GRANZINO, Alessandro
Nato attorno al 1590 a Bergamo dal milanese Niccolò e, con tutta probabilità, da una donna del luogo, la sua esistenza è ben presto segnata dalla caduta in disgrazia del padre che - reo di contrabbando di "grani" e, peggio ancora, di tramato tradimento della Serenissima per conto di P. Enríquez de Acevedo conte di Fuentes, governatore di Milano, nel cosiddetto "negotio" di Brescia - all'inizio del Seicento viene, con "degno castigo" incarcerato a Venezia. Ed è qui che il G. - il quale deve aver avuta una certa istruzione, com'è desumibile dal non impacciato italiano delle sue lettere informative - arriva, al più tardi all'inizio del 1608, per tentare di ottenere, in qualche modo, la liberazione del padre.
Essendo questi suddito spagnolo occorrerebbe un inoltro di domanda di grazia da parte del rappresentante del re Cattolico a Venezia Alonso de la Cueva y Benavides (marchese di Bedmar dal 1614) e una concomitante autorevole pressione di qualche patrizio che si prenda a cuore la sorte di Niccolò Granzino. Fosse stato realmente "inimico e tradittore" della Serenissima questa l'avrebbe giustiziato. Sua colpa provata quella del contrabbando; a espiare questa gli anni già trascorsi nelle "carzare" lagunari dovrebbero bastare.
È, dunque, per attivare con argomenti del genere l'ambasciata spagnola e la sensibilità di quanti contano a palazzo ducale che il G. motiva la propria permanenza a Venezia; ed è all'insegna della causa della liberazione paterna che si presenta all'ambasciatore di Spagna e ai patrizi più influenti. A vuoto, comunque, i suoi tentativi in tal senso perché né de la Cueva né un qualche nobile di spicco risultano da lui persuasi ad adoperarsi per la scarcerazione di suo padre. Sicché questi rimane "prigione" a Venezia morendo tra le sbarre al più presto nel 1613 o, al più tardi, prima del 17 sett. 1615, quando l'imolese Alessandro Falconi indirizza una denuncia anonima agli inquisitori di Stato ove assicura che il G. sta ricalcando, a danno della Repubblica, il pessimo "esempio" del padre defunto in prigione. L'impressione è, comunque, che il G. abbia desistito ben presto dal pensare seriamente a far uscire dal carcere il padre, accontentandosi, nel contempo, di alleviarne i disagi visitandolo spesso, portandogli del vitto e, insieme, sistemandosi a Venezia. Senza una professione, senza mezzi è spiando o fingendo di spiare, rivelando o fingendo di rivelare che tenta di campare. Della metà, circa, giugno del 1608 la sua prima missiva agli inquisitori di Stato a proposito del fiorentino Cosimo Baroncelli intenzionato a farsi arruolare dalla Repubblica. E di lì a poco, nel 1609, va ad abitare nei pressi dell'ambasciata di Spagna, a S. Sofia, in casa d'Antonio Meschita, un prete portoghese che fa il "novellista" a pagamento e che, "homo astutissimo e sagace", un po' collabora o finge di collaborare non senza un po' di guadagno con il velleitario intrigare di de la Cueva. Ospitato in una "cameretta", il G. ripaga Meschita del vitto e dell'alloggio come scrivano, ricopiando "reporti et altre scritture" che, venduti, fanno guadagnare il padron di casa e, sia pur poco, pure il Granzino. Una vita faticosa, a dir del G., questo assiduo "copiare" con "sudore", ancorché interrotto dall'intermittente "commercio carnale" con Cecilia Novello, la quale è convivente di Meschita, sua amante da anni. Donna navigatissima, seduce il G. estorcendogli altresì una promessa di matrimonio. È evidente che, d'accordo con l'amante - dalla continuata relazione con il quale è nata una figlia - sta ingannando l'incauto giovane. È il padre del G. a intuire il tranello e a strepitare dal carcere perché le nozze non si celebrino. Ma vano il suo appello a Francesco Vendramin, il patriarca, poiché il segretario di questo, Andrea Salici, in combutta con Meschita, malgrado le "ragioni" in contrario, si affretta a pubblicare "le stride" il 2 ott. 1610; lo stesso giorno il G. e Cecilia Novello, "donna" di Meschita, furono sposati, nella chiesa di S. Sofia, dal parroco Domenico Querengo.
Così, almeno, racconterà lo stesso G. quando tenterà di ottenere la separazione autoprofilandosi a mo' di innocente tutto ingenuo candore preda dell'altrui perfidia; ma se mai è stato candido, non lo è più nel 1615, quando si adopera per evitare lo sfratto di "certa mia donna" esercitante la prostituzione in una "casa […] alla Maddalena", con lucro anche del G. suo protettore.
A questo punto, poiché "la cosa era fatta", non resta al G., a ciò convinto dal padre, che metter su casa a S. Samuele. Ma non per questo Meschita esce dalla vita di Cecilia, poiché - con la scusa di vedere la figlia da lei avuta -, quando il G. è assente, è assiduo in casa sua.
"Giovine […] povero", scrive del G. a Roma, il 14 genn. 1612, il nunzio pontificio B. Gessi, con "moglie in Venetia", ove "si va trattenendo con cercare guadagno" fornendo "avisi". E pagate, in effetti, le sue notizie dalla corte gonzaghesca di Mantova e da quella farnesiana di Parma, mentre il nunzio al G. non dà alcun credito. E laddove a Roma il cardinale Scipione Borghese propenderebbe ad avvalersene, Gessi, il 10 novembre, esclude "si possa in lui far saldo et ordinario fondamento", perché è improbabile che "alcuno del pregadi o collegio […] riveli" proprio a lui le "cose del governo". Che intanto il G. sia riuscito a sistemarsi nel novero dei familiari dell'ambasciatore di Spagna e sia andato a vivere con la moglie in casa di quello - e vi ha una stanza, il vitto e un salario di 10 ducati al mese - non vale ad accreditarlo agli occhi di Gessi. Può essere sì sfiorato da "nuove o relationi di qualche curiosità", ma è sprovvisto di "qualità", di doti di comprensione. Non vede "chi significhi cose importanti" a uno come lui, a "un pari suo". Il G. non può che spacciare "le nuove di Rialto", le chiacchiere di "qualche nobile" a lui riferite da un "servitore" le quali "per lo più saranno cose communi e note". Sicché il nunzio ritiene non "sia da tenersi conto della proposta" di collaborazione avanzata dal Granzino. Ma se Gessi al G. non bada, disposti ad ascoltarlo sono, invece, i patrizi veneziani Vido Diedo - cui il G. invia "polize" che questi trasmette agli inquisitori di Stato - e il futuro doge Niccolò Contarini, "principalissimo soggetto", in Senato "stimatissimo" e "seguito", con il quale il G. - così vanterà esagerando in una sua lettera del 10 sett. 1616 al consigliere gonzaghesco Annibale Iberti - instaura un rapporto sin di "amicitia e confidentia". Che il G., tra il novembre del 1611 e l'aprile del 1612, faccia pervenire "osservationi della persona" di Angelo Ceruti - un parmigiano titolare della farmacia "al sole" in campo Due pozzi, "boticario de medicinas de mi casa", come riconosce de la Cueva, e "intermediario", a detta del medesimo, "en la inteligencia" tra lui e Angelo Badoer - è, per gli inquisitori di Stato, di estremo interesse. E quel che il G. può dire colle sue "riferte" non lo si sente a Rialto o in piazza S. Marco. Lo rivela da dentro la dimora del rappresentante del re Cattolico. Se non altro per questo il G. va preso sul serio. Ecco allora che, il 7 ott. 1612, i tre inquisitori - lo stesso Contarini, Giovanbattista Vitturi, Niccolò Donà - non disdegnano di riceverlo per apprendere dalla sua "viva voce" ulteriori "particolari" e per assicurarsi del suo "fedel e diligente servitio". Pericoloso il tramare dell'ambasciator di Spagna come l'"affare" Badoer sta mettendo in luce. Che il G. - "stipendiato et ai servitii del signor ambasciatore di Spagna residente in questa città" di Venezia, come egli stesso si qualifica - spii le mosse di de la Cueva e di chi lo frequenta è un grosso vantaggio per la Repubblica. Un'occasione da non lasciar cadere la sua "dispositione" al "servitio" della Serenissima.
Confidente stabile, a questo punto, degli inquisitori il G., loro agente segreto - ma resta l'interrogativo che, invece, non sia così; che de la Cueva sappia dello spifferare del G. agli inquisitori; e da sospettare addirittura con lui concordi quel che spiffera - infiltrato nel covo stesso donde il nemico sta tramando contro la Repubblica. Luogo di oscure manovre ormai la rappresentanza spagnola per chi, come Contarini, sospetta la Spagna capace di tutto e nemico dichiarato della Repubblica il rappresentante del re Cattolico nel frattempo divenuto marchese di Bedmar. Ma questi è tanto più pericoloso in quanto a lui si rapportano i patrizi filocuriali e, insieme, filospagnoli, a tal punto ostili al settore antispagnolo e anticuriale del patriziato da farsi conniventi del congiurare di Bedmar.
Compito del G., allora, proprio quello - così lo stesso G. in una missiva agli inquisitori del 17 giugno 1617 - di "sempre penetrar et intender chi fossero quelli del ordine de pregadi" dal così "puoco amore alla loro patria" da svelarne "li secreti all'ambasciator dal quale" il G. dipende. A dir del G. la sua è una situazione a rischio estremo, di "pericolo" continuo. Se Bedmar, precisa, "sapesse solo una delle minime attioni fatte per servitio della Serenissima, sarei al sicuro privo di vita". Di per sé tanto rischiare meriterebbe lauti compensi. E, invece, questi sono esigui. Si dà una sorta di braccio di ferro tra il G. e gli inquisitori. Questi pretendono rivelazioni di "cosa importante"; quello, sinché non "gratificato et sodisfatto nelle sue dimande" di consistente remunerazione, si limita a "lettere" di "continenza" insignificante, fatte - lamentano gli inquisitori il 10 luglio 1615 - di "cose senza fondamento", di "immaginarii discorsi" senza "notitia con qualche particolare da potersi comprobare", senza riscontri probatori. Un attacco a Contarini stesso, che al G. dà "denari", la denuncia contro il G. di Falconi.
Il fatto l'inoltri Barbon Morosini è indice di spaccatura nel patriziato, di contrasto all'interno dello stesso sistema di vigilanza veneto nel puntare o meno sulle rivelazioni del G., nel pagarle o no e, se sì, nell'entità del compenso. Senza esito, comunque, la denuncia di Falconi che, campante alle spalle di una "comediante", non è il più indicato a ergersi a giudice della moralità del G., a suo dire immerso "in diverse sorte di vitii".
Fortemente raccomandato da Contarini e Diedo - questi non teme di esagerare a dirlo "buon servo della Republica", a lodarne il "bon desiderio" di continuare a esserlo -, il G. viene confermato nell'incarico; ed egli, il 10 dic. 1615, ribadisce il proprio impegno a pro "di questa amata patria" spiando Bedmar "mio signore", inclusi i dintorni e contorni.
Arduo, però, abitare in casa di Bedmar, quando la moglie vi si comporta scandalosamente e quando "alcuni di casa" si vanno vantando "in publico" del "commercio" che han con lei. Troppe volte "offeso nell'honore" il G. dall'indegna consorte, la quale poi - nel suo "spiar" il G. per "ritrovarlo" con altre, è il G. stesso che così racconta nell'istanza di separazione del 1620 circa -, quando lo sorprende, appunto, in intimi colloqui, dà in escandescenze, strepita, lo aggredisce sboccatissima con "vilanie" e "parole enormissime e birbone". A nulla vale che il G., per e pur di zittirla, la bastoni brutalmente. Troppo frequenti le scenate. E sempre più aspri i "disgusti" tra il G. e "un di casa" Bedmar, per via di Cecilia. Forse per volontà dello stesso Bedmar, oltre che sua, il G., alla fine del 1617 va a star per conto proprio, in una "comodissima casa" sul Canal Grande, nei pressi dell'ambasciata, sin "contigua" a questa. Così è più libero nel suo tener "praticha con nobili" veneziani, senza per questo smettere di osservare quel che succede nell'ambasciata spagnola, come sottolinea, il 23 dicembre, in una sua lettera a Iberti.
Sempre destinataria, dal 1609, la corte mantovana di informazioni che il G. spaccia per segretissime. E ancorché i residenti gonzagheschi a Venezia si adoperino per screditarlo - il G. sta loro rubando il mestiere; e allora tentano di scalzarlo ripetendo che è "un poverissimo giovane, che, per guadagnarsi da vivere" va "inventando avisi" e segreti e "scritture" che trasmette "sotto modi coperti per renderle più care"; piazza merce avariata, chiacchiere raccattate, "cose di piazza et ben communi" -, da Mantova il G. riesce a spillar quattrini. Per sei anni - contabilizza il G. in una lettera del 13 ott. 1618 alla corte mantovana - è stato compensato con 10 ducati al mese. Poiché non ne ha avuti che 184, il G. si sente in credito. Tutti soldi buttati via, tutti "gettati al vento" quelli dati al G., assicura, il 17 giugno 1617, il residente mantovano Battaino. Con un tal informatore, avverte, ancora il 17 sett. 1616, Camillo Sordi, il predecessore di quello, il duca di Mantova rischia il ridicolo. Bedmar - e qui è detto chiaramente che egli non è ignaro di quel che fa il G. - "si ride" e di lui, il duca di Mantova, e dell'ambasciatore sabaudo a Venezia, i quali fan "capital" degli "avisi" del G., quasi provengano da "senatori di pregadi".
Ma il G. ai soldi di Mantova non vuol rinunciare. E, con indubbia faccia tosta, scrive direttamente, il 2 dic. 1617, al duca Ferdinando ricordandogli che, già "amato svisceratamente" da suo padre Vincenzo, si è occupato, all'insaputa dei suoi stessi consiglieri Chieppio e Iberti, per suo conto di questioni rilevanti, di "affari grandi". Faccende grosse in vista ora non ce ne sono. Ciò non toglie che il G. - sempre che Ferdinando lo ricompensi munificamente - potrebbe per lui spiare alla grande. Ha l'opportunità, con la complicità di un paggio, di impadronirsi momentaneamente delle due "chiavette" dei due scrittoi dove Bedmar custodisce la corrispondenza più segreta. Appese quelle, le "chiavette", a una "colanetta" che l'ambasciatore "porta al collo attaccata", salvo togliersela negli incontri galanti con "qualche dama". Si tratterebbe di approfittarne. Ma quel che sembra semplice si complica per l'imprevisto venir meno della fiducia di Bedmar nel paggio: privato bruscamente questi "della sua gratia", alla "camera" non si può più "aprosimar". Sicché, per il momento, il G. non può che inviare copia di un paio di relazioni di ambasciatori veneziani - entrambe "importantissime", sottolinea - e spedire un "piego" rubato all'agente spagnolo Freyle, corrispondente, come d'altronde il G., da Venezia del duca di Parma. Vien compensato con 20 zecchini, i quali - lamenta - sono troppo pochi rispetto "alli meriti et fatiche" suoi.
E, intanto, il G. si è rimesso - così "comandato" da Bedmar, come egli stesso avvisa, il 2 genn. 1618, gli inquisitori - ad abitare nell'ambasciata, quivi intento a "penetrar le cose dell'ambasciatore", a segnalare agli inquisitori chi con lui tratta "secretamente" e "confidentemente". E tra questi tal dottor Bai, già "prigione" degli inquisitori, un uomo d'armi, taluni "nobili marciani". Rivelazioni da poco, "cosette" come riconosce lo stesso G., ignaro che, nel frattempo, il governo sta enormizzando, per poterla stroncare preventivamente, la cosiddetta congiura di Bedmar. Colto di sorpresa il G., è costretto a riscontrare - come scrive, il 24 maggio 1618, al segretario del Consiglio dei dieci Bartolomeo Comino - l'irrilevanza, in sede di decisione operativa, dei suoi "salutiferi raguagli" cestinati come "cose frivole e di pocho momento". Certo che come spia a Mantova si scredita. Nessun anticipo da parte sua di quel che a palazzo ducale si stava decidendo. Non gli resta che minimizzare, in una lettera del 3 giugno, a Iberti, l'accaduto: pochi sconsiderati "apesi" per i loro farneticanti "castelli in aria". È vero che non c'è stata un'autentica pericolosa "congiura", che la "presuposta congiura" è consistita in qualche chiacchiera dissennata. Ma non coglie il motivo per cui il governo veneto è intervenuto fulmineo d'un tratto, quasi la Repubblica dovesse essere salvata: quello di allontanare, una volta per tutte, un ambasciatore intrigante come Bedmar. Costretto, infatti, costui a riparare in tutta fretta a Milano. In ambasciata rimane il G.: "io son qui", fa presente al duca di Mantova, pronto a fornire "robba bona et sicura", notizie di prima mano, fondate. E, intanto, da Torino, il 23 ottobre, l'ambasciatore straordinario Renier Zeno allerta gli inquisitori sull'attività del G. quale prezzolato propalatore di "avisi". Nel ringraziarlo dell'avvertimento gli inquisitori non si trattengono dal far presente a Zeno che da un pezzo sanno della "mala prattica" del G.; se non la stroncano subito è perché contano di farlo "con frutto maggiore" in seguito.
"Tolleranza", dunque, da parte degli inquisitori per il G. "novellista" e, insieme, vigilanza. E, allora, "intercetta" e poi "rimandata alla posta", così che i sorvegliati non se ne accorgano, la corrispondenza tra il G. e Meschita, che ha seguito Bedmar a Milano.
Non salta fuori niente di politicamente interessante. I due si scrivono per via di Cecilia, che, andatasene da Venezia, il G. suppone sia da Meschita, mentre questi scrive al G., suo "compare" che la donna - "mia comare" - da lui "non è ancora comparsa", come scrive il 19 genn. 1620 al G. che, il 28 dic. 1619, gli ha scritto quasi disperato perché senza notizie della moglie al punto da dirsi "il più travagliato huomo di questo mondo". Quando poi Cecilia rispunta a Milano da Meschita e questi gliela rimanda a Venezia, il G. - che tanto l'ha reclamata - non ne vuol più sapere: sdegnato dal costante "concerto" tra lei e Meschita, con addosso l'"infamia del marito" vilipeso, fa appello al patriarca perché gli sia concessa la separazione e, insieme, l'affidamento dei tre figli avutine che si impegna a educare nel "timor di Dio". Funesto, quando il G. si appella al patriarca, il losco Meschita nella sua vita coniugale. Ma non si sa sino a che punto prestargli fede, dato il comparaggio tra i due, dato che i due non hanno mai smesso di frequentarsi.
Forse è ospite di Meschita il G. quando, nella primavera del 1619, per un po' a Milano donde si porta a Bergamo, scrive di qui, il 1° e il 19 giugno, agli inquisitori due lettere nelle quali si adopera a mettere in cattiva luce il residente veneto Antonio Maria Vincenti che avrebbe troppo praticato con "familiari" del governatore spagnolo e che se ne torna a Venezia con troppo denaro, con troppa "argenteria" perché non ci sia da sospettare.
Ma lunga, lunghissima la lista dei sospettabili desumibile dalle informazioni che il G., rientrato a Venezia il 23 giugno, continua a indirizzare agli inquisitori: il padre guardiano dei Frari; i fratelli Pisani; un trentino divenuto in fretta da facchino mercante di coloranti; un tessitore milanese; un "muschiere", ossia un profumiere, comasco; il libraio Ciotti; un francese che informa don Luis Bravo - il successore di Bedmar - sull'"opinione pubblica" divisa tra "paolisti", ossia i seguaci di fra Paolo Sarpi, e "poche case dette le vecchie", ossia il grande patriziato conservatore, filopapalino, filospagnolo; un fiorentino che, introdotto in ambienti nobiliari, sa "molti segreti"; il "collaterale" Antonio Collalto; un informatore romagnolo; un droghiere a S. Bortolomio; il bergamasco Ferdinando Tassis, quello "che ha la posta di Fiandra et Augusta". Avversi, sempre a detta del G., alla Repubblica e filospagnoli tanti nobili di Terraferma, nelle città suddite specie a Vicenza e, in misura decrescente, a Padova, Verona, Bergamo, Brescia. E attivo, sempre a dir del G., Bravo nel ricucire la rete antiveneziana già ordita da Bedmar e nell'allargarla viepiù estendendola "da patrici in poi", sino ai "beccari", ai contrabbandieri, a qualche ebreo levantino. "Ogni sorta di gente" fa capo all'ambasciatore, che va spargendo "veleno", che dà "ricetto a persone cadute in disgrazia di questo dominio", nella cui casa è sin presenza stabile un ricco mercante ebreo con il quale si apparta in misteriosi conciliaboli il patrizio veneto Andrea Valier. Allarmistiche le "riferte" del G., cui un po' gli inquisitori badano se, nel marzo del 1620, arrestano tal avvocato Ferrarin dal G. denunciato per il suo corrispondere "in cifra" con l'arcivescovo di Trento cardinale Carlo Gaudenzio Madruzzo. Con questo pure il G. è in rapporto. Ad ogni modo, quasi a mettere le mani avanti, forse perché sa che gli inquisitori sanno di questi suoi rapporti, li ammette prima che gli vengano rimproverati: a Madruzzo, scrive il 27 marzo, "soglio mandare alcuni avisi di Francia, Roma et altre parti"; e, ad attestare la limpidezza della sua condotta, consegna agli inquisitori un paio di lettere a lui indirizzate dal segretario del cardinale. Ma il tasto sul quale il G. confidente degli inquisitori più batte e ribatte è quello della potenziale pericolosità dell'ambasciata spagnola, quasi avamposto nemico piantato nel cuore della Repubblica. E ha appena finito di lanciare il suo ultimo allarme, quando, il 20 luglio, viene arrestato dal capitano grande.
"Dicono", così il 25 il residente mantovano Battaino, "sia per la causa" di quel Giovanni Minotto che, il 27, viene relegato a vita nei "camerotti" e, con in più, l'ignominia del silenzio ventennale sul suo nome, perché nel libro paga di Bravo e perché rivelatore di segreti di Stato. Forse il G. - anziché lanciare sospetti a destra e a manca - avrebbe fatto meglio a denunciare con dovizia di prove costui. E, invece, eccolo "incappato", come informa Battaino, "et posto nei camerotti" e quivi "molte volte […] essaminato", incalzato, torchiato con incessanti interrogatori.
"Sepolto vivo" il G. "29 mesi in una oscura sepoltura per persecutione de maligni" dalla quale - finalmente riconosciuta la sua "innocenza" e "senza intimatione de' diffese, né altro, con li soli costituti licentiato" - esce alla luce del sole, come annuncia esultante, il 3 dic. 1622, al duca di Mantova, il quale, però, si guarda bene dal commissionargli altri "avisi". Dopo la "liberatione" dal carcere l'amarezza della disoccupazione. Donde la decisione di trasferirsi a Milano - e qui il "compare" Meschita, al più tardi nel novembre del 1622, tradotto nelle carceri arcivescovili risultando "carcerato" ancora, quanto meno, nel 1624 -, ove la sorte gran che non gli arride se, manifestata ancora nel settembre del 1627 l'intenzione di riprendere il servigio degli inquisitori al segretario del Consiglio dei dieci e futuro cancellier grande Giovanbattista Padavino, il 5 genn. 1628, il G. si rivolge direttamente a quelli riproponendosi come confidente. Accolta questa sua disponibilità: sicché torna a Venezia, indirizzando, il 10 giugno del 1630, la sua prima informazione al segretario del Consiglio dei dieci, Vincenti, lo stesso che in passato aveva tentato di mettere in cattiva luce. Ci sono - racconta il G. - "nobili" veneziani in rapporto con don Luis Tenorio, già "coppier" di Bedmar, già gentiluomo di Bravo, il quale sarebbe "mezzano di cose gravi in pregiudizio del publico". Con lui Alvise Corner, da quando, nel 1620-21, ambasciatore in Spagna, avrebbe instaurato rapporti continuati. E già amante Corner di una Marietta "cortigiana" che trascorre il grosso del suo tempo dalla cugina Lucietta delle Frezze, della quale Corner è stato pure "amoroso" essendo tuttora da lei di nuovo attratto. E in "stretto commercio" con quest'ultima molti nobili, mentre Marietta - rivela il G. in un'altra missiva - è soprattutto la donna di Tenorio. C'è, ne desume il G., l'eventualità che Corner e Tenorio si incontrino di frequente. Più che una rivelazione il G. fa un pettegolezzo.
Ciò non toglie che presenti siffatti ragguagli quali frutto di una vigilanza dettata dallo "sviscerato et devoto affetto" per la Serenissima meritevole di "fermo assegnamento", di retribuzione fissa. Gli sfugge - impegnato com'è a sbirciare da vicino, a origliare, a insinuarsi - che, ora, nel 1630, Venezia non teme più la Spagna. E, di conseguenza, fondate o meno che siano, le sue rivelazioni sono insignificanti. Poco cale, poi, che un patrizio frequenti un frate che è stato in Spagna se, intanto, si avventa sulla città il flagello della peste.
Tra giugno e settembre del 1630 le lettere del G. agli inquisitori. Poi si interrompono sinché il G., alla peste scampato e, forse, allontanatosi da Venezia, non torna a farsi vivo con due lettere, una del 18 ottobre e l'altra del 22 nov. 1633, al solito agli inquisitori. Ambasciatore di Spagna è Juan Antonio de Vera y Figueroa, conte de la Roca, che ha per confessore un frate sardo di "gran valore et gran statista". A detta di Giacomo Cardosa - il console di Spagna del quale il G. sarebbe amico da oltre 20 anni - c'è da aver paura dell'ambasciatore: è "una terribile testa", è uomo "troppo orribile", capace di "cagionare gran revolucione in Italia". Pericolosissimo, allora, de la Roca. A sorvegliarlo meglio, quanto mai opportuno "tirare detto consolo" Cardosa "alla devocion della Republica", assoldare anche lui, con effetti "di gran conseguenza" per gli "interessi pubblici".
Questa raccomandazione, evidentemente sollecitata dallo stesso Cardosa, è l'ultima traccia dell'esistenza del Granzino. Confidente degli inquisitori, non risulta più tale dalla fine del 1633. E a lui subentra, par di capire, come confidente Agostino Rossi che, segretario di de la Roca, può su di questo informare meglio del Granzino.
Fonti e Bibl.: Arch. segreto Vaticano, Arch. della Nunziatura in Venezia, 42, cc. 339v-340r, 362r, 601v-602r, 607; Arch. di Stato di Venezia, Inquisitori di Stato, bb. 171 (lettere nn. 3-5), 606-610, 1214, passim; Venezia, Arch. storico del Patriarcato, Parrocchia di S. Sofia, Registri dei matrimoni, 4 (2 ott. 1610); P. Negri, La politica veneta contro gli Uscocchi…, in Nuovo Archivio veneto, n.s., XVII (1909), pp. 341-358 passim; A. Luzio, La congiura spagnola contro Venezia…, in Misc. di storia veneta, s. 3, XIII (1918), pp. 1-204 passim; L. Chiarelli, Il marchese di Bedmar ed i suoi confidenti, in Arch. veneto tridentino, VIII (1925), pp. 144-173 passim; G. Spini, La congiura degli Spagnoli contro Venezia…, in Arch. stor. italiano, CVII (1950), pp. 24, 26 s. e n.; B. Cinti, Letteratura e politica in J.A. de Vera…, Venezia 1966, pp. 20-22, 73 s.; P. Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano 1999, sub voce; G. Cozzi, Venezia barocca: conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia 1995, ad indicem.