MONTI, Alessandro
MONTI, Alessandro. – Nacque a Brescia il 20 marzo 1818, secondogenito del barone Gerolamo e di Elena Toccagni. La sua prima educazione si svolse tra le mura domestiche e il convitto di Monza. Per una precoce inclinazione alle armi il padre lo fece entrare all’Accademia del genio militare di Vienna, da cui uscì nel 1839, col grado di alfiere. Nel 1842 entrò come primo tenente nel reggimento cavalleggeri Hohenzollern, dove cinque anni più tardi ottenne la promozione a capitano. La sua carriera si preparava a essere quella di un ufficiale destinato a ricoprire incarichi sempre più prestigiosi nell’esercito imperiale austriaco. Lo scompiglio provocato dagli eventi del 1848 avrebbe impresso, invece, una drastica svolta nella sua vita di uomo e di soldato.
Monti si trovava in congedo temporaneo presso la sua famiglia quando, il 18 marzo 1848, scoppiò l’insurrezione a Milano e subito dopo anche a Bergamo, Como e Brescia. Ben consapevole del passo che stava compiendo, non ebbe esitazioni nell’abbracciare immediatamente la causa degli insorti, rassegnando le dimissioni dall’esercito imperiale. Ricevette dal governo provvisorio della città, nel frattempo instauratosi, l’incarico di organizzare la Guardia civica e, alcuni giorni dopo, il comando delle milizie di tutta la provincia. Con i circa 10.000 uomini radunati poté mettersi a disposizione del generale Michele Napoleone Allemandi, inviato a Brescia dal governo. Rivestì la carica di capo di stato maggiore anche dopo la sostituzione di Allemandi (giudicato troppo vicino a Mazzini) con il generale Giacomo Durando, segnalandosi durante l’intera campagna in Trentino, in particolare nella battaglia di Monte Suello (22 maggio 1848), e guadagnandosi la promozione a tenente colonnello. Inviato da Durando sul Mincio, dove le sorti della guerra sembravano compromesse per le armate piemontesi, ebbe pure il compito, qualche settimana prima della battaglia di Custoza, di comandare l’avanguardia che doveva proteggere la ritirata di Durando e della sua divisione entro i confini del Piemonte, distinguendosi anche qui per il suo valore. Dimessosi dalla divisione lombarda e fatta istanza per entrare nelle file dell’esercito regolare sardo, rimase, malgrado l’interessamento di Durando presso il ministro della Guerra, per alcuni mesi in attesa di nuovi incarichi.
Questi arrivarono allorché Vincenzo Gioberti, nuovo presidente del Consiglio, riprendendo i contatti diplomatici con l’Ungheria accantonati negli ultimi mesi a causa dei rovesci militari subiti dal Piemonte, gli assegnò alla fine di dicembre del 1848 una delicata missione presso il governo di Lajos Kossuth che si sarebbe dovuta svolgere in parallelo con l’altra (ugualmente segreta) a Belgrado, affidata al console Marcello Cerruti.
Stando alle istruzioni riservatissime di Gioberti, Monti avrebbe dovuto fare in modo che gli Ungheresi si orientassero a favore del Piemonte, dichiarando la piena disponibilità del regno di Sardegna a un’alleanza operativa con Kossuth, il cui inviato a Torino, il barone Lajos Splényi, era stato d’altra parte già riconosciuto quale rappresentante ufficiale del governo ungherese. Occorreva poi, sul piano militare, favorire il passaggio di reparti italiani dell’esercito imperiale asburgico sotto le bandiere dell’Ungheria indipendente al fine di potenziare le forze impegnate a bloccare la controffensiva austriaca. Ciò avrebbe consentito al Piemonte la ripresa delle ostilità contro un’Austria la cui forza d’urto era divisa tra più teatri di guerra.
Partito da Torino il 30 dicembre 1848 con un passaporto inglese, Monti non riuscì a raggiungere la sua meta se non dopo quattro mesi, passati nell’inutile tentativo di trovare un varco sicuro per entrare in Ungheria. Fallito più volte l’attraversamento del Danubio perché fermato la prima volta dai Serbi e la seconda dai Russi (che, nel frattempo, avevano occupato l’altra sponda del fiume), fu anche costretto a bruciare i documenti che aveva con sé, per non farli cadere in mani nemiche. Si diresse quindi a Costantinopoli per ottenerne di nuovi dal ministro sardo Romualdo Tecco, dal quale ricevette pure la notizia della caduta del ministero Gioberti. Decise comunque di proseguire nella missione ritornando all’inizio di maggio a Belgrado, dove lo attendeva però un dispaccio del nuovo capo del governo, Claudio Gabriele de Launay, datato 30 marzo 1849, in cui gli si annunciava la disfatta di Novara insieme all’ordine di interrompere la missione e di rientrare in Piemonte. Inizialmente era incerto sul da farsi; poi le confortanti notizie provenienti sia dal fronte di guerra ungherese sia da Debrecen (il 14 aprile l’Assemblea nazionale aveva proclamato l’indipendenza del Regno d’Ungheria) lo indussero a fare diversamente. Chiesto al ministro un permesso di due mesi al fine di curarsi presso i vicini bagni di Mehádia sul Danubio prima di affrontare il viaggio di ritorno, non esitò a varcare il confine fluviale, questa volta con successo, giungendo finalmente in territorio ungherese, a Pancsova, la sera del 10 maggio.
Cominciò allora, sul filo di un’insubordinazione non dichiarata ma nei fatti, la sua personale avventura nell’Ungheria rivoluzionaria. Convinto di poter ancora essere utile alla causa del Piemonte, chiese l’appoggio diplomatico di Tecco e di Cerruti per poter restare come ‘agente privato’ del governo sardo presso Kossuth, ma sollecitò pure ripetutamente i vertici politici di Torino a non abbandonare l’idea della guerra all’Austria. Da Torino, però, non arrivò alcun segnale positivo e questo silenzio, oltre a significare un totale disconoscimento dell’azione intrapresa da Monti, rappresentò pure una chiara avvisaglia di quelle conseguenze negative che si sarebbero abbattute più tardi su di lui per aver disatteso le ultime direttive impartitegli dal governo.
Ma, intanto, si trattava di contribuire alla resistenza che l’Ungheria indipendente stava opponendo alle soverchianti armate austro-russe. Monti lo fece, collaborando con i vertici militari ungheresi e cominciando a organizzare alcuni contingenti italiani dell’esercito imperiale che già da qualche mese erano passati dalla parte degli insorti (soldati, sottufficiali e alcuni ufficiali dei reggimenti di fanteria «Ceccopieri » e «Zanini» e del reggimento cavalleggeri «Kress»), nonché altri prigionieri e disertori, o anche semplici volontari, in gran parte lombardi e veneti: in totale, il 25 maggio 1849, quando Monti (nominato qualche giorno dopo colonnello dai vertici militari ungheresi) assunse il comando della legione, circa 1200 uomini, divisi in sei compagnie. La legione, nei disegni di Kossuth, avrebbe dovuto costituire, una volta consolidata la situazione in Ungheria, una testa di ponte per soccorrere Venezia e favorire una nuova insurrezione delle popolazioni venete e lombarde contro l’Austria. L’ottimismo di Kossuth e di Monti era destinato, però, a sfumare col passare delle settimane, soprattutto a causa del massiccio intervento delle truppe russe sul fronte orientale e meridionale.
Dopo una fase di relativa calma in cui la legione italiana poté essere adeguatamente riorganizzata da Monti e inquadrata in una divisione di riserva a lui affidata di circa 3500 uomini, il battesimo del fuoco arrivò il 3 agosto a Törökkanizsa, uno dei passaggi strategicamente più importanti del Tibisco, dove essa ebbe a fronteggiare, subendo gravi perdite, un primo violento assalto da parte delle truppe austriache che avanzavano in direzione di Szeged. Proprio nei dintorni di questa città avvenne, due giorni dopo, lo scontro principale tra i due eserciti in cui le forze ungheresi ebbero la peggio. Toccò in particolare alla legione il difficile compito di proteggerne, con successo, la ritirata. Gli italiani si distinsero anche negli scontri dei giorni seguenti, a Besenyő e a Csát, e nella battaglia decisiva di Temesvár (9 agosto 1849), alla quale la legione partecipò in appoggio delle truppe del generale Józef Bem. L’idea dello stato maggiore ungherese di portare un disperato attacco con tutte le forze residue ai 60.000 austriaci comandati dal generale Julius Jacob von Haynau si rivelò fallimentare e, dopo una giornata di aspri combattimenti, gli ungheresi furono sbaragliati e dispersi. Coi suoi 470 soldati superstiti Monti riuscì ancora a ritirarsi ordinatamente a Lugos, ma due giorni dopo, avuta la notizia della capitolazione firmata dal generale Artúr Görgey, decise col resto della sua legione di passare il confine e, dopo una estenuante marcia di due settimane attraverso diverse province serbe, di chiedere riparo e protezione a Vidin, in territorio ottomano.
Caduta l’Ungheria indipendente, per Monti e per i resti della legione cominciò una nuova odissea. Essi si appellarono subito a d’Azeglio, attraverso i buoni uffici dei rappresentanti sardi a Costantinopoli e a Belgrado, per essere accolti come esuli dal Piemonte e inquadrati nell’esercito sardo. Ma il governo di Torino affrontò piuttosto tiepidamente il problema, soprattutto a causa delle delicate implicazioni internazionali dell’affare. Così essi dovettero aspettare diversi mesi prima che si riuscisse a trovare una soluzione diplomatica al loro caso e, mentre cresceva in loro lo scoramento per i ritardi nell’intervento del governo piemontese, le fatiche fisiche e le malattie sopportate nei lunghi trasferimenti da un campo di internamento all’altro (Vidin, Adrianopoli, Gallipoli), nonché le forti pressioni esterne (promesse di amnistia e lusinghe di conversione all’islamismo), finirono per assottigliarne il numero fino a poco più di 250 unità.
L’estenuante attesa (testimoniata dalla corrispondenza di quei mesi tra Monti e Cerruti, in buona parte conservata nell’archivio privato degli eredi palermitani del console sardo) si protrasse fino a metà marzo del 1850, quando i superstiti della legione poterono finalmente imbarcarsi sulla fregata turca Jasy-Allah che li portò a Cagliari. Qui, il 5 maggio, furono accolti con tutti gli onori da Alberto La Marmora, comandante militare della Sardegna. Ma era solo un’illusione. Dopo un mese infatti, il 14 giugno, la legione venne sciolta e per Monti, contrariamente a quanto da lui sperato, non ci furono né riconoscimenti al suo valore di soldato né prospettive di prosecuzione o di avanzamento di carriera: gli furono negati il grado di colonnello conquistato sui campi di battaglia ungheresi e perfino il mantenimento in servizio col suo grado di tenente colonnello. Posto in aspettativa senza diritto ad anzianità, dopo aver protestato vivacemente si dimise irrevocabilmente dall’esercito sabaudo (luglio 1850). Fortemente segnato nel fisico (non superò mai del tutto le conseguenze dei malanni sofferti durante l’internamento), ma soprattutto nell’animo, malgrado il conforto della moglie (Sarah Willshire, figlia del console britannico a Bursa, sposata sul finire del periodo trascorso in territorio ottomano) e dei due figlioletti (Carlo e Gerolamo), dal governo sardo ebbe solo un incarico di direttore del penitenziario di Torino, da lui accettato nel giugno 1853 e poi, nell’aprile dell’anno successivo, di quello di Oneglia.
In quegli anni, a parte un certo impegno per favorire la nascita di un comitato rivoluzionario italo-magiaro sulla base delle intese allora in corso (estate-autunno 1851) tra Mazzini e Kossuth, cercò pure di raccogliere testimonianze e documenti per un volume sulla sua missione in Ungheria e sul ruolo svolto dalla legione italiana, ricevendo l’aiuto del maggiore Giovanni Merlo, uno dei suoi migliori uomini dello stato maggiore. Si mise anche in contatto con Nicomede Bianchi, dal quale ottenne la promessa di una collaborazione che, però, cessò all’inizio del 1854, probabilmente a causa dei ripensamenti che questi ebbe circa l’opportunità di pubblicare quel materiale nelle particolari condizioni politiche del momento.
Malato da tempo, morì a Torino il 22 maggio 1854 per le conseguenze di un violento attacco di tifo.
Le sue carte, conservate dalla moglie nella villa di Nigoline di Corte Franca, furono in seguito affidate a Francesco Bettoni-Cazzago che, una trentina d’anni dopo, pubblicò il primo studio completo e documentato su lui e sulla legione italiana in Ungheria. Anche se il valore ideale del contributo dato da Monti e dalla sua legione a un’intesa italo-magiara non fu trascurato, la sua figura, più che in Italia, è ricordata e apprezzata in Ungheria, dove è diventata un simbolo, ancor oggi vivo, della fratellanza e della solidarietà tra italiani e ungheresi negli anni del Risorgimento. Ne è esempio il busto bronzeo (di cui una copia si trova a Brescia) collocato nel 1931 nel giardino del Museo nazionale di Budapest, non lontano da quello di Giuseppe Garibaldi, inaugurato due anni prima in occasione dei festeggiamenti per l’80° anniversario della rivoluzione nazionale ungherese.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Carte politiche diverse, 1849, ms. 28, nn. 170, 172; Lettere Min. Legazione di Porta ottomana 1848-1850, ms. 15, nn.730-742; Consolati nazionali, Belgrado 1847-1859, nn. 6, 82; Roma, Arch. del Museo centrale del Risorgimento, bb. 3/55, 9/30 (4, 5, 6), 593/51 (1); Budapest, Arch. nazionale ungherese, Fondo Kossuth, R 90, I. 557, 588,1304, 1343, 1366, 1368, 1469; Ministero delle Finanze 1848-1849, H 29, 642; Ibid., Arch. di Storia militare, Documenti della rivoluzione e della lotta per la libertà 1848-1849, 20/164, 30/234b, 36/345; Palermo, Arch. famiglia Cerruti, cart. A, Ungheria 1849. Le biografie di Monti sono molto scarne e si soffermano soprattutto sulla missione in Ungheria: F. Bettoni-Cazzago, Gli italiani nella guerra d’Ungheria 1848-49. Storia e documenti, Milano1887; G. Massoneri, Cenni storici della guerra d’indipendenza d’Ungheria nel 1848-49, Fiume 1898, pp. 159-234; A. Pierantoni, Il colonnello A. M. e la Legione italiana in Ungheria (1849), Roma 1903, pp. 3-24; S. Berkó, La Legione italiana in Ungheria (1849), Budapest 1929; A. M. e la Legione italiana d’Ungheria (1849). Conferenze e discorsi pronunciati a Budapest il 18 maggio 1929, Budapest 1929; G. Netto, La «legione italiana» in Ungheria, in Atti e memorie dell’Ateneo di Treviso, 1995-96, n. 13, pp. 12-50; L. Pete, Il colonnello M. e la Legione italiana nella lotta per la libertà ungherese, Soveria Mannelli 2003 (con ampia bibliografia). Contributi minori sono offerti da G. Zadei, Il barone colonnello A. M. e la sua azione in Ungheria nel 1849, Brescia 1929 (con ricca documentazione); E. Hory, Il colonnello A. M. e le legioni italiane nella guerra d’indipendenza ungherese, estr. da Le vie dell’Oriente, maggio 1929; E. Michel, Il colonnello A. M. e la «Legione italiana» da Vidino a Cagliari (1845- 1850), Cagliari s.d. [ma 1929]; A.A. Monti, Glorie e memorie italiane in Ungheria. La canzone del colonnello M., in La vita italiana, XXIV (1936), 285, pp. 710-714. Tra i lavori di più ampio respiro sui rapporti italo-ungheresi nel periodo del Risorgimento, in cui si fa riferimento a Monti e alla sua missione in Ungheria, A. Vigevano, La Legione ungherese in Italia (1859-1867), Roma 1924, pp. 7-28; M. Jászay, L’Italia e la rivoluzione ungherese 1848-1849, Budapest 1948, passim; G. Quazza, La politica orientale e balcanica del Regno sardo nel 1848-49, in Rassegna stor. del Risorgimento, XXXV (1948), pp. 151-167; A. Tamborra, Cavour e i Balcani, Torino 1958, pp. 90-95, 103-107; P. Fornaro, Risorgimento italiano e questione ungherese (1849-1867). Marcello Cerruti e le intese politiche italo-magiare, Soveria Mannelli 1995, pp. 33-95; Le relazioni italiane dell’emigrazione di Kossuth 1849-1866, a cura di E. Nyulászi-Straub, Budapest 2003, pp. 105-111, 164-185.