PERRONE, Alessandro Maria
PERRONE, Alessandro Maria. – Nacque a Roma il 14 settembre 1920, terzogenito di Luigi Ferdinando Alfonso Giuseppe Mario e di Adele Parisi, nipote di Ferdinando Maria Giuseppe Giuliano e discendente di Ferdinando Maria Alberto di Savoia Carignano, duca di Genova.
Al nonno Ferdinando, che aveva costruito un ‘impero’ mediante l’acquisizione del quotidiano Il Secolo XIX di Genova, nel 1897, e l’assunzione del controllo della maggiore impresa meccanica italiana, la società Ansaldo Armstrong & C., nel 1904, «quel bambino di Sandrino» assomigliò nel «sorriso» e nella «intelligenza» (Fondo Perrone, lettera di Pio a Mario Perrone, 31 maggio 1928).
La sua infanzia coincise con una crisi che ne avrebbe segnato irreversibilmente l’esistenza: nel 1921 il padre e lo zio Pio furono costretti ad affrontare la disfatta del gruppo industriale Ansaldo, con il fallimento della Banca italiana di sconto a esso legata, e a compiere l’«immenso sacrificio» di abbandonare l’impresa Ansaldo Armstrong & C. che nel 1912 aveva assunto la ragione sociale di Società anonima italiana Gio. Ansaldo & C.
Perrone ricevette un’educazione alto-borghese, dalla quale derivò la curiosità per il mondo e per la politica estera, la conoscenza delle lingue, la passione per i cavalli, condivisa con il padre nella tenuta di Barbaricina vicino Pisa e praticata nella squadra nazionale di ippica – nel 1940 vinse il Gran Premio di Roma al concorso Piazza di Siena – e sviluppata, nella seconda metà degli anni Settanta, con il varo della scuderia Hermes all’ippodromo romano delle Capannelle.
Nel 1949 il matrimonio, celebrato a Grasse in Provenza, con Nathalie Valentine Marie, figlia del visconte Charles de Noailles de Mouchy de Poix e di Marie Laure Bischoffsheim, mecenati ed esponenti della cultura francese e internazionale, rafforzò i suoi interessi, soprattutto per il cinema e l’arte moderna, e la sua cultura cosmopolita. Dall’unione nacquero Mario (1954) e Carlo (1956).
A vent’anni, nell’ottobre del 1940, per volontà paterna fu chiamato a ricoprire la carica di ispettore generale della pubblicità de Il Messaggero di Roma e de Il Secolo XIX di Genova, istituita ex novo per permettergli di fare apprendistato nelle società editoriali – ormai unico patrimonio familiare – nella prospettiva di costituire la Società internazionale pubblicità (SIP). Contemporaneamente fu avviato alla professione giornalistica, sotto gli insegnamenti di Francesco Malgeri, direttore de Il Messaggero.
Nel maggio del 1943 a Roma e nel marzo del 1945 a Genova, nella prima assemblea convocata dopo l’armistizio (8 settembre 1943), con il cugino Ferdinando (o Nando), già direttore amministrativo de Il Messaggero, entrò nel Consiglio di amministrazione dell’editrice romana e della Società edizioni e pubblicazioni (SEP) del Decimonono. Il passaggio decisivo si consumò però solo nel 1952, alla morte dello zio Pio e con le dimissioni di Mario Missiroli dalla guida de Il Messaggero dal 1946.
La nomina a direttore di una delle più antiche e prestigiose testate italiane fu decisa dal padre nel settembre 1952, come manovra per assestare gli equilibri di potere a favore di Perrone e delle sorelle Isabella (1912) e Vittoria (1916) rispetto all’altro ramo dei Perrone, rappresentato dai nipoti Nando, Maria Ferdinanda e Cleonice, e come esito della rivendicazione del diritto di acquistare le azioni del fratello, che sarebbe stata respinta in sede giudiziaria. L’impasse familiare e la giovane età obbligarono Perrone a svolgere un ruolo di mediazione interno all’azienda e un praticantato garantito da Francesco Maratea, voce autorevole del giornale, dal redattore capo Vincenzo Spasiano e dal collaboratore Giovanni Spadolini che, almeno fino al 1955, si occupò di scrivere gli articoli di fondo (pubblicati senza firma anche sul Secolo XIX) e di assicurare continuità alla linea politica centrista del quotidiano.
Nel crinale del miracolo economico, Perrone guadagnò margini di autonomia nella gestione editoriale e poté intraprendere, gradualmente e non senza contraddizioni, un’operazione di svecchiamento del foglio, spostando Il Messaggero, anche nei capocronaca, verso l’esperimento di centro-sinistra di Aldo Moro (1963) e inventando l’ufficio grafico che rivoluzionò la prima pagina dal gennaio del 1968, con le immagini del terremoto del Belice.
Lavorò anche sul campo come inviato: nel 1968 gli fu assegnato il premio nazionale Marc’Aurelio d’oro per «aver coraggiosamente diretto e realizzato» il film Vietnam, guerra senza fronte (1967), prodotto dalla Dino De Laurentiis Cinematografica (Fondo Messaggero, lettera di Marcello Simonacci a Perrone, 21 settembre 1968).
La morte del padre, nel novembre del 1968, ridisegnò i rapporti di forza nella famiglia. Perrone accettò un consulente editoriale, Gianni Granzotto, imposto dal cugino per limitare la sua sfera d’influenza a Il Messaggero come direttore, editore e amministratore unico della concessionaria SIP e per contrastare un corso di ammodernamento tecnico e politico che si era imposto a Roma come a Genova, attraverso il laboratorio di giornalismo liberal di Piero Ottone, dall’autunno del 1968 alla testa de Il Secolo XIX.
Ma il pericolo di deficit nel bilancio aziendale e la tradizione infranta del ‘ministerialismo’ – esemplificata dalla posizione di laicismo assunta sul referendum abrogativo della legge sul divorzio – provocarono la rottura. Il 22 maggio 1973 Nando e le sorelle cedettero il 50% della proprietà (Messaggero, Secolo XIX e SEI) all’editore Edilio Rusconi, considerato la longa manus di Amintore Fanfani, all’insaputa di Perrone, Isabella e Vittoria. Un mese dopo, Nando riuscì a licenziare Perrone e a sostituirlo con Luigi Barzini Jr.
La vicenda de «Il Messaggero dimezzato» (Pansa, 1977, p. 85) si impose all’attenzione pubblica, dilatata dal caso del Corriere della sera e dall’affermazione di un modello di concentrazione di testate giornalistiche che combinava ragioni economiche con nuove logiche di lottizzazione. Barzini non varcò la soglia di via del Tritone – fermato dalla sentenza del pretore Fucilli – e l’atto di resistenza di Perrone fu sostenuto dalla Federazione nazionale della stampa e da altre sigle sindacali che proclamarono, per il 5 giugno, la «giornata del silenzio» in difesa della libertà dell’informazione e per introdurre una legge di riforma dell’editoria e della RAI. Sull’onda della vittoria dell’«Italia dei diritti civili», della quale Il Messaggero si era fatto alfiere, la sera del 13 maggio 1974 (subito dopo la vittoria di ‘no’ all’abrogazione della legge sul divorzio) Perrone annunciò l’acquisizione del 100% de Il Secolo XIX e la vendita del foglio romano a Eugenio Cefis, presidente della Montedison. Fu una scelta «strategica» che gli permise di proseguire la battaglia per una stampa «laica, democratica e antifascista» (comunicato stampa di Perrone, 13 maggio 1974) e di poter restituire la lezione di quell’esperienza al secondogenito Carlo. Con l’erede, futuro presidente della SEP, divise la sua ultima esperienza di editore ‘puro’. Fondò Tivuesse (1977), la «televisione» del Decimonono, per gettare le basi di un sistema di comunicazione integrata e allargare il mercato pubblicitario locale, e a Roma, a titolo personale, promosse la nascita della stazione televisiva RTI (e della società di compravendita di programmi RTI/D) che, alla sua morte, con le partecipazioni di Carlo Perrone, Carlo Caracciolo e Mario Formenton, avrebbe dato vita al network Retequattro.
A causa delle riserve espresse dalle sorelle e dai nipoti, Cesare Brivio Sforza e Giulio Grazioli, rispettivamente amministratore delegato e consigliere di amministrazione della SEP, respinse la proposta di Eugenio Scalfari e di Caracciolo di aderire, rilevando un terzo del pacchetto azionario dell’editrice, al progetto de la Repubblica, il quotidiano che, al suo esordio (1976) si sarebbe fatto interprete di un «vasto arco della sinistra» e di una leadership radicale e libertaria formatasi proprio nei primi anni Settanta (Caracciolo, 2005, p. 121).
Perrone abbandonò il giornalismo nel gennaio del 1978, lasciando all’amico Michele Tito la direzione del Secolo XIX, assunta nel 1972, e la questione dell’indipendenza dell’informazione alla vigilia del rapimento di Moro (1978).
Morì a Roma il 1° settembre 1980.
Fu seppellito nella tomba di famiglia del cimitero genovese di Staglieno.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio della famiglia Perrone, Fondo Perrone prima del 1940, f. 1 (lettera di Pio a Mario Perrone, 31 maggio 1928); Fondo Messaggero, f. 2 (Varie, lettera dell’on. Marcello Simonacci, presidente onorario del premio nazionale Marc’Aurelio d’oro per i tecnici del cinema e della TV, a Perrone, 21 settembre 1968); Comunicato A. P., maggio 1974, Comunicato stampa di A. P., 13 maggio 1974; memorandum dattiloscritto non datato.
G. Pansa, Comprati e venduti. I giornali e il potere negli anni ’70, Milano 1977, pp. 85-96; 172-186; P. Murialdi, Appunti per la storia politica della legge per l’editoria. I parte: 1965-1973, in Problemi dell’informazione, VII (1982), 3, pp. 317-353; G. Talamo, Il Messaggero e la sua città. Cento anni di storia, III, 1946-1974, Il Messaggero. Un giornale laico, Firenze 1991; P. Rugafiori, Ferdi-nando Maria Perrone da Casa Savoia all’Ansaldo, Torino 1992; A.M. Falchero, L’estromissione dei Perrone, in Storia dell’Ansaldo, V, Dal crollo alla ricostruzione 1919-1929, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari 1998, pp. 25-40; C. Caracciolo, L’editore fortunato, a cura di N. Ajello, Roma-Bari 2005, pp. 99, 121.