PALLANTIERI, Alessandro
PALLANTIERI, Alessandro. – Figlio di Achille, forse un notaio, nacque a Castel Bolognese nel 1505.
Ebbe almeno un fratello, Giorgio, e una sorella, Caterina, che sposò il chirurgo, e poi archiatra di Pio IV, Francesco Ginnasi, dal quale ebbe nel 1550 Domenico, il futuro cardinale.
Secondo Fantuzzi, avrebbe fatto studi umanistici con Giovanni Antonio Flaminio durante l’insegnamento impartito in forma privata al figlio del nobile bolognese Gaspare Fantuzzi, Alfonso (tra il 1520 e il 1522, almeno). A Bologna, comunque, si addottorò in utroque iure il 6 agosto 1533.
A questa data era probabilmente già sposato con una donna bolognese, Nobile (Arch. di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi, sec. XVI, b. 36, c. 4r), dalla quale ebbe Carlo, Pompeo, Cesare e Anna.
Tra il dicembre 1533 e il settembre 1534 fu avvocato fiscale in Romagna. Quindi fu nominato governatore di Cesena, incarico che esercitò sotto il presidente Bartolomeo Valori e il successore Gregorio Magalotti.
Nel 1535 Silvestro Aldobrandini, podestà (ovvero sostituto del vicelegato) di Fano, dovette lasciare la sede perché impegnato a Roma nella difesa del cardinale Benedetto Accolti e chiese a Pallantieri di sostituirlo fino all’arrivo del successore, Girolamo Recanati Capodiferro.
Nel 1536 – secondo quanto afferma Pallantieri (ibid., c. 61v), ma forse già nel tardo 1535 – passò a Perugia e, grazie agli uffici del futuro cardinal Uberto Gambara, protettore suo e del padre Achille, divenne uditore criminale del cardinale Marino Grimani, legato dell’Umbria. In questo arco di tempo fu processato per aver ricevuto di notte nella propria camera una detenuta: carcerato, fu messo in libertà entro pochi giorni.
Tornato a Roma, fu inviato – sempre a suo dire (ibid.) – governatore (forse piuttosto commissario) a Viterbo nell’attesa che fosse nominato alla carica un prelato, da identificare forse in Girolamo Barbarigo.
Nel 1536, comunque, si spostò ad Ascoli come luogotenente del governatore Benedetto De Nobili, deputato il 5 maggio. Nonostante le divergenze con il superiore che – a detta di Pallantieri – «voleva che io gli desse la metà del mio guadagno» (ibid., c. 62) e che, in ottobre, dopo soli sei mesi di incarico, fu posto a sindacato dalla Camera apostolica, accettò di proseguire nell’ufficio anche con il successore di De Nobili, Sforza Marescotti (incaricato nel 1537).
Dopo alcuni mesi, il legato della Marca, Gian Domenico de Cupis, lo volle suo uditore generale. Espletò l’incarico per tutta la legazione del cardinale, formalmente conclusa il 21 aprile 1539.
Ritornato a Roma, l’Auditor Camerae Pietro Paolo Parisio lo chiamò come luogotenente criminale. Divenuto cardinale Parisio (19 dicembre 1539), Pallantieri rimase al suo posto anche con il successore, Giovan Battista Cicada.
Cade in questo periodo il procedimento contro il vescovo di Pavia G. Girolamo de’ Rossi, convocato a Roma e arrestato nella seconda metà del 1539. Il 6 febbraio 1540 Pallantieri fu nominato amministratore della chiesa pavese, che avrebbe retto fino al 1544 con l’ausilio di due vicari. Cinque giorni più tardi fu incaricato del processo contro il vescovo per accertarne le responsabilità in due gravi episodi: il rapimento di Maddalena di San Severino, primogenita di Roberto Ambrogio, a opera di Giulio Cesare de’ Rossi, fratello del presule; l’uccisione del conte Alessandro Langosco, cui il vescovo nel 1534 aveva confiscato i beni per reati commessi nel feudo vescovile di Rozzasco. Svolse indagini a Pavia e a Milano per parecchi mesi.
Nel biennio 1542-43 fu governatore di Ascoli.
Pallantieri menziona diversi episodi del suo mandato, tra cui il proposito del consiglio cittadino di erigergli una statua – da accostare a quella di Paolo III – per festeggiare la restituzione di alcuni castelli cittadini (ibid., c. 404). Inoltre difese con argomenti giuridici e con una leva di uomini il confine sul Tronto dell’Ascolano, contestato dal lato abruzzese.
Nel febbraio 1547 fu inviato per conto di Paolo III a Ulm, presso la corte imperiale, dove giunse il 25, e il 28 fu ricevuto dall’imperatore. Si recò quindi in Fiandra, sempre per incarico del papa, dalla reggente Maria d’Asburgo, sorella di Carlo V, per trattare una questione relativa al commercio dell’allume pontificio, di cui era stato imposta la vendita in regime di monopolio con pregiudizio degli interessi della Camera Apostolica. Il viaggio durò circa nove-dieci mesi, secondo la ricostruzione di Pallantieri (ibid., cc. 62v, 361v-362), e ottenne l’approvazione del papa e del cardinale Alessandro Farnese, il quale avrebbe promesso a Pallantieri l’ambita carica di procuratore fiscale. La morte di Paolo III (10 novembre 1549), tuttavia, impedì la realizzazione del progetto.
Durante la sede vacante di Paolo III, fu nominato luogotenente in criminalibus et civilibus del governatore di Roma Filos Roverella. Proseguì nell’incarico, per la sola materia criminale, anche sotto Giulio III Ciocchi Del Monte, con i governatori Giovanni Michele Saraceno e G. Girolamo de’ Rossi (il vescovo di Pavia che Pallantieri aveva indagato nel 1540).
Il 31 gennaio 1552 fu nominato commissario generale della Camera apostolica. Quindi ottenne la posizione di prefetto dell’Annona.
Svolse anche missioni fuori Roma. Nel maggio 1551 andò a Ravenna per esaminare Aurelio Fregoso, signore di S. Agata e capitano al servizio di Enrico II e dei Farnese, che, arrestato dai pontifici, era nel frattempo evaso: pertanto fu incaricato di accertare le responsabilità nella fuga del vicelegato Salvatore Pacini e del capitano Cesare Rasponi. Nel 1553 fu inviato a Todi per indagare sulla morte di Angelo degli Atti e di due suoi figli, uccisi dal cognato Pietro Cesi il 3 luglio. Dell’influente uomo politico e arbitro della politica todina, Pallantieri era stato peraltro affittuario a Roma e compare.
Ricevette intanto proposte di incarichi dalla Repubblica di Genova, da parte spagnola per l’ufficio di capitano di Siena o nel Viceregno; meditò inoltre sulla possibilità di un seggio senatorio a Milano (ibid., cc. 363rv, 371). Rifiutò sempre, però, di lasciare il servizio del papa.
Il 3 luglio 1555 fu nominato infine procuratore fiscale da Paolo IV. Secondo voci che egli definì infondate, avrebbe versato per l’ufficio 4-5.000 scudi (ibid., c. 365).
In ragione della carica rivestita, Pallantieri svolse un ruolo di rilievo nella vicenda giudiziale più significativa del pontificato Carafa: il processo contro Ascanio e Marcantonio Colonna, Carlo V e Filippo II, che s’intrecciò alle vicende politico-militari della contrapposizione papale agli Asburgo.
Il 27 luglio 1556, in concistoro, presentò, infatti, una Protesta contro gli Asburgo, nella quale rivelava l’esistenza di una congiura a opera dei Colonna e del viceré di Napoli, Fernando Álvarez de Toledo, duca d’Alba, che concertavano di invadere i territori papali. Le imputazioni di tradimento e ribellione, che coinvolgevano anche l’imperatore e suo figlio, lo costringevano pertanto a vietare qualunque tipo di aiuto o soccorso agli imputati e a richiedere al papa che fossero dichiarati scomunicati e incorsi nel crimine di lesa maestà, privati dei loro domini e dell’obbedienza dei sudditi. Chiedeva infine che si costituisse un collegio di cardinali per valutare le prove raccolte e procedere contro gli imputati. Il 12 febbraio 1557 fu incluso nel collegio incaricato di formare il processo contro Carlo V e Filippo II e a questo fine in marzo esaminò testimoni per accertare che il re di Spagna fosse il mandante della guerra condotta contro lo Stato della Chiesa e in aprile presentò i risultati.
Nel frattempo, abbracciato il partito del duca di Paliano che, diversamente dal fratello cardinale Carlo Carafa, era fautore di una politica di rappacificazione con gli imperiali, assistette alla caduta di Silvestro Aldobrandini, l’influente consigliere giuridico del porporato e sostituto nelle funzioni di governo durante i mesi della legazione veneziana del suo padrone (marzo 1557).
All’indomani del trattato di Cave (12 settembre 1557), anche la sorte di Pallantieri precipitò.
Il 7 ottobre fu deposto dalla carica di procuratore fiscale e incarcerato in Castello; il 9 novembre fu tradotto in Tor di Nona con le accuse di aver commesso malversazioni nell’amministrazione dell’Annona, in particolare nelle tratte di grano dalle province laziali di Campagna e Marittima; di avere approfittato dei diversi incarichi rivestiti fin dal pontificato di Paolo III per arricchirsi illecitamente; di avere tenuto una condotta immorale. Sebbene vi fossero motivi politici dietro l’azione contro il fiscale, nondimeno essa trova senso anche alla luce del rigore impresso da Paolo IV alla politica annonaria e dei procedimenti contro esponenti della nobiltà e funzionari pontifici, primo di tutti Bartolomeo Camerario, intrapresi fin dal 1556 per punire abusi e speculazioni commessi nelle pratiche di rifornimento della capitale. Pallantieri, interrogato ripetutamente fino all’agosto 1558, respinse le accuse e dette conto del suo stato patrimoniale, giustificandolo almeno in parte con la pratica del gioco, a cui era stato iniziato dallo stesso Giulio III.
Fu liberato dalle carceri solo alla morte di Paolo IV (18 agosto 1559), e il 1° settembre il collegio cardinalizio lo inviò presso Paolo e Chiappino Vitelli perché desistessero dall’occupazione di Montone.
Il 19 gennaio 1560 fu assolto da Pio IV e reintegrato nella carica di procuratore fiscale il 27 marzo. In tale veste, affiancò il governatore Girolamo Federici nella conduzione del processo ai nipoti di Paolo IV.
Già in aprile consigliò il papa di emettere un ordine contro gli usurpatori dei beni ecclesiastici e fece istanza perché i due cardinali Carafa saldassero i propri debiti. Alla fine di maggio era impegnato nella ricerca di prove. In giugno condusse una serrata istruttoria, che costituì la base documentaria del motu proprio con cui il 1° luglio Pio IV presentò l’atto di accusa contro i Carafa e la composizione del collegio giudicante: Pallantieri avrebbe affiancato Federici come ausiliario, mentre agli interrogatori – condotti dai due ufficiali – avrebbero presenziato alcuni cardinali. Le imputazioni riguardavano il concorso nella morte della moglie di Giovanni Carafa, duca di Paliano, Violante Diaz-Garlon, e del suo preteso amante, Marcello Capece, di cui si sarebbero macchiati Carlo, Giovanni e il loro cognato, Ferrante d’Alife (l’esecutore materiale della uccisione della sorella); malversazioni e abusi compiuti dai due Carafa e dal nipote Alfonso, cardinale di Napoli; le responsabilità, soprattutto di Carlo, nell’aver indotto il papa alla guerra contro gli Spagnoli.
Il processo ebbe luogo tra il giugno 1560 e il marzo 1561, con una intenzionale risonanza atta a rendere palesi le sue finalità politiche. Lo stesso Pallantieri informava regolarmente, tra gli altri, il vescovo di Pistoia G.B. Ricasoli, che riferiva i progressi della vicenda giudiziale a Cosimo I. Il 15 gennaio 1561 il fiscale – che nel corso dei mesi precedenti era stato ripetutamente sollecitato dal papa a terminare il procedimento – dichiarò in concistoro conclusa l’istruttoria e il 3 marzo Federici lesse un sommario del processo che raccoglieva «ad arte estratti della documentazione acclusa agli atti e brani arbitrariamente espunti dalle deposizioni dei testi [e in tal modo] rendeva ancora più chiaro il disegno di addebitare ai soli Carafa gli oneri politici del pontificato dello zio» (Aubert, 1999, 46). Qualche giorno più tardi, Carlo e Giovanni furono giustiziati, mentre Alfonso fu graziato.
Il 26 aprile 1563 Pallantieri − che nel frattempo, in una data imprecisata ma successiva al 1558, aveva preso gli ordini − fu nominato governatore di Roma, carica che rivestì fino al 30 dicembre 1566.
In questa veste, emanò bandi riguardanti sia provvedimenti generali (1° maggio 1563; 15 gennaio 1566), sia aspetti specifici dell’amministrazione e del controllo dell’ordine pubblico. In particolare l’11 aprile 1564 promulgò, su mandato di Pio IV ma dietro sollecitazione dei congiunti Carlo Borromeo e Gabrio Serbelloni, il bando Sopra i libelli famosi che comminava la pena di morte e la confisca dei beni a chiunque scrivesse, contribuisse a scrivere e diffondere, leggesse o detenesse libelli infamanti, pasquinate, poesie diffamatorie e testi di analogo genere. Diresse, inoltre, l’intensa attività del tribunale. Il 19 febbraio 1564, all’indomani della morte di Michelangelo Buonarroti, procedette al sequestro dei suoi beni e, in particolare, acquisì i cartoni, trattenendone uno al momento di consegnare il deposito al nipote dell’artista Ludovico.
Con l’elezione di Pio V (7 gennaio 1566), la posizione di Pallantieri non mutò, giacché egli, malgrado le aspettative contrarie, fu confermato nella carica di governatore. Continuarono però le voci di un suo imminente allontanamento. Il 7 dicembre il papa affidò a Baldo Ferratini, vescovo di Amelia, la revisione del processo contro i Carafa, che si concluse nel settembre successivo con la riabilitazione del cardinale Carlo.
All’inizio di gennaio del 1567 Pallantieri fu nominato governatore generale della Marca.
Giunse a Macerata il 20. Durante il mandato, continuò l’azione del suo predecessore contro il banditismo, nonostante il fuoriuscitismo di alcuni suoi stessi familiari: il nipote Giovanni e il figlio Cesare, l’uno catturato in luglio a Senigallia e l’altro detenuto a Macerata nello stesso periodo. Frattanto, in marzo, Pallantieri aveva ordinato una leva di 440 uomini e un anno più tardi, nell’aprile 1568, fece una leva di archibugieri a cavallo e ordinò una distribuzione di armi ai soldati. Si occupò anche di misure di ordine pubblico ed emanò alcuni provvedimenti: il Decretum quod principales, & affines, ac consanguinei usque in tertium gradum exeant de conciliis quando tractatur de eorum interesse; Ordini et decreti sopra i magistrati, & consigli da osseruarsi nelle città, terre, & luoghi della Prouincia della Marca; Ordini sopra la depositaria delle essecutioni et pegni (tutti Macerata, S. Martellini, 1568). Nel febbraio 1569 fu nominato al suo posto Giovanni Girolamo Albani, che gli subentrò in agosto.
Richiamato a Roma, fu arrestato il 17 settembre, interrogato e tradotto nelle segrete dell’Inquisizione.
Al centro del procedimento, affidato al S. Officio come stabilì un breve papale dell’ottobre 1569, vi era la chiamata di correo nel processo contro Nicolò Franco, conosciuto durante la carcerazione del 1557-58, al quale Pallantieri avrebbe fornito gli atti del procedimento contro i Carafa, utilizzati dallo scrittore per una raccolta di pasquinate infamanti. Pallantieri non era nuovo a questo genere di accuse: nel corso del processo dell’ottobre 1557 ricordava che, mentre era fiscale, era stato accusato presso il papa e il cardinale Carafa «che io andava ogni notte in casa de card.le Pacheco a referirli li processi che si facevano nelle cause de stati e che io gliene haveva date le copie et che erano andati a Napoli e così me imputavano de traditore e di infedele» (ibid., c. 57r).
L’imputazione – come dimostra la mole degli atti (Arch. segreto Vaticano, Misc. Arm. IX, tt. 68-76) – significava in realtà ricostruire con minuzia la condotta di Pallantieri nel processo ai nipoti del papa e accertare le sue responsabilità in una condanna che Pio V considerava costruita ad arte, cioè, come recita la sentenza riferendosi a Pallantieri, «dolose, calumniose et mediantibus falsitatibus» (Aubert, 1999, p. 155). Ulteriore obiettivo del procedimento contro Franco e Pallantieri era appurare l’esistenza, la consistenza, il possesso e la circolazione di scritture riguardanti il processo Carafa per esercitare il controllo della memoria e colpirne l’uso improprio. Tra il luglio 1570 e il febbraio 1571, pertanto, il S. Officio esaminò tutti coloro che avevano collaborato con il fiscale.
A ciò si aggiunsero ulteriori accuse: aver indebitamente incamerato beni dei Carafa, che non erano stati riconsegnati malgrado le disposizioni in materia di Pio V; essersi del pari appropriato di beni di altri individui nel corso della sua lunga carriera di magistrato; aver abusato carnalmente di una detenuta e praticato la sodomia con diversi uomini; concorso nella fuga di un eretico di Faenza (fatto che non ebbe riscontro nella sentenza); corruzione nell’amministrazione della giustizia.
La condanna, contro cui Pallantieri lottò facendo ricorso alla sua profonda conoscenza della procedura criminale e del sistema giudiziario romano, giunse all’inizio del giugno 1571.
All’alba del 7 fu decapitato nel cortile del carcere romano di Tor di Nona.
Fu sepolto, seconde le sue intenzioni, nella chiesa di S. Girolamo della Carità, nella medesima tomba del figlio Pompeo, avviato alla carriera ecclesiastica come protonotario ma morto nel 1566. Lasciò Carlo, militare impiegato presso diversi principi italiani, tra cui il duca di Firenze, che dalla moglie Giulia aveva avuto Alessandro (futuro fondatore del collegio Pallantieri di Bologna), Clarice e Nobile; Cesare, capitano anch’egli attivo presso i Medici. Erano ancora vivi due figli illegittimi: Orazio, nato nel 1549 da Lucrezia, giovanissima figlia di un liutaio di origine tedesca Cristoforo Gramar, ed Elena, avuta nel 1556 da Faustina, un’altra figlia dell’artigiano.
Nel dare notizia della esecuzione un Avviso di Roma lo descriveva «huomo assai austero, rigido et che più pendente alla crudeltà che alla clementia: compiacente puoco alli amici alli quali haveva obligo fino della vita, fu essecutivo assai, et per questo fu adoperato da Pio 4.to et da Pio V.to. … credeva haver guadagnato il cardinalato et la gratia del papa, si era in questo ultimo dato alla vita retirata et fu detto che si faceva gesuito; diceva messa quasi ogni giorno et quando pensò di esser in colmo delle sue grandezze et grato al papa ha fatto tal fine» (cit. in Del Re, 1972, p. 88, n. 3).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi, sec. XVI, bb. 16, f. 16 (processo a Salvatore Pacini e Cesare Rasponi); f. 23 (processo contro Filippo II); 33,f. 27; 36; 56, c. 34v; Registrazioni d’atti, bb. 24, prima c. n.n.; 59, c. 41; Id., S. Giovanni Decollato, bb. 4, reg. 8, cc. 164-166 bis; 16, reg. 33, cc. 180v-181v; G. Garampi, Saggi di osservazione sul valore delle monete antiche pontificie, s.l., s.d. (Roma 1766), Appendice, p. 293; G. Marini, Degli archiatri pontifici, I, Roma 1784, p. 427; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi…, VI, Bologna 1788, p. 229; G. Muzi, Memorie ecclesiastiche e civili della Città di Castello, II, Città di Castello 1844, p. 121; P. Nores, Storia della guerra di Paolo IV sommo pontefice contro gli Spagnuoli, in Archivio storico italiano, XII (1847), pp. 110-112, 172; E. Luzi, Compendio di storia ascolana, Ascoli Piceno 1889, p. 255; Concilium Tridentinum Diariorum, actorum, epistularum, tractatuum, I, Diariorum pars I, a cura di S. Merkle, Friburgi Brisgoviae 1901; II, Diariorum pars II, a cura di S. Merkle, ibid. 1911, ad indices; R. Ancel, La disgrâce et le procés des Carafa, in Revue bénédictine, XXV (1908), pp. 204 s., 215, 219-224; XXVI (1909), p. 212; Regesti di bandi, editti, notificazioni e provvedimenti diversi…, I, Roma 1920; II, ibid. 1925, ad indices; L. von Pastor, Storia dei papi, VI, Roma 1944; VII, ibid. 1950; VIII, ibid. 1951, ad indices; A. Mercati, I costituti di Niccolò Franco (1568-1570), Roma 1955, ad ind.; G. Fabiani, Ascoli nel Cinquecento, Ascoli Piceno 1957, I, ad ind.; R. Stern, Donato Giannotti and his ‘Epistolae’, Genève 1968, ad ind.; V.L. Bernorio, La Chiesa di Pavia nel secolo XVI e l’azione pastorale del cardinal Ippolito de’ Rossi (1560-1591), Pavia 1971, p. 39; N. Del Re, Monsignor governatore di Roma, Roma 1972, p. 88; L. Paci, Le vicende politiche, in Storia di Macerata, a cura di A. Adversi - D. Cecchi - L. Paci, I, Macerata 1986, pp. 28, 429; A. Aubert, La politica annonaria di Roma durante il pontificato di Paolo IV (1555-1559), in Rivista storica italiana, CXLIV (1986), p. 280; D. Chiomenti Vassalli, Paolo IV e il processo Carafa: un caso d’ingiusta giustizia nel Cinquecento, Milano 1993, ad ind.; Legati e governatori dello Stato pontificio: 1550-1809, a cura di C. Weber, Roma 1994, p. 816; Il carteggio indiretto di Michelangelo, a cura di P. Barocchi - K. Loach Bramanti - R. Ristori, Firenze 1995, I, pp. LV s., II, pp. 182, 244; A. Aubert, Paolo IV: Politica, Inquisizione e Storiografia, Firenze 1999, ad ind; T. V. Cohen, Love and Death in Renaissance Italy, Chicago 2004, ad ind.; O. Niccoli, Rinascimento anticlericale:infamia, propaganda e satira in Italia tra Quattro e Cinquecento, Roma-Bari 2005, pp. 164-166; M.T. Guerrini, «Qui voluerint in iure promoveri…». I dottori di diritto nello Studio di Bologna (1501-1796), Bologna 2005, p. 157; F. Pignatti, «Quel libro è come un’insalata confusa senz’ordine, che non fu mai trascritto». Nicolò Franco pasquinista, in Ex marmore: pasquini, pasquinisti, pasquinate nell’Europa moderna, a cura di C. Damianaki - P. Procaccioli - A. Romano, Viterbo 2006, pp. 167 s.; E. Bonora, Roma 1564. La congiura contro il papa, Roma-Bari 2011, ad indicem.