GERALDINI, Alessandro
Nacque ad Amelia, presso Terni, nel 1455; la madre, Graziosa Geraldini, figlia di Matteo, andò in sposa in prime nozze ad Andrea di Giovanni Geraldini, un lontano cugino, e poi, morto costui, a Pace Bussitani. Dalla prima unione nacque Antonio, dalla seconda il G.: data la preminenza della famiglia Geraldini, dovette sembrare conveniente che anche egli assumesse il cognome materno.
La famiglia Geraldini, un'antica casata di milites dell'Umbria meridionale, era saldamente radicata in quell'area geografica e in particolare nella Chiesa locale, tanto che alcuni suoi esponenti avevano raggiunto elevate posizioni nella gerarchia ecclesiastica.
Ad Amelia il G. apprese le humanae litterae frequentando la scuola di Grifone di Amelia, un umanista assai conosciuto nella cittadina umbra. Secondo il suo biografo secentesco Onofrio Geraldini de' Catenacci, nel 1469 il G. si sarebbe trovato, insieme con il più anziano fratello Antonio, al seguito di una missione diplomatica dello zio Angelo presso il re d'Aragona Giovanni II e sarebbe da allora rimasto in Spagna. Tuttavia, in un elenco della famiglia, stilato nell'ottobre 1473, non si fa riferimento a incarichi fuori dall'Italia. La prima notizia della sua presenza in Spagna, riportata da Antonio, riguarda la partecipazione del G. alla guerra tra Castiglia e Portogallo, già nel 1475. In un secondo tempo, forse anche per via del successo di Antonio a corte, il G. lasciò la vita militare e mise a disposizione dei sovrani le sue conoscenze di umanista. Ebbe dapprima incarichi cerimoniali, poi, già prima del marzo 1477, fu segretario reale. Probabilmente tra il 1484 e il 1485 partecipò, al seguito del fratello, a una missione diplomatica in Bretagna. In questi anni ricevette l'ordinazione sacerdotale. Antonio, però, morì all'età di 40 anni, nel 1489, e il G. gli successe nella carica di precettore delle principesse, in particolare dell'infanta Caterina.
Alla corte dei re Cattolici i fratelli Geraldini ebbero probabilmente modo di incontrare e aiutare Cristoforo Colombo. Nel 1492, in una seduta della Giunta di Santa Fé che doveva decidere sull'attuabilità del progetto di Colombo, di fronte all'obiezione secondo cui sia s. Agostino sia Nicola de Lyra ritenevano impossibile una simile navigazione, il G. si sarebbe schierato a favore, sostenendo che i due erano sì grandi teologi ma non si erano mai occupati di geografia. Secondo gli scritti del G., in seguito Colombo, memore dell'episodio, avrebbe dato il nome della madre dei fratelli Geraldini, Graziosa, a una delle isole scoperte nel suo terzo viaggio e da situare presso la costa venezuelana.
Non era certo l'avventura verso Occidente che poteva interessare allora il G.: egli cercava infatti di progredire nella carriera ecclesiastica e ottenne nel 1496 la titolarità di un modesto vescovato, la diocesi di Volturara e Montecorvino, tra i monti dell'Irpinia. Non sappiamo nulla dei rapporti tra il G. e la sua diocesi né è noto se mai vi si recò, benché nella principale delle sue opere, l'Itinerarium ad regiones sub æquinoctiali plaga constitutas (l. XV), il G. stesso racconti di aver accompagnato il re Ferdinando d'Aragona nel suo viaggio napoletano compiuto tra l'estate del 1506 e l'estate dell'anno successivo, allo scopo di visitare il Regno recentemente acquisito.
Nel frattempo presso la corte di Castiglia si era aperta una lunga fase di instabilità, iniziata nel 1497, a causa della morte inaspettata del primogenito Giovanni, e durata almeno fino all'ascesa al trono di Carlo d'Asburgo (1516). L'incertezza sulla successione al trono, la morte di Isabella nel 1504, la "follia" di Giovanna, l'arrivo degli Asburgo e le conseguenti difficoltà in cui si trovò Ferdinando il Cattolico, dovettero procurare seri problemi anche al G. che, di fatto, non ebbe più una funzione precisa a corte. Inoltre, nel 1501, la sua allieva Caterina aveva sposato Arthur, figlio del re d'Inghilterra Enrico VII. Il G. partecipò alle trattative per il matrimonio o all'organizzazione delle cerimonie nuziali; comunque seguì la sposa in Inghilterra, e vi rimase dal novembre 1501 al giugno dell'anno successivo. Arthur morì il 2 apr. 1502 e ciò pose gravi problemi alle due monarchie. Sulla questione se il matrimonio fosse stato o meno consumato - questione essenziale che allora si pose perché Caterina potesse sposare il secondogenito, il futuro Enrico VIII - il G. dovette assumere una posizione contrastante con gli interessi sia dei Tudor sia dei re Cattolici, e fu perciò richiamato in Spagna. È possibile, inoltre, che in questa occasione nascessero gravi contrasti con Caterina, cosa che - nonostante i ripetuti tentativi nei quindici anni seguenti - gli precluse ogni opportunità di inserirsi nella corte inglese.
Nel 1515 è da collocare un secondo viaggio del G. in Inghilterra; non è chiaro però se si trattasse di un incarico di Ferdinando - per cercare di risolvere i problemi che il comportamento scandaloso del confessore spagnolo di Caterina creava ad Enrico - o se si trattasse solo del tentativo, abbondantemente testimoniato, di ottenere sostanziosi riconoscimenti della sua precedente attività di precettore e di cappellano privato. In ogni caso non ottenne nulla da Caterina, né una ricompensa né, tanto meno, la possibilità di rimanere a corte. Fallite le speranze inglesi e ritornato in Spagna, al G. la situazione non sembrava soddisfacente, non avendo egli ancora raggiunto quel prestigio cui ambiva per sé e la sua famiglia. Il 6 dic. 1515 si era reso vacante il vescovato di Santo Domingo, per la morte di Garcia de Padilla, il primo ad essere investito di quella carica benché non avesse mai raggiunto la sua sede episcopale. Il G. decise allora di proporsi come vescovo della diocesi nel Nuovo Mondo. Gli accordi con la corte spagnola dovettero essere perfezionati ben presto se la morte di Ferdinando, avvenuta il 23 genn. 1516, non bloccò la procedura: il G. fu presentato ufficialmente al papa come vescovo di Santo Domingo il 26 genn. 1516.
Il G. era interessato alle ricchezze dell'isola, che promettevano rendite comunque incomparabilmente superiori a quelle di Volturara. Con le sue conoscenze e la sua cultura egli pensava inoltre di poter essere l'organizzatore di tutta la Chiesa del Nuovo Mondo e per questo sviluppò intensi contatti con la Curia romana e con il papa Leone X, al quale più tardi avrebbe dedicato il suo Itinerarium. Le ricchezze delle Indie, di cui si favoleggiava e da cui il G. poteva aspettarsi le decime, o il ruolo eminente che sognava di svolgere, gli avrebbero inoltre consentito di beneficare molti giovani nipoti, come in effetti fece. Non è poi escluso che la sua passione per gli esotismi, che si riflette chiaramente nell'Itinerarium, fino a occuparne quasi tutta l'estensione, abbia contribuito a motivare la scelta, indubbiamente coraggiosa. Ma la ragione principale stava nell'instabilità politica della corte spagnola e nelle crescenti difficoltà dello stesso G. a trovare un ruolo stabile. Sicuramente influì sulla sua scelta la presenza a Hispaniola di un gruppo di funzionari legati al sovrano aragonese che egli doveva aver frequentato a corte; in particolare si giovò sempre dell'appoggio di Miguel de Pasamonte, il potente tesorero dell'isola, di cui era amico.
Nel 1515, comunque, il G. non aveva ancora preso la decisione di recarsi nei Caraibi: ancora due anni dopo vi inviò il nipote Onofrio e un criado (Diego del Río) col compito di curare i suoi interessi, facendoli accettare come canonici del capitolo della cattedrale di Santo Domingo. Intanto cercò di scoprire se, nelle attività diplomatiche della Curia romana, potevano aprirglisi altre opportunità; solo tre anni dopo la bolla papale di nomina (6 nov. 1516) il G. avrebbe raggiunto l'isola di Hispaniola, nel settembre 1519.
Nella primavera del 1516 il G. si recò probabilmente nelle Fiandre per prendere contatti col nuovo sovrano, Carlo, e per riprendere quelli con Margherita d'Austria, reggente dei Paesi Bassi, la sfortunata sposa del principe Giovanni che nel 1497 - durante i mesi di permanenza alla corte spagnola - era stata sua allieva; a lei il G. chiese sostegno economico e appoggi. Nell'estate si recò a Roma, dove partecipò alla congregatio generalis dell'XI sessione del concilio Lateranense V, seduta preliminare in cui si prese visione dei materiali e dei problemi da discutere (15 dic. 1516). Il G., impegnato al servizio del pontefice, continuava a rinviare il viaggio nella sua sede episcopale, con grave disappunto delle autorità spagnole, secondo cui l'assenza del vescovo era tra le cause delle difficoltà degli Spagnoli nel Nuovo Mondo. Così, se nel febbraio 1517 una real cédula ordinava alle autorità di Hispaniola di consegnare ai suoi inviati (Onofrio e Diego del Río) le rendite vescovili finché il titolare non fosse giunto nell'isola, il 22 luglio un'altra disposizione sollecitava il vescovo a recarsi di persona e senza indugio a prendere possesso personalmente della sua sede. Ma il G. si trovava in Inghilterra, inviato dal papa per perorare la causa di una crociata di tutta la Cristianità contro i Turchi. L'ambasciatore veneto lo vide, il 23 luglio 1517, al sinodo di Ten, e osservò che il primate inglese, l'influente cardinale Th. Wolsey, fu ben poco impressionato dalla sua missione. Il G. aveva in programma analoghe iniziative in Scozia e in Germania, che quasi certamente non realizzò, fermandosi invece in Inghilterra, da dove scrisse una lettera ai padri geronimiti a Santo Domingo (13 settembre). Una Oratio Alexandri Geraldini episcopi coram rege Russiae habita, spesso citata dai biografi come testimonianza di una sua ambasceria allo zar, non sembra essere il testo di un discorso realmente pronunciato, ma è piuttosto da considerare come un'esercitazione letteraria o come il tentativo di proporsi per tale missione diplomatica. Non sappiamo se il G. ritornò sul continente o se rimase in Inghilterra, da dove l'estate successiva scrisse ai canonici della sua cattedrale a Santo Domingo e dove forse partecipò alla missione del cardinale Lorenzo Campeggi, al fine di assicurare la partecipazione di Enrico VIII alla progettata crociata. Campeggi fu nell'isola dal 23 luglio al 24 agosto; il G. salpò per la Spagna solo il 18 settembre, giungendo a Cadice il 29 ott. 1518.
Tra la fine del 1518 e l'estate del 1519 il G. fu interamente assorbito dalla preparazione del suo trasferimento, come risulta dalla corrispondenza di quell'anno abbondantemente conservata. Il G. scrisse al conte Alberto Pio di Carpi per tentare di pubblicare le sue opere e chiamò in Spagna il nipote Lucio, che in seguito sarebbe stato suo tramite privilegiato con l'Europa, cui fece attribuire una rendita ecclesiastica a Santo Domingo. Accingendosi a partire per il Nuovo Mondo, il G. tentò di approfittare della situazione critica determinatasi in Spagna e nella colonia a causa del cambiamento della dinastia per ottenere, insieme con la dignità episcopale, anche cariche civili. In una lettera della fine del 1518 indirizzata al Consiglio della Corona, il G. chiedeva per sé importanti attribuzioni politiche e amministrative: il potere di controllare l'assegnazione degli indios ai coloni spagnoli, una funzione chiave nell'economia di una terra che dipendeva totalmente dalla manodopera indigena; la carica di presidente dell'Audiencia, che non era solo un organo giudiziario avendo anche importanti attribuzioni politico-militari; il compito di curare l'educazione dei figli dei caciques, già iniziata dai padri geronimiti. A parte l'ultima, le sue richieste non furono accolte.
Il 31 luglio 1519 il G. scrisse al re Carlo la sua ultima lettera da Siviglia e finalmente, il 4 ag. 1519, partì per Hispaniola; il 6 ottobre era già insediato a Santo Domingo. Qui fu costretto ad affrontare subito grossi problemi pratici. La chiesa cattedrale era una costruzione troppo modesta sia per ospitare un numero di fedeli che il nuovo vescovo immaginava crescente, sia per svolgere adeguatamente il suo ruolo simbolico di centro della Chiesa locale, mentre non esisteva nemmeno una sede vescovile. Inoltre, una parte della popolazione spagnola e dei vertici politici dell'isola vedeva con grande diffidenza il presule: il governatore Figueroa, infatti, scrisse alla corte spagnola che il nuovo vescovo appariva del tutto imbelle e che ragionava come un bambino. Invece il G. mostrava una notevole capacità organizzativa e inviava lettere al papa, al re, a vari prelati e uomini politici per ottenere aiuti: al re chiese in donazione uno dei due palazzi che la Corona possedeva a Santo Domingo, al papa - dal quale il G. si aspettava un appoggio decisivo - domandò indulgenze per raccogliere soldi da destinare alla cattedrale e all'ospedale, l'invio di reliquie di santi martiri e di quadri sacri. Nello stesso tempo informava Roma dei progressi della scoperta e conquista del Nuovo Mondo e inviava uccelli esotici ed effigi di idoli indigeni (zemí) che chiedeva fossero esposti in S. Pietro come testimonianza dell'opera di evangelizzazione.
Il G. concepiva il suo ruolo in maniera ambiziosa e lungimirante. Come l'isola di Hispaniola era allora il punto d'irradiazione per la scoperta e conquista di nuove terre, così la sede episcopale di Santo Domingo poteva diventare il fulcro della nuova Chiesa americana. In secondo luogo, era ben consapevole dell'importante ruolo civile che aveva da svolgere nel disciplinamento di quella società che, nei suoi scritti, si confondeva con la "ferocia" dei cannibali, e che gli sembrava fosse a rischio di anarchia. Proprio in vista di questo scopo era importante poter esibire i simboli dell'autorità e della maestà religiosa: la cattedrale, i quadri, il Ss. Sacramento, la sede vescovile; ma anche mostrare i segni della paterna misericordia di Dio, del papa, del vescovo: l'ospedale, il perdono delle atrocità commesse, il dono della civiltà agli indigeni. Tuttavia non era facile ottenere ciò di cui la diocesi aveva bisogno: le due successioni ravvicinate al trono pontificio e l'enorme distanza che ormai lo separava dai luoghi del potere annullarono l'efficacia degli sforzi del Geraldini. Perfino i lavori per la cattedrale iniziarono solo nel 1523, nonostante la prima pietra fosse stata posata due anni prima.
Verso la popolazione indigena il G. ebbe un atteggiamento contraddittorio. L'ammirazione umanistica per le antiche civiltà pagane di Roma e dell'Ellade gli consentiva di assumere un contegno paternalisticamente ecumenico: i pacifici indios Taino dell'isola sono, nei suoi scritti, esseri strappati loro malgrado alla pace e all'innocenza di una sorta di paradiso terrestre, costretti a una disperazione tale da giungere fino al suicidio collettivo; nei fieri Caribe volle riconoscere un'umanità, una storia "antica" e delle "tradizioni", sia pur inaccettabili. Inoltre condannò fermamente gli Spagnoli che si erano resi colpevoli di atrocità ai danni degli indigeni. Essi non potevano non essere perdonati, in quanto cristiani, ma andavano sottomessi all'autorità morale della religione: il G. proponeva che chi per avidità aveva depredato e sfruttato gli indigeni si liberasse dalla colpa restituendo almeno una parte dell'ingiusta ricchezza, acquistando indulgenze a favore della cattedrale e dell'ospedale. Ma quando i religiosi dell'Ordine di S. Domenico scatenarono la battaglia contro il sistema dell'encomienda e contro il commercio degli schiavi indios - catturati dagli Spagnoli in vere e proprie razzie sulle coste del Venezuela e deportati nelle isole maggiori dei Caraibi - il G. li osteggiò. Chiese al papa di farli tacere e di permettere l'acquisto di schiavi, perché indispensabili alla colonizzazione e per consentire loro di avvicinarsi alla fede.
Al di là della trasfigurazione letteraria e di alcuni atteggiamenti di maniera, il G. non abbandonò mai gli atteggiamenti pragmatici e utilitaristici dei colonizzatori spagnoli nel Nuovo Mondo. Secondo questa posizione - sostenuta dai coloni contro i quali si battevano i frati domenicani e Bartolomeo de Las Casas - l'estensione della cultura e della religione europee alla popolazione indigena non poteva essere disgiunta dalla loro utilizzazione come manodopera coatta al servizio degli Spagnoli: in caso contrario non era possibile garantire la presenza europea nelle terre americane.
D'altra parte, sin dai primi contatti con il Nuovo Mondo il G. non aveva trascurato i suoi interessi di colonizzatore. Già nel 1519, al momento della partenza, chiese senza successo il permesso di importare nell'isola un buon numero di schiavi negri da impiegare nella nascente industria zuccheriera di Hispaniola, che si avviava a soppiantare l'industria mineraria e per la quale erano previsti contributi governativi. Nei Caraibi, poi, il G. fu interessato ai commerci più lucrosi, pur facendo ovviamente agire in prima persona i familiari di cui si era circondato a Santo Domingo (ai canonici della cattedrale Onofrio e Diego del Río si erano aggiunti almeno la nipote Elisabetta e il marito). Nel 1521 un Geraldini è menzionato tra i primi coloni di Cubagua, l'isola venezuelana in cui schiavi indios pescavano in condizioni inumane le perle da avviare ai mercati europei. L'anno dopo, infine, il G. stesso figura come titolare di un'attività commerciale e un suo nipote è proprietario di una nave: vendevano nell'isola di Cubagua il pan de cassaba di Santo Domingo e non è improbabile che partecipassero anche al commercio degli schiavi.
Il G. morì l'8 marzo 1524 a Santo Domingo, nella cui cattedrale si trova tuttora il sepolcro.
Opere. Il G. scrisse molte opere, quasi tutte rimaste inedite e in buona parte perdute.
Gli scritti di cui si ha qualche notizia, spesso il solo titolo, sono di materia assai varia: di argomento ecclesiastico (Acta antecessorum suorum in Vulturariensis Ecclesia antistitum…), agiografici (De vita s. Benedicti sapphico carmine, Vita s. Catherinae virginis et martiris, Vita s. Alberti Monti Corvini episcopi), di spiritualità (Officia varia sanctorum, Sacrorum carminum libri XXIV), orazioni (Volumen orationum ad principes christianos pro bello contra Turcas movendo, di cui ci restano due orazioni: Oratio Alexandri Geraldini episcopi coram rege Russiae habita, Oratio Alexandri Geraldini Amerini episcopi Sancti Dominici habita coram Carolo Hispaniae…, a cui è da aggiungere la segnalazione di una raccolta di "multas ad varios principes orationum"), politici (De iis qui funguntur a secretis principum, De officio principis), pedagogici (De educatione nobilium puellarum liber unus, De educatione nobilium puerorum liber unus), encomiastici (Vita Caterinae Angliae reginae Henrici VIII), morali (Elogia virorum Roman0rum illustrium ab Aenea usque ad Pompeium magnum), uno scritto di argomento archeologico-epigrafico (Monumenta antiquitatum Romanarum e veteribus incriptionum recollecta suis itineribus et studio), esercitazioni poetiche (De Latii et Romae laudibus et antiquitatum praestantia elegiaco carmine, Invectivae liricae in malam fœminam, Multarum odarum opusculum, accanto a uno scritto di teoria della composizione poetica: De quantitate syllabaria et carminum compositione), raccolte di lettere (Epistolarum libri duo, Libellum variarum epistolarum, ma brevi raccolte di lettere si trovano in diversi manoscritti) e infine l'opera maggiore, L'Itinerarium ad regiones sub æquinoctiali plaga constitutas.
Terminato il 19 marzo 1522, l'Itinerarium fu dato alle stampe solo nel 1631, a Roma, a cura di Onofrio Geraldini de' Catenacci. Di esso sono conosciuti sei manoscritti, quattro latini e due in traduzione italiana: dei primi, due sono conservati presso la Biblioteca apostolica Vaticana, uno presso l'Archivio segreto Vaticano e uno presso l'Archivio di Stato di Firenze; i due italiani sono presso la British Library di Londra e la Biblioteca Nacional di Lisbona. L'Itinerarium è stato pubblicato in traduzione italiana, a cura di A. Geraldini, a Torino nel 1991, e poi a cura di E. Menestò, Todi 1992.
Il testo risente della sua destinazione (doveva stupire e interessare) e degli stereotipi letterari cui il G. si ispira. Egli distribuisce lungo il viaggio tutti gli esotismi che conosce: quelli dell'Africa romana (libri I-II), dell'Africa nera (libri III-XI), alle meraviglie che si raccontavano sul Nuovo Mondo (mostri oceanici, antropofagi, fenomeni naturali, libri XII-XIII). L'ultima parte (libri XIV-XVI) è dedicata alla descrizione dell'isola di Hispaniola.
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