuova incisiva strategia di espansione e di internazionalizzazione del Banco, che fu dotato di una coerente struttura operativa. Mentre consolidava il proprio ruolo nella gestione, egli specificò compiti e responsabilità; emanò un nuovo regolamento relativo al funzionamento del Banco e alle modalità di concessione del credito alla clientela, che comprendeva, accanto alle famiglie nobili, un folto gruppo di commercianti ed esponenti delle professioni liberali.
Nel 1831 Alessandro Torlonia si trovò direttamente coinvolto nella fase di grave dissesto delle finanze pontificie. A causa del crescente malcontento delle popolazioni locali, nei primi mesi dell’anno le provincie settentrionali dello Stato pontificio furono sconvolte da un’insurrezione, che fu repressa dall’intervento delle truppe austriache, controbilanciato l’anno successivo dall’arrivo di truppe francesi. I moti ebbero gravissime ripercussioni sulle finanze pubbliche. Il bilancio dello Stato registrò un fortissimo aumento delle spese per il ristabilimento dell’ordine interno: oltre ai costi di esercito, polizia, tribunali e servizi segreti, ingenti conferimenti furono versati ai due eserciti stranieri di occupazione, rimasti sino al 1838. Al tempo stesso, in quel clima politico esasperato, la flessione delle attività economiche e la difficoltà di esigere i tributi provocarono una drastica riduzione delle entrate fiscali, dirette e indirette. Ingenti uscite da un lato ed entrate in marcato calo dall’altro determinarono quindi un colossale deficit del bilancio statale, che non si poté coprire con strumenti ordinari.
In quel contesto Torlonia seppe cogliere la sua grande occasione. Chiamato dal Tesoro pontificio a fornire la sua consulenza, mise in luce le disfunzioni dell’amministrazione finanziaria, partecipò alla riorganizzazione della gestione del debito pubblico e all’emissione di nuovi titoli, e ne sottoscrisse ben il 25%, riuscendo a coniugare i profitti con la tangibile dimostrazione di sostegno al pontefice. Alla ricerca di ulteriori proventi, il governo procedette poi all’alienazione di beni della Reverenda Camera apostolica e al rinnovo degli appalti fiscali; anche in questa operazione Torlonia giocò un ruolo di rilievo e riuscì ad assicurarsi il contratto d’appalto per l’importante amministrazione cointeressata del monopolio dei sali e tabacchi.
Ma le risorse così reperite si rivelarono ancora insufficienti per far fronte all’enorme disavanzo pubblico accumulato dal governo pontificio. Si profilò l’esigenza di misure straordinarie. Torlonia suggerì al tesoriere generale di lanciare un grande prestito redimibile sui mercati finanziari stranieri. Era una strategia finanziaria audace, che richiedeva di individuare un operatore pienamente affidabile su una delle piazze europee; dopo diversi sondaggi presso case bancarie tedesche, inglesi e belghe, Torlonia entrò in contatto con la Maison Rothschild di Parigi, una delle maggiori case bancarie del tempo: al termine di laboriosi negoziati, stipulò a nome del governo romano un contratto per un ingente prestito di 3 milioni di scudi, coperto dall’emissione di titoli del Tesoro pontificio da quotare alla Borsa di Parigi. L’operazione sollevò vivaci discussioni su diversi aspetti: la novità della manovra; le condizioni piuttosto onerose, dovute alla critica valutazione dell’affidabilità finanziaria dello Stato pontificio; l’identità di ebreo del banchiere Charles de Rothschild.
Per Torlonia quella strategia finanziaria si rivelò decisiva, perché il suo Banco gestì la metà di quelle emissioni di debito pubblico, conseguendo amplissimi utili. Al tempo stesso, nonostante le critiche, l’operazione consolidò il suo prestigio presso la Curia e la sua posizione di primissimo piano nella società romana; ugualmente, gli consentì di stabilire una partnership d’affari con Rothschild, accrescendo la proiezione internazionale del Banco. Egli divenne, negli anni successivi, un banchiere di statura europea, con un enorme patrimonio e una solida reputazione, che esercitava una forte capacità attrattiva nei confronti della clientela.
Nel quindicennio successivo partecipò ad altri prestiti al Tesoro romano in cooperazione con Rothschild e procedette, nel contempo, a una diversificazione delle proprie iniziative, che andarono dall’esercizio di sostanziosi appalti fiscali (sali e tabacchi, macinato, dazi doganali ecc. nello Stato pontificio e nel Regno delle Due Sicilie) alla gestione di un ricco portafoglio di titoli esteri (titoli pubblici, ferrovie, canali ecc.), alla partecipazione ad attività produttive di beni e servizi. Molto rilevanti furono anche gli investimenti per l’ampliamento e lo sviluppo del suo patrimonio fondiario, che amministrò con criteri imprenditoriali, realizzando bonifiche e infrastrutture, razionalizzazione produttiva, colture e allevamenti innovativi.
Forte di questi successi, nei decenni centrali del secolo Torlonia si dedicò al rafforzamento del proprio status nobiliare. Nel 1840 sposò la giovanissima principessa Teresa Colonna (1823-1875), appartenente alla più antica nobiltà romana; solo dopo molti anni di matrimonio la coppia ebbe due figlie: Anna Maria (1855-1901) e Giovanna Giacinta Carolina (1856-1875). Insieme alla principessa, il banchiere occupò la scena cittadina con sfarzosi ricevimenti nelle loro sontuose residenze, che ospitavano le opere d’arte acquisite attraverso una munifica azione di mecenate e collezionista. Riunì infatti intorno a sé un cenacolo di artisti tra cui figuravano nomi importanti dell’Ottocento. Grande fu anche la sua attenzione per i reperti archeologici, spesso ottenuti con scavi realizzati nelle sue tenute (tra cui Roma Vecchia, Porto, Vulci, con la notissima tomba etrusca François); negli anni Sessanta acquistò la collezione Albani di arte classica, in tal modo arricchendo quella che oggi è ritenuta una delle più importanti collezioni private mondiali di antichità classica.
Nei medesimi decenni finanziò altresì la costruzione e la decorazione di alcuni teatri, tra cui l’Argentina, dove nella seconda metà degli anni Quaranta furono allestite significative esecuzioni verdiane, che rivelavano la sua sensibilità alle istanze risorgimentali.
A partire dagli anni Cinquanta, tramontate le aspettative di un pontificato riformatore, egli mostrò, infatti, un progressivo allontanamento dal governo papale. Influirono pure i contrasti con il segretario di Stato, Giacomo Antonelli, e con il fratello di questo, Filippo, governatore della Banca dello Stato pontificio, protagonisti di affari non pienamente trasparenti, facilitati dal grande potere politico ed economico accumulato. Torlonia non partecipò alle nuove operazioni finanziarie lanciate dal governo pontificio per procacciarsi nuove risorse finanziarie e guardò con interesse al processo di unificazione italiana.
Nel 1863 compì la scelta cruciale di chiudere il Banco. Le motivazioni vanno ricercate non tanto nel relativo ridimensionamento degli utili, quanto nella mancanza di un erede maschio, particolarmente sentita da un banchiere che aveva mantenuto il modello del family business. L’assillo della successione e le sventure familiari (la malattia della moglie e della seconda figlia, che lo indussero a un doloroso ripiegamento nella vita privata) sono dunque elementi primari per comprendere la decisione di chiudere il Banco.
Si deve inoltre ricordare che in quella fase Torlonia si dedicò alla titanica e controversa impresa della bonifica del lago Fucino, in Abruzzo, che assorbì per oltre venti anni (dal 1856 al 1878) il suo energico impegno e i suoi capitali. Oltre a investirvi una quota molto consistente del suo enorme patrimonio – in parte smobilizzato dal Banco –, egli seguì personalmente le diverse fasi dei lavori e, assecondando una sua particolare propensione, si interessò puntualmente anche degli aspetti tecnici. In riconoscimento dell’impresa compiuta, nel 1875 fu insignito dal re Vittorio Emanuele II del titolo di principe del Fucino.
Solo ai primi degli anni Settanta dell’Ottocento riuscì a predisporre una prospettiva di continuità del proprio casato. Dopo avere ipotizzato diverse soluzioni per il matrimonio della figlia Anna Maria, concluse un accordo nuziale con Giulio Borghese (1847-1914), quartogenito del principe Marcantonio; il promesso sposo dovette impegnarsi ad abbandonare il proprio cognome per assumere quello di Torlonia con i titoli connessi. Il matrimonio fu celebrato nell’ottobre del 1872.
Morì a Roma il 7 febbraio 1886.
Fonti e Bibl.: La documentazione principale è raccolta nell’Archivio Torlonia, conservato a Roma presso l’Archivio centrale dello Stato; altra documentazione originale importante è conservata presso l’Archivio di Stato di Roma e l’Archivio segreto Vaticano. Fondamentale la documentazione degli Archives Rothschild, consultabili presso gli Archives nationales de France.
H. von Hülfen, Torlonia ‘Krösus von Rom’. Geschichte zweier Geldfürsten, München 1940; D. Felisini, Le finanze pontificie e i Rothschild 1830-1870, Napoli 1990, ad ind.; Villa Torlonia: l’ultima impresa del mecenatismo romano, a cura di A. Campitelli, Roma 1997, ad ind.; D. Felisini, «Quel capitalista per ricchezza principalissimo». A. T. principe, banchiere imprenditore nell’Ottocento romano, Soveria Mannelli 2004; Ead., A. T. The pope’s banker, London 2016; Ead., Far from the passive property. An entrepreneurial landowner in the nineteenth century papal State, in Business history, April 2019, pp. 1-13.