PENNA, Alessandro
PENNA, Alessandro (Sandro). – Primogenito di Armando, commerciante, e di Angela Antonione Satta originaria di Cori, nel Lazio, nacque a Perugia il 12 giugno 1906.
Il padre gestiva un emporio in via Mazzini, nel centro di Perugia. Al momento della nascita la famiglia risiedeva in una casa di via Mattioli, ma durante la sua fanciullezza Penna seguì i genitori in diverse abitazioni, l’ultima delle quali in via Vermiglioli, dove rimase fino al 1927. Nel 1907 era nato il fratello Beniamino e nel 1913 la sorella Elda.
Per le sue condizioni di salute, segnate da frequenti bronchiti, Penna iniziò il suo percorso scolastico soltanto nel 1914, a otto anni; compiuti gli studi dell’obbligo, fu iscritto all’Istituto tecnico commerciale Vittorio Emanuele II, dove si diplomò ragioniere nel 1925. Il primo episodio rilevante della sua vita fu la separazione dei genitori, avvenuta nel 1920, in seguito alla quale la madre decise di trasferirsi a Pesaro con la piccola Elda, quindi a Roma. Penna e il fratello rimasero invece affidati alle cure del padre e della zia Bice, sorella della madre.
L’allontanamento della figura materna dovette configurarsi come un vero e proprio trauma per il giovane Penna. Egli ne lasciò testimonianza nei primi scritti conservati e rinvenuti nella sua casa romana dopo la sua morte, che costituiscono con altre carte l’archivio del poeta.
Si tratta della sua prima poesia, intitolata Alla mia cara madre sull’imbrunire, densa di toni malinconici e crepuscolari, risalente al 22 aprile 1922; vi si avvertono echi di letture ancora scolastiche, che tuttavia non stemperano la sincerità dell’ispirazione e l’espressione del dolore. Alcuni mesi dopo, il 26 luglio, Penna avviò un diario, interrotto dopo poche pagine che si configurano come un «esame di coscienza». È una precoce testimonianza di come Penna, nel pieno dell’adolescenza, fosse già portato all’analisi introspettiva, alla riflessione costante sulle sue qualità umane e sui suoi dati caratteriali.
Al termine di ogni anno scolastico Penna si recava nelle Marche per le vacanze estive, dalla madre e dalla sorella a Porto San Giorgio, dove strinse amicizia con Acruto Vitali, di poco maggiore d’età. Il carteggio con Vitali attesta una fitta trama di rimandi letterari, di consigli di lettura, di liste di autori che divennero per i due amici la base di un lungo sodalizio. Vitali fece conoscere a Penna la più recente letteratura francese, primi fra tutti Marcel Proust e i simbolisti. Gli anni tra il 1925 e il 1928 furono per Penna densi di letture di spessore europeo; dividendosi tra Perugia, dove aiutò il padre nella gestione del negozio, e Roma, dove raggiungeva la madre, non trascurò la propria formazione e si accostò ad autori di area germanica come Friedrich Hölderlin e Friedrich Nietzsche, anglofona come Oscar Wilde ed Edgar Allan Poe, francese come Charles Baudelaire, René Crevel, Paul Valéry.
Il 1928 fu un anno fondamentale nel percorso formativo e creativo di Penna. Una lettera a Vitali del 13 febbraio testimonia il procedere delle sue letture: l’Estetica di Benedetto Croce, Jack London e autori d’Oltralpe come Maurice Barrès, Charle Augustin de Sainte-Beuve, André Gide, Léon Bloy, Philippe Soupault, letti direttamente in francese. Nella notte del 24 agosto, sulla spiaggia di Porto San Giorgio, scrisse quella che volle e indicò come la sua prima vera poesia, La vita… è ricordarsi di un risveglio.
Rientrato a Perugia, in settembre assistette a una conferenza di Filippo Tommaso Marinetti, e ne ebbe un tale impatto da sentirsi sempre più deciso a scavare nella sua originalità «con forza, futuristicamente». In particolare, l’immagine del treno, così frequente nei suoi versi proprio a partire da quella poesia posta in apertura dell’intera sua opera, risulta tanto come mutuazione da Giosue Carducci, quanto come suggestione avanguardistica, per quanto la scrittura di Penna si sia configurata, nel suo complesso, su un versante più lirico e tradizionale.
Tale impronta ha spesso ricondotto i lettori, anche i più autorevoli, a una matrice ispirativa prettamente italiana («un fiore senza gambo visibile», scrisse tra gli altri Piero Bigongiari, in S. P.: per una sistemazione poetica intergenerazionale, in Id., Poesia italiana del Novecento, II, Milano 1980, p. 434), di fatto trascurando o non cogliendo quell’insieme di allusioni, citazioni esplicite o indirette che rimandavano a un contesto più ampio, già nei testi che cominciarono a circolare in rivista nei primi anni Trenta. Ancora Cesare Garboli, nella prefazione alla più recente edizione delle Poesie (Milano 1989), insisteva nel considerare Penna come ancorato «alla tradizione da scenderne giù come le pecore dai tratturi» (n. X).
Fu nel 1929 che Penna si riaccostò alla letteratura italiana coeva; quello fu anche il suo ultimo anno nella città natale. Le letture di quei mesi compresero perlopiù la nuova narrativa di quegli anni: Alberto Moravia, Giovanni Comisso, Mario Soldati, Corrado Alvaro, ma con uno sguardo anche al passato più prossimo e di marca ancora sperimentale (Corrado Govoni, Fausto Maria Martini, Pier Maria Rosso di San Secondo). Con il peggiorare degli affari del padre, la madre per un breve periodo rientrò a Perugia, ma l’insorgere di vecchie e nuove incomprensioni provocarono il definitivo distacco. In ottobre Penna e sua madre presero la strada di Roma insieme ai fratelli. Anche la zia nel frattempo si era trasferita nella capitale e gli procurò il primo incarico lavorativo come contabile. Intanto le sue letture andavano estendendosi ad André Gide e, tra gli italiani, a Vincenzo Cardarelli, ricomprendendo autori come Giacomo Leopardi, Arthur Rimbaud e Gabriele D’Annunzio, senza risparmiare critiche agli «oscuri turiboli» (C’è ora nel mio cuore convalescente, già del 1926-27) della tradizione simbolista.
Con lo pseudonimo gidiano di Lafcadio, ispirato al personaggio de I sotterranei del Vaticano (1914), Penna riprese i suoi diari e le sue introspezioni. Come Lafcadio aveva rappresentato per Gide desideri e aspirazioni di un’identità mai pienamente raggiunta, ma segnata da scissioni e ambiguità, perennemente in bilico tra convenzioni borghesi e tendenze estetizzanti, così Penna avvertì nell’oscillazione i valori della sua cultura, le pulsioni su cui cominciava a interrogarsi e le provocazioni che potevano provenirgli dal retaggio ormai vasto delle sue frequentazioni letterarie.
Con ogni probabilità fu proprio la volontà di sciogliere questo groviglio interiore a dirigerlo verso alcune possibili figure di riferimento, prima fra tutte quella di Umberto Saba, al quale scrisse, spedendo alcune poesie, sotto lo pseudonimo di Bino Antonione, fusione tra doppiezza e cognome materno. La risposta di Saba fu in parte elogiativa e comunque incoraggiante, ma non fu seguita da una replica di Penna; il quale, nel corso del 1930, fu impiegato come contabile presso la ditta edile Leoni.
Rimasto impressionato dalla lettura di Sigmund Freud, Penna decise di sottoporsi a terapia psicoanalitica presso Edoardo Weiss, triestino e allievo diretto di Freud. Tra i suoi pazienti Weiss annoverava proprio Saba e, nell’ottobre 1932, rese possibile l’incontro fra i due poeti in un caffè di piazza Barberini. Saba s’apprestava a tornare a Trieste ma, quando Penna, esitante, accennò ai versi della poesia Nel fresco orinatoio alla stazione, Saba vide nel giovane che gli era davanti l’autore che aveva già imparato a conoscere e ad apprezzare e rimandò la partenza.
L’incontro con Saba fu determinante per l’ingresso di Penna nel mondo letterario degli anni Trenta. Del loro lungo rapporto, non privo di qualche ombra specie negli anni del dopoguerra e fino alla morte di Saba, resta un breve, ma denso carteggio, purtroppo privo delle missive penniane. Il poeta più anziano ebbe nei confronti del più giovane un atteggiamento di paternità letteraria e di ampia disponibilità umana. Anche il rapporto intertestuale tra i due poeti, sul piano delle immagini e del lessico, è fitto di prestiti e mutazioni, soprattutto da parte di Penna nella prima fase; in seguito l’allievo avrebbe dichiarato di avere a sua volta influenzato il maestro nella forma, a partire dalla raccolta Parole (1934). Con Saba, in effetti, si chiude il possibile asse dei riferimenti penniani alla tradizione lirica italiana, lungo la linea che era già stata di Petrarca e Leopardi e che giunge a comprendere la triade D’Annunzio-Carducci-Pascoli. Saba fu in realtà il gradiente con cui Penna poté misurare, nei propri versi, il peso delle sue frequentazioni germaniche fin qui attestate, in un sistema in cui poesia e psicoanalisi, filosofia e letteratura avevano dimostrato di poter fertilmente dialogare.
L’interesse di Saba per la poesia di Penna è testimoniato dal grado di partecipazione alle vicende che provocarono l’esordio del giovane poeta. Saba si preoccupò di introdurlo nella complessa geografia letteraria di quegli anni e di metterlo in contatto con i gruppi poetici che gravitavano intorno alle riviste, da Roma a Genova, da Firenze a Trieste a Milano. Scrisse ad Adriano Grande e a Corrado Pavolini, sollecitando la collaborazione di Penna ai periodici che dirigevano. Il 20 novembre 1932, sulla prima pagina, L’Italia letteraria pubblicò La vita… è ricordarsi di un risveglio e Sotto il cielo di aprile la mia pace: di lì a breve le maggiori riviste letterarie, come Circoli e Solaria, avrebbero accolto altre poesie. Nel giorno del suo esordio Penna si trovava a Firenze, dove al caffè delle Giubbe rosse conobbe Aldo Palazzeschi, Marino Moretti, Carlo Betocchi, Cesare Pavese. In casa del critico d’arte Matteo Marangoni fu presentato a Eugenio Montale, destinato a divenire un referente irrinunciabile quanto e forse più di Saba. Rientrato a Roma, Penna frequentò abitualmente la redazione dell’Italia letteraria dove incontrava Giuseppe Ungaretti, Enrico Falqui, Alfredo Gargiulo. Da Trieste Saba avviò il progetto di una prima raccolta di poesie penniane, offrendo la sua esperienza nell’allestimento del libro.
L’amicizia con Montale nacque e si condusse quasi in parallelo rispetto a quella con Saba, anche se ebbe una durata più breve, come attesta l’epistolario. Denso di interlocuzioni nei primissimi anni Trenta, il sodalizio divenne più rarefatto nella seconda metà di quel decennio, interrompendosi all’altezza del 1938-39, quando Montale ridusse notevolmente le sue risposte e la sua intromissione nella carriera poetica del suo corrispondente.
Nella prima parte del loro carteggio Montale si dimostra particolarmente suggestionato dalla lettura dei versi penniani, li commenta molto favorevolmente e si dichiara disponibile a occuparsi delle poesie dell’amico, fin quando insorse il problema della censura su alcune tematiche: la persistente presenza della figura del fanciullo e l’omosessualità. Versi molto più innocenti di quelli di Penna, nel caso di Lavorare stanca di Pavese, avevano provocato l’intervento del censore di Firenze. Per questo timore il progetto presso Solaria decadde e da quel momento Montale cessò di occuparsi dell’esordio di Penna.
Sempre in cerca di una sistemazione economica soddisfacente, Penna lavorò dapprima presso un allibratore di corse ippiche, quindi decise di lasciare Roma. Si recò a Milano, poi a Trieste, dove rimase buona parte dell’inverno del 1937-38, grazie a un impiego procuratogli da Linuccia Saba. Del soggiorno triestino presso la famiglia Saba testimoniano le prose, pubblicate in rivista negli anni Quaranta, Due Venezie e I due poeti, raccolte nel volume Un po’ di febbre (Milano 1973). Perso anche l’impiego triestino, Penna si trasferì a Milano, dove lavorò, grazie all’intervento di Sergio Solmi, come correttore di bozze per l’editore Bompiani.
Dei mesi a Milano restano cenni in alcune poesie (Era il paese della luce d’oro) e in alcune prose, come Aspetti di Milano e Serata milanese, anche queste accolte in Un po’ di febbre.
Il periodo milanese si rivelò cruciale per l’esordio in volume di Penna. Perduto l’interesse di Montale e trascurato quello di Saba, Penna trovò in Solmi e in Giansiro Ferrata nuovi e attenti estimatori, disposti ad adoperarsi sia per l’allestimento del volume sia per trovare un nuovo editore. Conclusa l’esperienza di Solaria, il nuovo periodico letterario di riferimento a Firenze era divenuto Letteratura, diretto da Alessandro Bonsanti: e a lui i due giovani critici si rivolsero per la pubblicazione, nella collana della rivista pubblicata dai fratelli Parenti, delle poesie di Penna.
Nel luglio del 1938 Penna fece ritorno per breve tempo a Roma; la famiglia si era trasferita in via della Mole dei Fiorentini, dove il poeta rimase poi fino alla morte. Ad agosto tornò a Milano, dove poté impiegarsi come commesso presso la libreria Hoepli. Intanto gli ambienti letterari più vicini all’ermetismo cominciarono a interessarsi a lui, che collaborò a riviste come Corrente e Campo di Marte.
Finalmente, nel giugno del 1939, i fratelli Parenti pubblicarono Poesie (Firenze), con un ritratto dell’autore di Gabriele Mucchi. Il volumetto, stampato in trecento copie, fu accolto con favore da lettori di diversa estrazione e lo stesso Solmi ne dette anticipazione su Circoli nel numero di gennaio; all’uscita del libro non tardarono le reazioni positive, fra cui quelle di Luciano Anceschi, Lanfranco Caretti, Ruggero Jacobbi. Crebbero le collaborazioni di Penna ai periodici: poesie e prose furono pubblicate in Frontespizio, L’Ambrosiano, Oggi.
Ad agosto, lasciata Milano, e dopo una breve sosta a Torino e a Genova, riprese definitivamente la strada di Roma. Negli anni successivi, privo di un lavoro stabile, Penna si dedicò al commercio di libri antichi e rari. I suoi spostamenti dalla capitale, benché poco frequenti, sono testimoniati da alcune pagine dei diari e dalle prose di Un po’ di febbre: Viaggio in Ciociaria, Sud. Al momento dell’entrata in guerra si trovava in Sicilia, dove si era spinto dopo aver visitato Napoli. Negli anni della guerra visse dei più diversi commerci, compresi cibi e vestiari. Legato da amicizia a Moravia, a Elsa Morante, a Natalia Ginzburg, con quest’ultima progettò una nuova raccolta di poesie, mai realizzata, per Einaudi. Nel 1943, anno in cui morì il padre, Pavese gli commissionò per Einaudi la traduzione di Carmen e altri racconti di Prosper Mérimée. In quello stesso anno Penna tornò brevemente a Perugia, lasciando di quell’esperienza pagine di diario di trasognata nostalgia dominate da un senso di estraneità.
Gli anni Quaranta furono per Penna un decennio segnato da ulteriori collaborazioni editoriali (come la traduzione di Présence et prophétie di Paul Claudel, commissionatagli da Roberto Bazlen per le edizioni di Adriano Olivetti nel 1947) e culminato, nel 1950, con la pubblicazione del secondo libro, Appunti, voluto ancora da Bazlen per le Edizioni della Meridiana, a Milano. La reazione dei lettori, questa volta, fu più tiepida, nonostante gli interventi di Bigongiari e di Pier Paolo Pasolini.
L’ultimo ventennio della vita di Penna non fu caratterizzato da eventi particolari. Visse stabilmente a Roma mantenendo rapporti con vari artisti e intellettuali. In particolare il mondo dell’arte – e della pittura che andava affermandosi tra gli anni Cinquanta e Sessanta – fu molto interessato a lui, soprattutto la ‘scuola di piazza del Popolo’: Tano Festa, Franco Angeli, Mario Schifano. Quest’ultimo incluse un ampio ritratto di Penna nel filmato Umano non umano (1969). Nel 1955 l’editore De Luca aveva pubblicato una prosa di Penna, Arrivo al mare, accompagnata da cinque acqueforti di Renzo Vespignani. Il sostegno degli artisti non gli venne mai meno, e prese a dedicarsi fattivamente al commercio di opere d’arte. Nel 1955, nelle edizioni di Vanni Scheiwiller, che rimase il suo editore prediletto, apparve un libro minuscolo di poesie, Una strana gioia di vivere (Milano), e lo stesso editore, negli anni Settanta, pubblicò due cartelle con poesie penniane accompagnate da incisioni di Cristiana Isoleri. Solo nel 1957, per diretto interessamento di Pasolini, che di Penna aveva fatto un vero culto, Garzanti pubblicò il volume riepilogativo delle Poesie, con ampie sezioni di testi inediti e dispersi. Il libro, sostenuto da Ungaretti e da Giacomo Debenedetti, fu insignito quello stesso anno, in una contrastata edizione, del premio Viareggio condividendolo con Alberto Mondadori e con Pasolini. Il libro incontrò nuovi ed efficaci interpreti in Giuseppe De Robertis, Pietro Citati, Alfredo Giuliani.
Il 1957 fu anche segnato dalla morte di Saba, e Penna scrisse in ricordo dell’amico la poesia La battaglia. L’anno dopo, per una nuova collana dell’editore Longanesi, Comisso chiese e ottenne di poter pubblicare altre poesie escluse dal volume garzantiano. Ne venne, per le cure di Nico Naldini, il volume Croce e delizia (Milano), apparso insieme ad Alibi di Elsa Morante e a L’usignolo della Chiesa Cattolica di Pasolini. Ulteriori estimatori, come Giuliano Gramigna e Garboli, entrarono nel novero dei lettori assidui dell’opera penniana.
Nel 1964 morì la madre. Nonostante il crescente interesse per la sua poesia, attestato dalle apparizioni su riviste anche di ambito sperimentale come il Verri e dalle prime traduzioni in Francia, in Arcadie e nel Mercure de France, Penna si isolò progressivamente, confinandosi entro le mura domestiche e tenendo le persiane chiuse per non lasciar entrare la luce del sole.
Nel 1970 Garzanti pubblicò, con un risvolto di Enzo Siciliano, un nuovo volume complessivo, Tutte le poesie (Milano), che ottenne il premio Fiuggi. Tre anni più tardi, ancora da Garzanti e curata da Giovanni Raboni, apparve la raccolta delle prose, Un po’ di febbre, insieme con un’antologia delle poesie, scelte dallo stesso Penna. Nel 1976, per le sollecitazioni e le cure di Garboli, Garzanti pubblicò il volume di poesie Stranezze, che vinse, nel gennaio del 1977, il premio Bagutta, ritirato da Garboli e dalla Ginzburg per le cattive condizioni di salute dell’autore.
La sera del 21 gennaio 1977 Penna fu trovato morto nella sua abitazione romana da Elio Pecora, che ne raccolse le carte e avviò la loro pubblicazione con la raccolta Confuso sogno (Milano 1980).
Pochi mesi prima di morire, Penna aveva affidato alle edizioni genovesi San Marco dei Giustiniani un gruppo di tredici poesie, conservate fino allora in previsione di un’edizione d’arte con Giacomo Manzù. Il volume apparve postumo con il titolo Il viaggiatore insonne, con un’acquaforte di Vespignani e due testimonianze di Raboni e Ginzburg.
Fonti e Bibl.: Oltre alla documentazione citata nel testo, E. Montale - S. Penna, Lettere e minute 1932-1938, introduzione di E. Pecora, a cura di R. Deidier, Milano 1995; U. Saba, Lettere a S. P. (1929-1940), a cura di R. Deidier, Milano 1997.
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