GUIDI, Alessandro
Nacque a Pavia il 14 giugno 1650 da Bernardo e Maddalena Figarolla. Fu battezzato il giorno stesso della nascita, con i nomi di Carlo Alessandro, ma per sua stessa volontà fu sempre conosciuto solo come Alessandro. La famiglia, non particolarmente agiata, era composta anche dal fratello Siro, avviato alla carriera di avvocato. Il G. soffrì sin dalla nascita di gravi problemi fisici: in particolare, era afflitto da una pronunciata deformità del torace e delle spalle, ed era cieco dall'occhio destro.
Compì i primi studi presso le scuole dei gesuiti, dove apprese i rudimenti delle lettere italiane e si distinse in quelle latine, tanto che "arrivò all'onore dell'esser dichiarato principe della latina poesia" (Martello, p. 231). Si rivolse in un secondo momento allo studio della retorica, di cui prese lezioni da un religioso della Congregazione degli oblati, padre Sasso. Non studiò mai il greco, fatto notevole, per colui che sarebbe stato l'esponente principale del pindarismo a cavallo tra Sei e Settecento.
Nel 1666 si recò nella Parma dei Farnese - in quei tempi città culturalmente assai viva, in cui il mecenatismo dei principi permetteva a numerosi scrittori e artisti di lavorare al riparo da preoccupazioni economiche - per tentare di entrare negli ambienti letterari. Dopo un breve periodo di ristrettezze, riuscì a ottenere la protezione economica dei fratelli Bellisomi, appartenenti a una famiglia del patriziato pavese; ciò, insieme con l'esplicito favore dimostratogli dal duca Ranuccio II, lo mise in condizione di avviarsi a una fortunata carriera di poeta encomiastico. Buona parte della sua produzione giovanile è in effetti costituita da testi espressamente rivolti alla celebrazione degli avvenimenti e dei personaggi principali gravitanti intorno alla corte farnesiana.
Raggiunse ben presto una notevole fama, come prova, tra l'altro, l'ammissione nell'Accademia dei Gelati di Bologna; nei vent'anni scarsi in cui visse a Parma, pubblicò numerose opere, esercitandosi in diversi generi letterari.
Molto intensa fu la sua attività nel campo del teatro per musica, genere particolarmente fiorente nella corte di Parma. Appartengono a quest'ambito quattro introduzioni a balletti di corte: La Parma (1669); Le navi d'Enea (1673); Il Giove d'Elide fulminato (1673); Amore riconciliato con Venere (1681); le prime tre, stampate senza indicazione di luogo né di editore, furono musicate da M. Uccellini, mentre la quarta, pubblicata a Parma, fu musicata da G.B. Policci. Si tratta in sostanza di melodrammi brevi, di intreccio piuttosto lineare, in cui gli argomenti mitologici sono assunti come mero pretesto per adombrare vicende e personaggi illustri della corte; l'intento celebrativo è preponderante.
Un melodramma vero e proprio è l'Amalasonta in Italia, musicato da Policci e pubblicato, sempre a Parma, nel 1681. Opera farraginosa, di cui lo stesso autore in una nota prefativa si dichiara sostanzialmente insoddisfatto, l'Amalasonta è una rielaborazione assai libera della storia della figlia di Teodorico, in cui il G. dà uno spazio sproporzionato alle vicende amorose. La trama abbastanza scarna viene complicata a dismisura dall'inserimento di una congerie di personaggi ed episodi secondari, spesso introdotti con l'unico fine di provocare effetti di sorpresa (così si spiegano, in particolare, le numerose agnizioni).
L'opera più importante del periodo farnesiano del G. è la raccolta di Poesie liriche (ibid. 1671; per un curioso errore dovuto a Crescimbeni, quasi tutti gli studiosi, fino a pochi decenni fa, indicavano come data dell'opera il 1681). In essa sono evidenti le riprese di elementi propri della poetica del marinismo - peraltro assai viva a Parma, dove si era diffusa prepotentemente negli anni in cui vi si era stabilito C. Achillini (1626-36) -, ma si rintracciano anche non pochi segni che rimandano all'esperienza lirica di G. Chiabrera, il cui insegnamento, in particolare, è fondamentale per l'assetto metrico di parecchie canzoni. Il G. dà spazio privilegiato a temi eroici e moraleggianti (non di rado affrontati ricorrendo a esempi mitologici), mentre ignora gli argomenti erotici, che pure erano molto presenti nella poesia barocca; da essi prende le distanze apertamente nell'ode Per la lascivia delle penne.
I Pensieri heroici (ibid. 1695) sono otto discorsi che si fingono pronunciati da personaggi illustri, antichi e moderni (Carlo Stuart, Rosmunda, Carlo V, Menenio Agrippa, Tommaso Moro, Temistocle), o a loro rivolti (è il caso dei pensieri diretti da una nobildonna a Francesco Sforza, e da Publio Valerio a Lucrezia). Di ognuno degli eroi protagonisti del libro si tenta di mettere a fuoco il tratto fondamentale - i discorsi, non a caso, si riferiscono a momenti decisivi delle singole esistenze -, sintetizzato in un aggettivo (Carlo V è "magnanimo", Moro "giusto", e così via); il risultato è una serie di ritratti stereotipati, privi di qualsiasi vera caratterizzazione.
Nel 1683, durante un breve soggiorno a Roma, il G. venne presentato a Cristina di Svezia (alla cui Accademia Reale, peraltro, era stato aggregato già quattro anni prima). L'incontro con Cristina venne poi da lui stesso riconosciuto come il punto di svolta della sua vicenda umana e artistica. Importante fu anche la conoscenza, fatta in quell'occasione, degli esponenti dell'Accademia Reale, che accoglieva allora molti dei più importanti letterati italiani, quali, per esempio, F. Redi, C.M. Maggi, B. Menzini. A Roma il G. si stabilì definitivamente nel maggio 1685, quando Ranuccio II, su richiesta dell'abate F. Felini, ministro di Cristina, acconsentì al suo trasferimento.
La consuetudine con l'ambiente dell'Accademia Reale indusse ben presto il G. a un radicale ripensamento rispetto ai suoi ideali di poetica; egli sposò senza riserve il programma di reazione antibarocca e classicistica propugnata dal circolo romano. Tale programma prevedeva tra l'altro il rifiuto dell'esperienza marinista, e la risoluta rivalutazione di un autore come Chiabrera, il cui recupero di spunti della classicità greca (derivati soprattutto da Anacreonte e Pindaro) offriva un precedente a cui si poteva guardare come a un modello (il che peraltro il G. aveva già fatto almeno in parte nelle Poesie liriche).
Il G. fornì una prova del suo nuovo modo di intendere la poesia con una canzone chiabreresca composta nel 1686 per celebrare, su richiesta di Cristina, il barone Michele d'Aste, morto valorosamente durante l'assedio di Buda. Importante in questo senso fu anche la composizione di un'Accademia per musica (Roma 1687), in cui veniva celebrata, ancora per incarico della regina, l'incoronazione di Giacomo II Stuart re d'Inghilterra (l'opera venne musicata da B. Pasquini).
Di là dalle componenti irrinunciabili di uno scritto encomiastico di questo genere, come l'esaltazione allo stesso tempo delle virtù guerriere e della saggezza del nuovo re, appare importante nell'Accademia il ruolo svolto dal personaggio della Fama, che dà voce, di fatto, al programma poetico del G., rivendicando con forza la possibilità di rendere immortali gli eroi ("condur poss'io / de' rigidi anni a scherno / nomi d'eroi per bel sereno eterno").
Nello stesso 1687 il G. ottenne la carica di abate e poté sistemare la sua situazione economica grazie a uno stipendio assegnatogli da Cristina, un beneficio papale e una provvisione del duca di Parma. A partire da allora il G. godette dell'approvazione incondizionata di tutti i più importanti ambienti romani (non solo culturali, ma anche nobiliari ed ecclesiastici); la sua produzione letteraria fu sempre accolta con notevole successo e gli fu riconosciuta universalmente - con poche eccezioni - la patente di novello Pindaro e di cantore per eccellenza dei moderni eroi. Funzioni, queste, che lui stesso volentieri si attribuiva: l'altissima considerazione di sé fu sempre un suo tratto caratterizzante, e fu in più di un'occasione causa dei rimproveri e delle ironie dei contemporanei, tanto che egli, nell'avviso A chi legge delle Rime del 1704, sentì il bisogno di giustificare le lodi che tributava a se stesso, normali a suo dire nella poesia eroica.
Nel 1688 scrisse una prima versione in tre atti della favola pastorale L'Endimione, la cui vicenda (l'amore del pastore di Caria per Cintia) adombrava la venerazione del poeta per Cristina. La regina morì l'anno successivo e il G., secondo la testimonianza di P.J. Martello, per modestia non andò al suo capezzale e non ricevette quindi quei favori che altri ottennero facendo atto di presenza.
Il 2 luglio 1691 entrò a far parte dell'Accademia dell'Arcadia, fondata l'anno prima da un cenacolo di letterati, alcuni dei quali erano stati membri come lui dell'Accademia Reale di Cristina (tra le due accademie si possono trovare com'è noto moltissimi elementi di continuità); in Arcadia assunse il nome pastorale di Erilo Cleoneo e presso l'Accademia fu recitato L'Endimione, testo che in una nuova versione in cinque atti venne pubblicato a Roma nel 1692.
Caratteristica singolare della maggiore opera celebrativa di Cristina è la visibilità della collaborazione di quest'ultima alla stesura: un certo numero di versi, opportunamente evidenziati con virgolette dallo stampatore, si devono infatti alla penna della regina, a testimonianza di una comunità di intenti poetici che i contemporanei non mancarono di enfatizzare (secondo Crescimbeni, 1726, p. XIV, "pareva, che la regina pensasse con la mente del Guidi, e il Guidi scrivesse co' sentimenti della regina"). Va peraltro ricordato che secondo Claretta (p. 325) già nell'Accademia alcuni versi sarebbero stati composti da Cristina, ma tale notizia appare tutt'altro che sicura.
Nella favola, sono palesi le influenze del Pastor fido di G. Guarini, e soprattutto dell'Aminta di T. Tasso, di cui viene anche ripreso il metro (endecasillabi e settenari liberamente accostati, ai quali si affiancano episodicamente dei quinari). Il G. abbandona la macchinosità dell'Amalasonta ed evita le trovate a effetto, dando vita a uno svolgimento assai lineare.
Molto importante è il breve scritto Lo stampatore a chi legge, in cui si afferma che l'autore prende le distanze dall'intera produzione precedente, e "si dichiara esser questa l'unica cosa sua che fin ora riconosce per propria". Con ciò il G. forniva una prima autorizzazione, e anzi un incoraggiamento, a quella lettura tesa a enfatizzare le differenze tra la sua produzione arcadica e quella barocca che tutti i suoi interpreti avrebbero fatto propria per più di due secoli. Gli scritti secentisti del G. furono letti come concessioni al gusto imperante, a cui egli sarebbe stato costretto suo malgrado. Molto indicativa, a tal proposito, è la leggenda tramandata da Martello secondo la quale l'accoglimento dello stile barocco veniva vissuto dal G. "con tanto strazio di sua inclinazione, che per superarla, soggiacque ad un infermità perigliosa" (p. 231). La critica moderna, viceversa, ha fortemente ridimensionato la frattura tra i due momenti della poesia guidiana, e ne ha sottolineato gli elementi di continuità.
L'Endimione si offriva al pubblico corredato da un Discorso di G.V. Gravina (firmato con il nome arcadico di Bione Crateo), in cui l'opera veniva elogiata e indicata apertamente come modello del nuovo clima poetico. Il Discorso, in realtà, va ben al di là della mera analisi del testo del G., e si distende nella definizione del concetto di vera poesia; esso può considerarsi, a partire soprattutto dal suo netto rifiuto del secentismo, come il primo manifesto programmatico dell'Arcadia. Non è provata la fantasiosa notizia secondo la quale il G., scontento della collocazione del Discorso che nella stampa romana del 1692 seguiva l'Endimione, sarebbe stato indotto dalla sua modestia a pubblicare a proprie spese un'edizione con falsi dati editoriali (Amsterdam, vedova Schippers), in cui l'ordine dei testi veniva rovesciato.
All'interno dell'Arcadia il G. rivestì un ruolo di primo piano. Tra l'altro, collaborò alla stesura delle Leggi arcadiche e ricoprì due volte la carica di vicecustode e tre quella di membro del Savio Collegio. Intrecciò rapporti di amicizia con molti dei principali accademici, a cominciare dal custode G.M. Crescimbeni, che fu suo ospite nell'agosto 1692, quando era stato cacciato di casa dallo zio che voleva destinarlo agli studi legali. Ottenne da Ranuccio II Farnese una sede per l'Accademia negli Orti Farnesiani sul Palatino, dove gli Arcadi eressero un teatro e si riunirono per qualche tempo. In seguito a discordie tra i poeti del gruppo (la cui scintilla fu forse un'egloga satirica scritta contro il G.), gli Arcadi persero quella sede: Ignazio Felice Santi, ministro del duca, fece capire loro che era meglio trovassero un'altra collocazione. Per un po' essi peregrinarono di villa in villa, poi Francesco Maria Ruspoli offrì un bosco e un teatro. Il G. fu anche, e in più occasioni, celebratore ufficiale di cerimonie arcadiche (da queste occasioni, peraltro, scaturirono alcune delle sue poesie più fortunate: Gli Arcadi in Roma, Gli Arcadi sul colle Palatino, Costumi degli Arcadi, La promulgazione delle leggi di Arcadia, Quando si decretò nell'Arcadia d'incidere l'elogio del principe Antonio Farnese, I giuochi olimpici in Arcadia). Nonostante tutto, però, egli mantenne sempre una totale autonomia, e non è anzi eccessivo parlare di un certo grado di isolamento, come sembra provare, tra l'altro, la sua quasi completa estraneità ai fitti scambi epistolari nati nell'ambiente arcardico.
Il 1° ag. 1692 fece recitare in Accademia la cantata La Dafne (poi stampata lo stesso anno a Roma), che conferma la linea poetica dell'Endimione, di cui ripropone essenzialmente la metrica e lo stile; in quest'opera viene interpretato secondo il nuovo gusto poetico un tema mitologico di matrice ovidiana caro alla letteratura (e all'arte) barocca. Il 12 giugno 1695 lesse personalmente un Ragionamento in morte di Ranuccio II, duca di Parma (pubblicato postumo nel tomo I delle Prose degli Arcadi, Roma 1718); peraltro, quella di recitare molto efficacemente propri testi, soprattutto in versi, era una caratteristica per cui era rinomato, e della quale andava molto fiero.
Nel 1704 pubblicò un volume di Rime (ibid.), in cui raccolse la produzione lirica maggiore a partire dalla canzone per il barone d'Aste.
I ventidue componimenti si segnalano innanzi tutto per le soluzioni metriche non convenzionali: se nei testi del periodo cristiniano (tra cui Celebrandosi il dì natale di Cristina regina di Svezia, Educazione di Cristina per l'armi, Per l'urna eretta nella basilica Vaticana alle ceneri di Cristina regina di Svezia) predominano le canzoni di stampo chiabreresco, in quelli del periodo arcadico il G. approda alla canzone libera, o a selva, in cui endecasillabi e settenari si alternano senza schema fisso. Tali scelte vengono rivendicate orgogliosamente dal poeta nell'avviso A chi legge: l'abbandono di "quegli stretti legami, che per lo addietro si son praticati nelle canzoni sì nella qualità, e nel numero de versi, come altresì nell'alternar delle rime", non pregiudica affatto il raggiungimento di "quella grave armonia, che è l'anima della lirica". Nella raccolta sono evidenti, e tali apparivano già ai lettori contemporanei, le influenze bibliche e profetiche, che si affiancano al prediletto modello di Pindaro, che il G. - pur avendolo potuto leggere solamente in traduzione - sente di poter eguagliare. Tra le due fonti, contrariamente alle apparenze, è il testo sacro a fornire maggiori spunti, come aveva visto già Crescimbeni.
Tutti i testi usciti nel 1704 furono ristampati nelle Rime degli Arcadi (I, ibid. 1716): nella stessa sede si trovano anche alcuni sonetti del G., tipici rappresentanti del petrarchismo arcadico.
Il G. mantenne costantemente contatti con Pavia, città alla quale continuavano a legarlo parecchi interessi (essendo canonico di S. Invenzio, era stato titolare fino al 1704 dei beni di prebenda nella terra di Lionasco), e in cui fece ritorno nel 1709, per prendere possesso di un'eredità lasciatagli da alcuni parenti. Nel corso del viaggio, fece tappa a Bologna, a rivedere l'amico G.G.F. Orsi, e a Parma, dove si fermò a corte, ben accolto dal duca Francesco.
Giunto nella città natale, fu incaricato dal Comune di scrivere a nome degli "abbati e deputati al governo della città" un memoriale diretto al principe Eugenio di Savoia, governatore della Lombardia, per chiedere l'abrogazione di un nuovo sistema di tassazione invalso nello Stato di Milano, che si era rivelato rovinoso per Pavia. Il G. stese e fece pubblicare il testo (stampato senza titolo né note editoriali: Martello, p. 246, lo cita come Scrittura in forma di memoriale contro il nuovo sistema de' pesi dello Stato di Milano), che ottenne il risultato sperato; ciò gli valse l'ammissione all'Ordine dei nobili e decurioni della città, ufficializzata il 26 marzo 1710.
Nell'ottobre dello stesso anno fece testamento e nell'estate del successivo tornò a Roma; il papa Clemente XI, sapendo che aveva subito forti diminuzioni di rendita, lo fece mettere nel novero dei suoi famigliari e gli fece assegnare una provvisione mensile. Sempre nel 1711 la divergenza di vedute tra Gravina e Crescimbeni, ormai insanabile, portò alla scissione dell'Accademia dell'Arcadia (il primo diede vita con i suoi seguaci all'Arcadia Nuova, che assunse nel 1714 il nome di Accademia dei Quirini). Il G., nonostante la sua poesia fosse oggettivamente più vicina agli ideali di Gravina, fautore di un classicismo esemplato su modelli greci e latini, scelse di rimanere nel seno dell'Arcadia accanto a Crescimbeni, che invece si richiamava a esempi della letteratura italiana, a cominciare dal Petrarca, e che aveva manifestato qualche perplessità su alcuni aspetti della poesia guidiana, a cominciare dalla libertà metrica, reputata eccessiva.
Dopo il ritorno a Roma, nonostante il peggiorare delle sue condizioni di salute (soffriva in particolare di forti sonnolenze che gli rendevano assai difficile la scrittura), il G. lavorò a due nuovi progetti letterari: una tragedia su Sofonisba, mai portata a termine, e Sei omelie, traduzioni in versi di testi latini di Clemente XI.
Nonostante l'entusiastico giudizio di Crescimbeni (1712, p. 202), il quale riteneva che nelle Omelie il G. avesse "senza dubbio toccato il sommo della perfezione", l'opera non sembra aggiungere nulla, né al livello dei contenuti né a quello dello stile, a quanto l'autore aveva già espresso nella produzione precedente; si tratta in sostanza di una serie di amplificazioni retoriche dell'asciutto testo originale.
Nel giugno 1712 il G. partì alla volta di Castelgandolfo per portare in dono al papa la prima copia delle Sei omelie (stampate a Roma); ma non lo raggiunse, perché fu colpito da apoplessia e morì a Frascati, nella notte fra il 12 e il 13 giugno 1712.
Significativa della visione che del poeta avevano i contemporanei è la fantasiosa notizia riportata da Martello secondo cui a causare il colpo apoplettico sarebbe stata la scoperta di un errore di stampa nel testo delle Omelie. Il giorno dopo la morte, Clemente XI fece improvvisare al poeta estemporaneo Bernardino Perfetti un encomio del Guidi. Secondo il suo desiderio, il G. fu seppellito a S. Onofrio sul Gianicolo, accanto alla tomba di T. Tasso (e tale collocazione fu oggetto di un severissimo giudizio del giovane Leopardi). L'anno successivo gli fu decretata nell'Accademia la lapide commemorativa come arcade illustre.
La fortuna critica di cui il G. godette in vita durò quasi senza eccezioni per tutto il Settecento. Tra i giudizi positivi vanno ricordati quelli di Parini, Alfieri e Foscolo, dopo il quale iniziò a essere predominante una lettura sfavorevole della sua opera, che permane sostanzialmente fino a oggi. Piuttosto controversa è la questione delle influenze che secondo parecchi studiosi il G. avrebbe avuto su alcuni dei maggiori poeti sette-ottocenteschi, come Parini, Monti, Foscolo, Manzoni e soprattutto Leopardi, che avrebbe tenuto presente il precedente del G. nella composizione della canzone libera.
L'edizione più completa delle opere del G. uscì a Verona nel 1726 con il titolo Poesie d'Alessandro Guidi non più raccolte e comprende: le Rime, le Sei omelie, L'Endimione, l'Accademia per musica, La Dafne, il Ragionamento, e i Sonetti. Un'edizione critica delle Poesie approvate (L'Endimione, La Dafne, Rime, Sonetti, Sei omelie) si deve alle cure di B. Maier (Ravenna 1981). Otto lettere inedite di A. G. a Giovan Gioseffo Orsi sono edite da B. Maier, in La Rass. della letteratura italiana, XCI (1987), 1, pp. 66-76.
Fonti e Bibl.: Oltre alla Nota bibliografica dell'edizione Maier delle Poesie approvate, cit., pp. 81-90, si possono vedere: G.M. Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma 1712, pp. 202, 208, 211, 224; P.J. Martello, Vita di A. G., in G.M. Crescimbeni, Le vite degli Arcadi illustri, III, Roma 1714, pp. 229-248; G.M. Crescimbeni, Vita dell'abate A. G., in A. Guidi, Poesie… non più raccolte, cit., pp. VII-XL; G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, I, Milano 1973, pp. 39-43; Id., Lettere, a cura di F. Flora, Milano 1977, pp. 174, 398; G. Claretta, La regina Cristina di Svezia in Italia, Torino 1982, p. 325; B. Maier, A. G. "barocco" e "farnesiano", in Annuario bibliografico d'italianistica, L (1982), pp. 38-56; L. Felici, A. G. nella critica del Novecento, in Il Lettore di provincia, XIII (1982), 49-50, pp. 6-11; A. Fabrizi, G., A., in Diz. critico della letteratura italiana (UTET), III, Torino 1986, pp. 469-473; C. Repossi, A. G. tra il Ticino e l'Arcadia, in Boll. della Società pavese di storia patria, XLIII (1991), pp. 279-299; C. Di Biase, Leopardi e l'Arcadia, in Id., La letteratura come valore. Da Tommaseo a Eco, Napoli 1993, pp. 81-97; F. Tateo, La retorica del petrarchismo in Arcadia, in Id., "Per dire d'amore". Reimpiego della retorica antica da Dante agli Arcadi, Napoli 1995, pp. 221-242.